Firenze, 10 ottobre 2025
Piazza San Lorenzo è recintata, circondata da barriere, presidiata da blindati, occupata da uomini in divisa. Le luci dei lampioni riflettono sulle transenne come un monito: questa non è più una piazza, è una zona di sicurezza. Dentro, il palco del potere – Giorgia MELONI, Matteo SALVINI, Antonio TAJANI – chiude la campagna elettorale toscana parlando a un pubblico selezionato, filtrato e misurato come un indice di gradimento.
Fuori, la città: un corteo parte da Piazza Indipendenza, scorre lungo i viali, tenta di avvicinarsi al centro. Studenti, lavoratori, insegnanti, precari, migranti, collettivi, militanti per la Palestina, disoccupati, infermieri: corpi differenti che tornano a farsi soggetto.
È un corteo denso, determinato, attraversato da una voce collettiva che mancava da anni. I numeri oscillano tra duemila e tremila persone. Sono giorni di istanze e rabbia ed è da molto tempo che la città non appariva quale un organismo vivo e non un museo amministrato. Firenze, vetrina del turismo e laboratorio del capitale urbano, si riscopre città politica.
L’ordine blindato che avrebbe dovuto neutralizzare la protesta diventa lo specchio del comando: una rappresentazione di paura e di distanza. Il potere parla dal palco e di certo, non al paese reale. È un monologo, dentro il recinto del proprio linguaggio logoro.
Meloni parla di stabilità, Salvini cerca di vendere sicurezza, Tajani recita la liturgia europeista dell’equilibrio. Ma il palco, il microfono, le telecamere, le transenne, tutto l’apparato scenico è un dispositivo difensivo e non certo un atto di forza. È la confessione della debolezza del potere che – ammesso sia mai accaduto – non convince più.
Dietro la retorica patriottica, si legge la stanchezza di un ciclo politico che non produce più senso. La destra di governo e il centro liberale non sono due poli, ma due facce della stessa funzione: governare la crisi del capitale europeo, garantendo che nulla muti.
Firenze, stasera, è la rappresentazione plastica, di un equilibrio che si spezza. Per trent’anni la città è stata esempio di pacificazione: la sinistra riformista ha trasformato il conflitto in gestione, la politica in amministrazione, la cittadinanza in utenza. Dalla stagione del partito-nazione di Renzi e Nardella fino alla tecnocrazia comunale, la forma di governo è stata una sola: neutralizzare la contraddizione sociale sotto la facciata del decoro.
Il potere locale ha infatti costruito una propria “etica” della città: la bellezza non più patrimonio condiviso ma strumento di comando, la sicurezza che non protegge ma piuttosto seleziona e la cultura che non educa ma giustifica la rendita.
Tutto ciò che un tempo definiva l’identità collettiva è stato piegato alla logica della valorizzazione, fino a rendere indistinguibile il decoro dalla gerarchia, la tutela dal controllo e la cittadinanza dalla proprietà. Il centro storico è stato svuotato della sua vita sociale e riconvertito in vetrina, mentre la periferia, dopo essere stata esclusa, è stata ricondotta all’ordine come spazio di servizio. Ogni politica di controllo è stata presentata come “cura”, l’espulsione come recupero di spazi urbani e l’aumento della rendita come “progresso”.
Stasera però quel processo, ha incontrato una risposta reale, capace di incrinare la superficie compatta del consenso. Le strade del centro, percorse da corpi e parole, hanno restituito alla città la coscienza della propria natura politica: lo spazio urbano non è neutro, è costruzione ideologica, campo di comando e di resistenza: in quella frattura tra la vetrina e la vita, tra la città amministrata e la città reale, è riemersa la possibilità del conflitto come forma concreta di conoscenza, l’unico linguaggio in cui la verità sociale può ancora esprimersi.
La blindatura diventa così la sua lingua naturale, la traduzione spaziale del rapporto di comando. Le transenne, i cordoni, la sorveglianza non sono soltanto strumenti di contenimento, ma dispositivi simbolici che delimitano chi può abitare lo spazio pubblico e chi ne viene escluso.
Ogni barriera fisica coincide con una barriera politica: separa la gestione dalla vita e il governo dalla realtà. È in questa distanza crescente che si misura oggi la crisi del potere, costretto a difendersi non certo da un’ “insurrezione”, ma dalla semplice presenza della collettività che torna a farsi visibile.
Il corteo di Firenze ha reso evidente la distanza ormai organica tra la società e la sua rappresentazione politica. La campagna elettorale toscana di Meloni, Salvini e Tajani si colloca dentro un quadro nazionale in cui il consenso non è più forza, ma sopravvivenza del potere borghese in assenza di legittimità.
In Calabria ha votato il 43%, nelle Marche il 47%, e in entrambe le regioni il centrodestra ha assunto il controllo politico di territori dove il voto non è più partecipazione ma abitudine. La tornata elettorale funziona come rito di continuità del dominio, una rappresentazione periodica dell’ordine esistente che serve più a confermarlo che a rinnovarlo.
La democrazia liberale, privata della sua base materiale, non produce più consenso ma solo validazione, ridotta a meccanismo di legittimazione che misura la fedeltà al comando. E quando anche la tolleranza cede, come accade stasera, il potere mostra la sua essenza: non una direzione politica ma un apparato di riproduzione del dominio, privo di autonomia e di visione, che continua a esistere solo perché inserito nella catena internazionale della guerra e della rendita.
Una macchina di governo che non genera storia, ma ne occupa il vuoto e che partecipa alla distruzione, dove la crisi diventa metodo, la subordinazione viene imposta per principio e la violenza si fa prassi e linguaggio quotidiano. Lo Stato, ridotto a ingranaggio dell’economia globale, amministra la società gestendone la sottomissione: firma accordi con i carnefici, finanzia il genocidio, traduce l’obbedienza in legge.
Firenze, stasera, ne ha svelato la natura: un potere che sopravvive solo perché si lega alla parte sbagliata della storia. La blindatura ha svelato il suo significato: non proteggeva la sicurezza, ma l’illusione del consenso.
Del resto, la città medicea è da tempo il modello – forse il più compiuto in Italia – di come il capitale abbia trasformato lo spazio urbano in strumento di comando. Fin dagli anni Ottanta Firenze è stata un laboratorio politico del neoliberismo nascente: qui si è sperimentata la transizione dalla fabbrica alla metropoli come nuovo centro della produzione di valore.
Laddove l’industrializzazione arretrava, la rendita si imponeva come forma dominante dell’accumulazione; le lotte operaie, sconfitte e disgregate, venivano assorbite dentro la grammatica della riqualificazione urbana, convertite in linguaggio tecnico, neutralizzate nella gestione amministrativa del territorio. La città divenne così il campo privilegiato della nuova borghesia manageriale, il luogo in cui la pianificazione sostituiva la politica e la valorizzazione immobiliare prendeva il posto della trasformazione sociale.
Le giunte che si sono susseguite -dalla socialdemocrazia d’impianto PCI alle versioni liberali del post-renzismo – hanno consolidato il paradigma più compiuto del neoliberismo italiano: un comando che si traveste da progresso, un potere che parla il linguaggio della modernità mentre privatizza ogni spazio collettivo.
La cultura è stata ridotta a economia, la solidarietà degradata a marketing, l’arte trasformata in capitale immobiliare. La retorica del restauro ha sostituito ogni idea di pianificazione sociale: i palazzi rinascimentali venivano salvati come monumenti, le case popolari lasciate al degrado come residui improduttivi.
L’amministrazione locale ha imparato a governare il consenso attraverso l’immagine, e a estrarre profitto dalla gestione del suolo. Così la rendita è divenuta la nuova forma del plusvalore urbano, e la città un dispositivo di accumulazione che sostituisce alla trasformazione politica la manutenzione dell’ordine borghese.
Il decoro urbano è divenuto il linguaggio più efficace del dominio contemporaneo. “Pulizia”, “sicurezza”, “valorizzazione”: parole che hanno trasformato il controllo in “virtù civica” e la segregazione in “ordine morale”. Il conflitto di classe è stato convertito in questione di ordine pubblico, il disagio sociale in degrado. La povertà è stata espulsa dal campo visibile della città e ricollocata nei margini, dietro la superficie levigata delle strade pedonali.
Il turismo, elevato a motore dell’economia cittadina, ha agito come una gigantesca macchina di redistribuzione al contrario: sottrae valore al lavoro vivo per restituirlo alla rendita immobiliare. Ogni nuova destinazione “di eccellenza” coincide con lo svuotamento di una comunità, ogni piazza ripulita con l’espulsione di chi la abitava.
Questa metamorfosi non è solo fiorentina: è la forma storica che il capitale urbano europeo assume nella sua fase senile. La città-vetrina rappresenta la fusione definitiva tra profitto e controllo, tra estetica e dominio. Serve a garantire la riproduzione della rendita e la gestione della pace sociale, a trasformare lo spazio in ideologia e la vita in merce esposta.
La governance urbana è ormai la forma politica del capitale maturo: trasforma la città in impresa, riduce la cittadinanza a utenza e piega la politica alla difesa della rendita. La pianificazione non apre più il futuro, lo chiude entro i confini della proprietà. La democrazia, svuotata di sostanza, sopravvive come rituale di legittimazione: una concessione temporanea dello spazio pubblico, che dura solo finché non si traduce in conflitto.
L’ordine urbano dunque è diventato la sua ideologia quotidiana. Attraverso l’ordine si giustifica la repressione, si legittima l’esclusione, si moralizza la povertà. Non è un valore civico, ma una categoria politica: l’equivalente urbano del salario differito. Serve a mantenere la gerarchia, a disciplinare il corpo collettivo, a naturalizzare la disuguaglianza. Dove il capitale non può più promettere crescita, offre sicurezza; e dove non può più garantire benessere, impone obbedienza.
L’urbanistica ha assunto così la funzione che un tempo spettava alla fabbrica: organizzare la produzione e riproduzione della vita sociale. La città è la nuova catena di montaggio, la metropolitana il suo ciclo e la videosorveglianza il suo orologio. Il lavoro diffuso, precario, frammentato, non scompare ma si fa paesaggio.
Ogni azione quotidiana dallo spostarsi, al connettersi, al curare, comprare, vedere, diventa produzione di valore. E ogni forma di vita è immediatamente esposta al comando. La città è la fabbrica del XXI secolo e il suo centro storico ne è il reparto più ideologico.
Per questo la crisi non esplode ma si manifesta come saturazione. Il capitale urbano non ha più margini di espansione, si ripete, accumula su sé stesso, produce rendita senza produrre valore. La crescita non è più economica ma simbolica, l’equilibrio sociale si mantiene con la repressione. È un modello che può durare solo se la città resta muta.
Ma quando la città parla, quando la vita reale rompe la superficie della rappresentazione, tutta la costruzione si incrina. La blindatura del 10 ottobre è il riflesso di questa paura: la paura che la città torni a essere spazio politico e non semplice scenario.
La contraddizione tra la città-vetrina e la città reale è oggi il punto più alto del conflitto di classe in Europa. Qui si manifesta il nuovo antagonismo tra capitale e società: non più nella fabbrica, ma nello spazio. Ogni piazza chiusa, ogni sgombero, ogni telecamera è un atto di produzione politica, la misura di un potere che teme la visibilità della vita. E ogni corteo, ogni occupazione, ogni attraversamento collettivo restituisce alla città la memoria della sua origine: quella di luogo comune, non di proprietà privata.
È il modo in cui il capitale, giunto al limite della propria riproduzione, tenta di sopravvivere: integra ciò che non può distruggere, assorbe ciò che non può controllare, trasforma la cooperazione sociale in strumento di comando. La città diventa così non solo il suo riflesso, ma il terreno materiale del conflitto ed è in questa contraddizione – tra la materia viva della storia e la sua mercificazione – che si apre la possibilità di un nuovo ciclo.
Ma nessun ciclo nasce dal nulla. Ogni nuova fase di lotta emerge quando la vecchia forma del dominio non riesce più a rappresentarsi. È ciò che accade oggi in Europa, dove la crisi politica del capitale non è solo economica ma strutturale.
In questo contesto la questione palestinese ha agito come detonatore: il punto in cui la crisi del capitale mondiale si manifesta in forma nuda.
Firenze, in questo scenario, non è un’eccezione ma un sintomo. La campagna elettorale, il chiudere gli spazi, inscenare un consenso addomesticato e imporne la narrazione unica – ottenuta tra l’altro malissimo – non è stata un episodio locale, ma la replica in scala urbana della logica globale: l’ordine borghese che protegge sé stesso dalla realtà.
La paura non è quella del disordine, ma del nodi irrisolti della storia. Perché la storia, quando si ripresenta, non lo fa mai come memoria ma come rottura. Le strade chiuse, i cordoni di polizia, i droni sopra le piazze sono il linguaggio di un potere che sa di non poter più governare, solo contenere. Ma contenere non è governare, e reprimere non è vincere.
La società europea vive in questa contraddizione: un continente sovraccarico di diritti e svuotato di potere, ricco di coscienza e povero di organizzazione. La forma sindacale si è esaurita, la rappresentanza politica è collassata, ma la cooperazione sociale continua a produrre valore, sapere, linguaggio.
È su questo terreno che può nascere il nuovo ciclo. Non da organizzazioni autoreferenziali, nè dalla piazza occasionalmente convocata, ma dalla ricomposizione materiale delle forze produttive. La classe non è scomparsa, si è dispersa; e in quella dispersione, invisibile e quotidiana, matura la possibilità del conflitto.
Il segnale che arriva da Firenze – e da molte altre città italiane ed europee – è quello di una saturazione. Questa saturazione non è stabilità, è immobilità forzata, la quiete apparente che precede la frattura. E quando la frattura arriva, non lo fa come evento ma come ritorno : perché la storia, come il lavoro vivo, non scompare mai davvero, resta sospesa nel tempo del capitale e riaffiora nel momento in cui la negazione diventa insostenibile.
Non sappiamo se il fermento di questi giorni, apra ad una fase tanto attesa o sia solo un preludio alla restaurazione. Ma il campo si sta ridisegnando. Il mito della neutralità europea è crollato, la guerra è tornata come condizione permanente, la miseria si diffonde in mezzo all’abbondanza. E tuttavia, proprio in questo squilibrio, riappare la possibilità del pensiero politico come forza materiale. Non è ottimismo, è “realismo dialettico”: sapere che ogni ordine che sembra definitivo contiene già la propria negazione.
Firenze, questa sera, ha incrinato la costruzione del governo un’altra verità, ossia che il consenso imposto non è destino, che la realtà non coincide con la propaganda, e che ogni volta che la città si riappropria del proprio spazio, il dominio trema.
* da Facebook
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