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La stupidità collettiva indotta dal militarismo

Può darsi che, al momento opportuno, le classi popolari cerchino una via d’uscita diversa da quella militarista indicata dalle élite. Essendo uno che non disprezza la speranza — e che crede che le contraddizioni non si facciano scrupolo di travolgere tutto e tutti —, penso che potrebbe accadere.

Ecco, sì: la rivolta delle costellazioni sociali che hanno tutto da perdere dal riarmo e dalla corsa delle élite verso la disperazione militarista. Sarebbe meraviglioso trovare qualcuno che, per condizione, si opponga al miserevole destino che ci sospinge verso l’irrecuperabile.

Eppure, insieme alla speranza cresce in me il suo contrario. Temo il momento in cui gli effetti disastrosi delle politiche europee diventeranno evidenti. Allora, penso, non ci sarà alcuna rivolta, ma un adeguamento generalizzato — come se quell’esito fosse l’unico possibile, naturale, inevitabile.

Sempre più spesso mi sorprendo a muovermi all’interno di questa contraddizione. Prediligo però il lato negativo: proprio perché sono immerso in un campo politico e simbolico dominato dal militarismo, la mia reazione tende inevitabilmente al pessimismo. E con il passare dei giorni, la possibilità di capovolgere questa tendenza sembra ridursi sempre di più.

Disprezzo il militarismo, con tutto me stesso. Mi sgomenta questo stato di guerra permanente in cui viviamo — diffuso in ogni ambito dell’esistenza, fino a dissolvere i confini tra la sfera civile e quella militare. E non voglio partecipare a quella voglia di “menare le mani” che sembra essere diventata il contenuto sacro di ogni discorso, di ogni pensiero. Ma non mi illudo: tutto ciò avviene senza che questa nuova condizione susciti orrore.

Provare orrore per la guerra… quante volte ci siamo detti che le nostre istituzioni e i nostri valori nascono proprio da questa capacità di provare orrore? Quante volte abbiamo ripetuto il mantra della “risoluzione pacifica” dei conflitti, o dell’importanza della trattativa tra le nazioni, del primato dell’universale sull’interesse particolare? Tante, davvero. Eppure, oggi, è proprio questa visione orientata alla pace a essere rimessa in discussione, come se la pace stessa fosse divenuta un concetto da riformulare, forse da accantonare.

Basta aprire un giornale o accendere la televisione per rendersene conto. Salta subito agli occhi l’uso di un linguaggio militarizzato, come se le parole fossero state arruolate in un esercito pronto a conquistare trincee nemiche. Sembra di vivere dentro un’opera di Karl Kraus, dove la stupidità collettiva conduce inesorabilmente verso la catastrofe.

Sì, stupidità collettiva. Il quotidiano è ormai cosparso di una patina grigio-verde, dominato da un discorso che assolutizza la soluzione militare. Alcuni vi si abbandonano con cinismo, altri per inconsapevolezza o indifferenza. D’altronde, si impara presto a vedersi solo entro i confini del contesto: il difficile è oltrepassarli.

Il contesto deforma, ottunde, rende stupidi. E soffoca ogni pensiero che non replichi la stessa logica perversa del militarismo come necessità. Di questa cecità approfittano le élite che la alimentano. Per loro, il “riarmo” è più di una parola chiave: è coscienza di sé, è l’affermazione della propria sopravvivenza come soggetto storico. Una parola mostruosa, distante da quanto di meglio la cultura occidentale ha saputo produrre dopo le guerre mondiali, l’Olocausto e la bomba atomica. E tuttavia una parola che esprime una verità profonda: “prepararsi alla guerra” appare ormai come l’unica via possibile per una borghesia in crisi crescente.

Nessun discorso razionale sembra capace di invertire questa tendenza. La spinta ad armarsi, insieme alla torsione del linguaggio in senso militarista, risponde alla necessità di sorvegliare e difendere la riproduzione della ricchezza e del potere da parte di élite consapevoli della propria fragilità. Per loro è questione di sopravvivenza — ed è illusorio pensare che possano rinunciarvi.

L’azione politica scivola così nell’irrazionale, svuotando di senso ogni idea di “risoluzione pacifica” dei conflitti, ridotta ormai a un’utopia o a un esercizio retorico da educande. Pur tra mille contraddizioni, la direzione è tracciata e sembra irreversibile.

In questo quadro, l’ipocrisia occidentale assume tratti inquietanti. Nel linguaggio delle élite — e delle oligarchie finanziarie e industriali che esse rappresentano — si avverte la rappresentazione di sé come “parte giusta”, mentre ogni discorso sacralizza la “democrazia” in lotta contro le “autocrazie”.

È fin troppo evidente l’uso strumentale di queste categorie. L’esempio di Gaza è eloquente: di fronte a una tragedia che ha assunto i tratti di un genocidio, le élite occidentali hanno scelto l’indifferenza, quando non la complicità, mostrando quanto selettivo e ipocrita sia il loro richiamo a valori e diritti universali. Il linguaggio sacralizzante serve solo a rivestire la verità, ad allontanarla.

Così, ciò che non è altro che un dispositivo di dominio — funzionale alla perpetuazione dell’egemonia geo-strategica e storica — viene raccontato come una lotta tra visioni del mondo opposte, una versione aggiornata del racconto morale del Bene contro il Male.

Osservare questo processo — questo lento declinare verso la catastrofe — è doloroso. Fiacca e rende pessimisti. Le classi popolari dovrebbero guardarsi allo specchio e chiedersi quanto tutto ciò le stia rendendo più povere, più esposte, più vulnerabili. Ma dovrebbero farlo presto, prima che l’infatuazione per la “soluzione militare” ci trasformi tutti in bersagli.

* da Facebook

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1 Commento


  • Studio Topografico

    parole e pensieri certamente condivisi e condivisibili, purtroppo osservo che quasi nessuno movimento ideopoltico denuci questa follia umana …

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