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Fallisce il Cepu, non serve più…

Per la cultura italiana è una campana a morto. Il Cepu, il più noto istituto di preparazione agli esami universitari ha chiesto il fallimento.

 La creatura fondata da Francesco Polidori – ufficialmente di proprietà di una società lussemburghese – ha chiuso il 2014 con un passivo di 59 milioni di euro, a fronte di fatturato di 63 e un capitale di soli 5,9 milioni. I debiti risultano invece addirittura di 122 milioni, 38 dei quali verso gli istituti di previdenza (ovvero contributi non pagati all’Inps per i dipendenti), 36 verso l’Erario (tasse non pagate) e 24 verso i “fornitori” (per la maggior parte collaboratori a partita Iva, secondo l’usanza delle imprese italiane attive nei servizi).

La Procura di Roma sta valutando se aprire un’indagine per bancarotta per distrazione, ma non sono i dettagli di questo fallimento a essere interessanti.

 La causa prima del fallimento è infatti nella diminuzione verticale della domanda nel corso degli ultimi venti anni. Cos’è successo? In parte minima la diminuzione dipende dall’aumento esponenziale delle tasse universitarie e dalla contrazione generale dei redditi, così che le famiglie alle prese con un figlio che fatica a fare gli esami non si possono permettere una spesa supplementare per un tutoraggio ad personam sbrigativo.

 Il problema vero è che gli esami – nell’era della semestralizzazione e del “3+2”, dell’”audience” cui i professori devono stare attenti altrimenti viene segato l’insegnamento, dei “crediti” che sviliscono il valore di ciascun esame, ecc – sono diventati fin troppo facili da superare. Un qualsiasi cinquantenne che abbia frequentato l’università fino agli anni ’80 ha avuto a che fare con esami considerati “di media difficoltà” che richiedevano la lettura di 2.000 pagine o più. Oggi questi stessi insegnamenti prescrivono un paio di centinaia di pagine, spesso “estratte” da testi di ben altra portata (con ovvia perdita del “senso generale” di un’argomentazione comunque scientifica).

Senza che gli studenti di oggi ne abbiano alcuna colpa – qualcuna in più ce l’hanno quei pessimi maestrini che hanno spinto sul tasto della “facilitazione” dello studio – passare gli esami, e persino dare la tesi per la “triennale”, è diventato quasi un atto burocratico scontato. Si salvano, per fortuna, diverse facoltà scientifiche “hard” (dall’immortale fisica a matematica, biologia, ecc), ma proprio il mantenimento di standard di insegnamento al passo con l’attività scientifica a cui preparano ne ha fatto delle “isole sperse nell’oceano”, da cui lo studente medio – proveniente da una formazione liceale a sua volta degradata qualitativamente – si tiene lontano. Le migliaia di ricercatori scientifici comunque formatisi in queste isole sono non a caso costretti alla fuga al’estero per non vedere deperire rapidamente il patrimonio di competenze faticosamente acquisito.

Il cerchio, insomma, si chiude. L’istruzione pubblica italiana è stata ridotta a ben poca cosa (“isole” a parte). Dunque i diplomifici a pagamento come il Cepu non hanno più mercato. Ci pensa già l’università normale a coprire quel segmento.

Missione compiuta, grazie e arrivederci.

P.s. Pensandoci bene: ma il Cepu, l’avrà mai avuto un corso per preparare gli esami di fisica? Difficile…

 

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