Contro la finanziaria della devastazione ambientale e della guerra
Il weekend di lotta 28-29 è risultato vincente non solo per i numeri – oltre 100mila persone solo domenica a Roma – ma anche perché ha saputo riunire diversi settori di società civile attorno a una critica ampia e radicale al governo, dando finalmente corpo e gambe a quel largo movimento d’opinione contrario alla guerra e solidale con il popolo palestinese. Accanto a lavoratori e giovani – protagonisti indiscussi delle mobilitazioni, in continuità con gli scioperi del 22 settembre e del 3 ottobre – un altro soggetto si è distinto nelle piazze dell’ultima “tornata” di mobilitazioni contro la finanziaria di guerra: le realtà territoriali.
Si tratta di comitati, movimenti, coordinamenti che dal Nord al Sud Italia si sono riconosciuti in un percorso comune, avviato a partire dall’assemblea nazionale del 19 novembre e uniti dalla parola d’ordine di opporsi al “governo della devastazione ambientale”.
Presenti all’appello: Ecoresistenze, No Tav Torino, No Ponte, No Base, No Tap, No Triv Basilicata, Balia dal Collare (Rieti), No Corridoio Roma-Latina, i Boschi che resistono (Vicenza), No rigassificatore (Ravenna), No Passante (Bologna).
Sanno bene da che parte stare quelle comunità che da tempo difendono gli ecosistemi del paese, prendendosi la responsabilità non solo di salvaguardare i propri territori, ma anche di difendere lavoratori, lavoratrici e nuove generazioni dalle devastanti conseguenze dei cambiamenti climatici. Una lotta, quella ambientale, che oggi più che più che mai si intreccia con il rifiuto della guerra e con le rivendicazioni sociali di quella classe lavoratrice che sta tentando di ricomporsi e riorganizzarsi.
La finanziaria di guerra, infatti, è solo l’apogeo delle politiche di disinvestimento – portate avanti da governi di ogni colore – nei territori, nella sanità, nell’istruzione, a vantaggio della “difesa”, dell’high-tech, delle grandi infrastrutture strategiche, ovvero quei settori in cui si gioca il ruolo dell’Italia nel blocco atlantico, e dell’UE nella competizione globale.
Negli ultimi anni questo processo ha vissuto un’accelerazione costante e progressiva: militarizzazione dei territori, corsa alle materie prime e alla “sovranità energetica”, progetti speculativi imposti con sempre più violenza, disinvestimento nella messa in sicurezza e nei territori, con conseguente spopolamento e abbandono forzato.
Il proliferare di grandi opere inutili in questo paese è testimonianza del buco nero in cui vengono assorbiti miliardi di soldi pubblici e del filo diretto che lega devastazione ambientale e guerra: ne sono esempio il progetto della TAV, strategico per i corridoi di mobilità militare europei, o il tentativo (fallito) di inserire il Ponte sullo stretto tra le opere di carattere strategico per la difesa nazionale, e ancora l’ampliamento delle basi militari a Coltano ai danni di un’area protetta.
Sul piano energetico, gli impianti in Emilia Romagna, hub energetico del paese, e i pozzi della Basilicata, massacrata dalle trivelle, parlano degli interessi atlantisti e guerrafondai, e del sacrificio dei territori in loro nome: il rigassificatore di Ravenna per riconvertire il costosissimo GNL statunitense (nonostante lo scandalo Nord Stream), in sostituzione di quello russo, le tonnellate di greggio lucano inviate direttamente a Israele, la complicità tra ENI e l’entità sionista.
In questo quadro non stupisce la reattività dei territori e la volontà di creare una piattaforma condivisa che parli di ambiente, territori, guerra, sanità e diritti.
Le realtà ambientaliste hanno animato le mobilitazioni, organizzando spezzoni, interventi, e portando “il conto” al governo, con due azioni dimostrativa a Roma il 28 e 29: due enormi scontrini, uno sulle previsioni spesa della finanziaria che avranno ricadute nefaste sui territori, l’altro – interminabile – sul prezzo pagato negli ultimi anni in termini di ambiente e salute nelle varie regioni.
La costellazione di piazze, presidi e azioni del 28 e 29 restituisce una sorta di mappatura dei territori sensibili nel nostro paese, e delle loro comunità resistenti:
A Torino in sanzionamento della sede di Nucleo da parte di Ecoresistenze, e l’azione NO TAV ad Avigliana, dove è stato presentato anche lo scontrino delle spese pagate dal territorio piemontese, a Vicenza i No TAV hanno manifestato davanti alla sede di Leonardo, a Bologna un grande spezzone di realtà ambientaliste e comitati si è unito al corteo principale, a Pisa spezzone dei no Base, a Potenza quello dei No Triv, a Roma il 28 le realtà territoriali hanno “bocciato” la legge di bilancio davanti al Parlamento.
Domenica, a Roma, nello spezzone ambientalista sono confluiti i comitati territoriali delle province di Latina e Rieti: il No Corridoio Roma–Latina, Balia dal Collare (Rieti) e il coordinamento Scagni (Sabina). Hanno sfilato insieme in un unico spezzone, uniti dallo slogan condiviso a livello nazionale.
Nello stesso momento, a Messina, si svolgeva il grande corteo contro il Ponte. Tra le molte istanze portate in piazza, è stata denunciata anche la partecipazione dell’azienda Webuild al progetto, una delle imprese che trarrebbero profitti anche dalla ricostruzione di Gaza.
Negli ultimi anni di passività politica generalizzata, i movimenti territoriali hanno sempre costituito un’eccezione alla regola, mobilitando puntualmente importanti pezzi di società civile, e riuscendo a colpire il nemico là dove faceva più male. Adesso che la solidarietà con il popolo palestinese ha rotto gli argini, svelando una marea di contraddizioni che bruciano sulla pelle dei lavoratori e nelle ferite dei nostri territori, la lotta per l’ambiente e i suoi protagonisti devono tornare al centro della mobilitazione contro la guerra. Lo scorso weekend abbiamo assistito ad un primo passo in questa direzione, per la ricostruzione di un fronte unito ambientalista e dal basso, che sappia sfidare il governo e la sua repressione. Ci auguriamo che sia solo l’inizio.

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Federico Mazzaro
Colto in pieno il senso delle mobilitazioni territoriali.
In Basilicata abbiamo rilanciato nella giornata di sciopero del 28 novembre una vera e propria Vertenza riguardante le diverse crisi che attraversano i nostri territori (idrica, agricola, industriale e ambientale), che punta alla costruzione di un fronte ampio e unitario di realtà politiche e sociali in grado di contrastare con forza tutti i punti di crisi e di ricompattarsi su obiettivi largamente condivisi, a partire dalla necessità di attivare piani occupazionali e di riconversione industriale che rimettano al centro interventi urgenti di bonifica dei siti contaminati e di manutenzione idrogeologica e delle infrastrutture idriche (reti e invasi). Abbiamo convenuto inoltre sulla necessità di costruire, con il pieno coinvolgimento delle popolazioni e ammistrazioni comunali interessate, forti azioni di contrasto alla riproposizione di ulteriori devastanti e sciagurate politiche sulla gestione del petrolio (v. la riattivazione delle concessioni alle perforazioni su una vasta area del nostro territorio, oltre alla sua possibile individuazione quale sito unico delle scorie nucleari) con la contestuale richiesta di disdetta degli accordi tra governo regionale e nazionale sulla scelta della Basilicata quale hub vettore per il consolidamento di politiche di riconversione industriale versus la produzione bellica
Francesco Masi
Basilicata terra di monnezza (circa 900 discariche abusive certificate dalla commissione ciclo rifiuti del parlamento, di cui almeno la metà legati alle ecomafie al servizio dei petrolieri). Terra di Tecnoparco in Val Basento che tratta milioni di tonnellate di veleni provenienti anche dall’estero e dal Nord. Terra di tour della monnezza con incenerimento presso i termodistruttori ex Fenice che servono gli impianti di Stellantis a San Nicola di Melfi. Terra di sperimentazione del progetto Blue Water in Val d’Agri. Terra dove accanto all’ospedale di Villa d’Agri c’è un pozzo di petrolio. Terra dove il centro oli Tempa Rossa sorge a 1000 metri su una frana e che a due passi ospita la più grande discarica di fanghi petroliferi essiccati d’Europa. Terra di silenzi e ricatti dove le cosiddette principali organizzazioni sindacali corporative reggono la coda alle multinazionali