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Roma. Dal tramonto all’alba al Pertini

Cronaca semiseria di una notte al Pronto Soccorso. A volte, quando si sta male, si prova a resistere o a trovare piccoli rimedi da soli. Altre volte si ricorre al medico di base e, dopo ore di attesa, si viene ricevuti, visitati, si fanno altri esami clinici e si riesce, almeno in parte, a risolvere il problema. In altri casi, però, tutto ciò non serve e bisogna correre in ospedale.

Questo è successo a me venerdì 25 maggio. I dolori ai reni, il vomito, i fastidi gastrointestinali si sono fatti via via più insopportabili e, nel tardo pomeriggio, non ce l’ho fatta più. Pronto Soccorso. Decido di andarci da solo con mezzi propri per evitare di chiamare l’ambulanza che mi avrebbe fatto attendere ancora. “Così faccio prima” mi dico speranzoso. Ed eccomi dopo poco in accettazione. Sul foglio d’ingresso hanno scritto le 20.06, ma non è così. Ero lì almeno dalle 19.30, ma ad accogliermi non c’era nessuno. Attendo coi miei dolori che qualcuno giunga, rischio quasi di vomitare lì, ma niente, sembra il “Deserto dei Tartari” di Dino Buzzati. Alla fine arriva una del personale con il camice bianco, incavolata nera rimbrottando che è dalle 8.00 che sta lì inchiodata. Già capisco l’antifona, protesto le mie ragioni, quasi svengo nel farlo ma lei mi risponde laconica: “ C’è un modulo da compilare intanto. Poi faccio l’accettazione, ora, se permette, ci sono altri che devo seguire”. Va bene. C’è pure la burocrazia da sbrigare e le sue piccole assurdità. Comunque sto zitto e riempio il foglio di carta con i mei dati. Glielo restituisco, ma ancora non fa nulla. Devo alzare di nuovo la voce per farmi sentire e lei impassibile replica:” Non alzi la voce con me. Non serve. Sa quanti gridano qui ormai!”. Mi fa entrare però. Finalmente la visita! Lamento i miei sintomi ad un’infermiera più depressa e incazzata della prima, chissà da quanto sta qui, mi domando, e quante ne ha viste. Mi prende la pressione, mi fa l’elettrocardiogramma e poi sentenzia. Poco critico – Verde. E mi mette il braccialetto. “Ma come?” gli dico “Io sto vomitando bile, ho delle fitte che mi stanno spaccando in due!”, ma lei nemmeno risponde. Tace e mi fa accomodare su una sedia con un sacchetto dove vomitare. E lì inizia l’attesa. I dolori intanto aumentano, inizio ad avere le allucinazioni mistiche. Sono messo assieme a tanti altri disgraziati come me. Chi soffre per disturbi al ventre, chi per le gambe, chi con una flebite in atto e tanti, tanti altri ancora. Ci sono pure tanti stranieri. Tutti insieme appassionatamente. Il codice giallo viene dato solo ai bambini (e giustamente almeno) e agli anziani che sono ridotti male. Quello rosso solo per chi è grave. Per chi ha subito un collasso, un infortunio, un incidente, un cataclisma, un terremoto. Tutti gli altri zitti a soffrire in silenzio. Il dolore intanto è cronico. Penso tra me e me: “Adesso casco per terra e svengo”.

Intanto ascolto le voci fuori dall’accettazione. Alcuni vengono respinti dalle trincee. Troppo lievi i loro disturbi. O accettano il braccialetto bianco e stanno dentro in attesa non si sa per quanto oppure a casa. Urla, strepiti, imprecazioni minacce, qualche pugno sbattuto al muro, ma poi cala il silenzio. Se vanno sconfitti. Del resto l’ospedale non può mica accogliere tutti. Mi accorgo, del resto, che all’accettazione e in sala saranno, sì e no, in quattro e noi siamo già una quarantina. Una condizione critica. Ma anche io non ce la faccio più. Inizio a strepitare e urlare. Voglio che mi diano qualcosa che mi calmi per lo meno il dolore. Mi avvicino ad un infermiere che sta lì e minaccio. O mi danno un antidolorifico o denuncio. Non mi guarda nemmeno. Sa bene che non farei nulla, ma mi accontenta. Mi fa un’iniezione di Toradol. Dopo un po’ va meglio. Ma sono ancora in attesa. Mi hanno dato il numero “E 151” e stanno chiamando il numero “E128”. Mi domando preoccupato: “Ma il dottore qui c’è? Oppure è fuggito nei paesi caldi vista la situazione?”. Sono le undici di sera. Sono già stremato, me ne voglio andare a casa. Cinque ore e ancora niente. Un tizio vestito con il camice azzurrino si avvicina a me. Forse gli faccio pena. Mi fa un cenno di saluto e mi dice con l’accento romano:” Guarda che dappertutto è così. Almeno qui a Roma. Che te’ pensavi?”.

Si, lo sapevo. Ho letto i fatti di cronaca sui nostri ospedali. Anche quando mio padre stava male con il cuore, c’era da attendere. Ma non ricordo attese così lunghe. Forse aveva un altro braccialetto oppure, più semplicemente, c’erano più mezzi e più personale. Alla fine, con mio grande stupore, si apre la porta magica, esce un’alta infermiera e chiama il mio numero. Miracolo. Ad attendermi c’è una dottoressa con aria bonaria, il volto segnato da rughe espressive e i capelli bianchi raccolti dietro la nuca. Sembra una sacerdotessa antica. Una dei tempi andati. Chissà da quanto sta qui. Forse da sempre. Mi chiede “ Che cosa si sente?”. Gli spiego tutto e lei sorride. Il suo sorriso mi sembra un premio, quasi mi commuovo, e mi faccio visitare. Mi fa prendere il sangue ed ordina altri esami. Esulto. Tra poco è fatta. Un altro paio d’ore ed è fatta con la mia diagnosi e la cura da fare. Invece l’amaro risveglio. Mi spediscono in uno sgabuzzino che loro chiamano “Sala d’attesa”, mi mettono una flebo di antidolorifici e mi lasciano lì a languire. Altre ore. Perdo il senso del Tempo. Mi addormento persino. Alla fine, la stessa infermiera di prima con fare sgarbato e stanco mi scuote “ Deve venire a fare gli esami, forza!”. Dove sono? Cosa ci faccio qui? Sono stordito, ma poi rientro in me, riprendo coscienza e la seguo silenzioso. Tac ed ecografia addominale. Il personale è più rapido. Si sbrigano subito. Del resto insieme a me ce ne sono altri dieci dopo. Se non vogliono restare qui dentro per sempre, devono essere veloci per forza. Dopo aver fatto tutto, vengo rispedito nella sala d’attesa. Per farmi coraggio dico a me stesso: “Ormai ci sono, hanno fatto tutto. Che altro manca ancora?” Ma la speranza è vana. Giunge altra gente, vittime di un incidente stradale, tutte stranamente con il braccialetto verde però. Vengono dalla Casilina. Resto perplesso. C’è il Policlinico Casilino lì a due passi, perché portarli al Pertini? Mistero. Forse sono allo stremo anche lì e non riescono più a far fronte alla mole degli ammalati. Le ore intanto passano. Ad uno degli incidentati devono fare un intervento. E’ davvero sistemato male. Altro tempo da attendere. Intanto dalla finestra albeggia, guardo l’orologio e sono le sei del mattino. I primi raggi di un sole rossastro filtrano e illuminano la stanza dove sono io e tutti gli altri. Ma che luogo è questo? Mi guardo in giro con gli occhi stralunati e sono tutti rassegnati. Nessuno parla più. Sembriamo sopravvissuti ad una battaglia. Anche gli infermieri sono muti, disarmati e sono pochi, dannatamente pochi. Due medici e tre infermieri in tutto. Sarà il protocollo o più realmente i tagli selvaggi che hanno applicato in tutti questi anni per la lotta agli sprechi e per razionalizzare la spesa sanitaria. Non so. So solo che non funziona. Alla fine comprendo la mia condizione, la mia realtà di uomo che non ha più i suoi diritti e mi dispero. Inizio a gridare, ma non contro chi sta lavorando in quel momento. Loro non hanno colpe. Grido contro questo sistema che è inumano, che ci ritiene semplici numeri, oggetti e nulla più. Il mio grido di dolore viene ascoltato. Adesso, del resto, i dolori sono più dell’anima che del corpo. Mi accoglie la stessa dottoressa antica e mi parla: “Io la lascio andare. La situazione è sotto controllo. Gli avrei voluto fare altri esami, ma avrebbe dovuto attendere ancora a lungo. Del resto, vede come siamo ridotti. Hanno chiuso ospedali giudicati inutili, tagliato personale, niente ricambio, facciamo i salti mortali, ma non basta. Inoltre ormai siamo continuamente insultati, presi a parolacce, ma io la capisco, ha ragione, anche io farei come lei se fossi al suo posto. Del resto, anche Cristo ha sofferto sulla Croce e ha patito. Dobbiamo imparare a patire anche noi. Io la capisco, ma cosa rimane ormai?”. Vorrei spiegare, esporre le mie ragioni, ma so che è tutto inutile, le parole sarebbero vuote come palloni sgonfi. La ringrazio ed anzi mi scuso per il mio comportamento. Mi dice di riguardarmi, di fare una gastroscopia e un altro esame, ma non la sto più ascoltando. Ho il mio foglio di dimissioni ed esco dal Pertini. E’ giorno. Sul foglio c’è scritto 05.58. Ma il mio orologio segna un’altra ora. Non importa. Mi volgo per un attimo ad osservare l’ospedale, il collasso di un sogno di salute pubblica uguale, avanzata per tutti con risorse, uomini e mezzi. Ricordo che c’è scritto anche nella Costituzione. Chissà se i nostri politici la ricordano la Costituzione. Voglio dire il suo significato profondo. Ma poi lascio perde. Mi volgo in avanti e penso al letto che mi attende. Almeno quello mi resta ancora. Per adesso…

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