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A un secolo dal “biennio rosso”: l’alternativa alla barbarie è la lotta

Tra il 18 e il 20 dicembre del 1922 a Torino si consumò la strage fascista che vide la morte di quattordici compagni mentre andavano a fuoco gli edifici dello storico Circolo Carlo Marx, della Camera del lavoro e del circolo anarchico dei ferrovieri. La sede de L’Ordine Nuovo venne devastata. 

Questi eventi furono la conseguenza dell’attacco fascista e padronale inferto al movimento operaio dopo due anni di lotte che passarono alla Storia come “Biennio rosso”.

Anni che videro scioperi di massa e l’occupazione delle fabbriche, in un clima in cui la lotta di classe era cosa viva, dialetticamente incarnata dagli attacchi degli operai e dalle risposte dei padroni.

Le fabbriche furono occupate per rispondere alla serrata dei padroni, partita dalla Romeo di Milano con l’obiettivo di indebolire gli operai in sciopero in quello che allora era il triangolo industriale. 

Torino ebbe un ruolo centrale in quegli anni per via del suo ruolo di capitale dell’industria italiana, tanto che, nella concretezza e nella durezza delle condizioni, Gramsci e i suoi compagni il primo maggio del 1919 fondarono qui L’Ordine Nuovo.

Un giornale che non era semplicemente carta stampata, ma svolgeva un’importante funzione di orientamento del movimento operaio, tanto che nel Partito Socialista emerse la corrente degli “ordinovisti”.

Di fronte all’epilogo del Biennio rosso, Gramsci individuò perfettamente le responsabilità di quanto accaduto nei dirigenti riformisti del Partito Socialista e della CGdL, affermò che gli operai furono lasciati soli e che i dirigenti non erano all’altezza del movimento.

Difatti, l’11 settembre del 1920, in una riunione congiunta, i dirigenti del PS e della CGdL posero fine alla fase delle occupazioni per affermare che l’obiettivo primario della lotta era il riconoscimento da parte del padronato del controllo sindacale delle aziende, invece che la “Rivoluzione socialista”.

Ne seguì il ventennio fascista. 

Rivoluzione” era una parola che a cavallo del 1920 riecheggiava ovunque, anche sulla scia del ’17 in Russia, ma tanti la utilizzarono per conseguire scopi riformisti o reazionari, piegando così la lotta agli interessi del grande capitale.

Quella parola, però, non era vuota di significato: rappresentava lo slancio, le ragioni e la forza degli operai, che i dirigenti socialisti abbandonarono a loro stessi.

Rappresentava, in definitiva, l’alternativa alla barbarie che stavano vivendo, un’alternativa che oggi – dopo il ciclo controrivoluzionario partito con la caduta del muro di Berlino – comincia ad emergere con una rinnovata energia e si muove tra le piazze delle città, ne lascia il segno sui muri. 

Non più gli operai come un tempo, ma i giovani, che vivono nel concreto della loro esistenza le contraddizioni del presente, si agitano. Proprio oggi – senza nessuna retorica – sono scesi in piazza gli studenti medi di OSA riprendendo in mano l’arma dello sciopero che aveva fatto così tanta paura ai padroni delle fabbriche e che larghi settori della cosiddetta sinistra cercano di spuntare, esattamente come cento anni fa. 

I giovani attivisti dell’Asia USB in piazza Foroni hanno affermato la necessità dello stop agli sfratti, agli affitti e alle utenze e nel pomeriggio – mentre in parlamento si discuteva la Legge di bilancio – gli studenti universitari hanno manifestato per l’abolizione delle tasse universitarie, l’aumento della residenzialità pubblica e anch’essi per il blocco degli affitti e delle utenze. 

Stanno dimostrando che l’unica alternativa alla barbarie è la lotta, e si organizzano.

Cosa rimane oggi del Biennio rosso? Non di certo le commemorazioni retoriche e opportunistiche di questa giornata. In molti vorrebbero imbalsamare quegli eventi in una manciata di date celebrative, così da sopirne tutto il portato rivoluzionario. Noi no. Per noi ricordare quei fatti significa continuare la lotta.

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