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La Germania propone una via d’uscita dall’euro. Per proteggere se stessa

Discutere di Unione Europea, euro, trattati, è una cosa seria e molto concreta. Se non altro perché condiziona esplicitamente da oltre 25 anni ogni decisione politica dei governi nazionali, compreso soprattutto il nostro, per via del famoso debito pubblico. Richiede un po’ di studio, oltre che generica informazione giornalistica, guardando ai trattati, alle clausole legali, ai progetti di “riforma” e soprattutto agli interessi materiali che spingono verso l’eterna dialettica riforma/conservazione.

A sinistra” invece – pur detestando questa parola che è servita per decenni a coprire politiche sociali di segno opposto e che per questo è vista giustamente con sospetto dal nostro stesso blocco sociale – si preferisce di gran lunga la discussione parolaia. Si disquisisce insomma della terminologia astratta e di quel che in teoria dovrebbe significare (senza più un riferimento alla realtà concreta), con l’Unione che viene dipinta più o meno inconsapevolmente – come un nuovo totem “quasi-internazionalista” e la sua rottura, “inevitabilmente”, come un revival nazionalistico.

Sarebbe facile, ma inutile, chiamare come giudice Lenin, che oltre un secolo fa scrivevaDal punto di vista delle condizioni economiche dell’imperialismo, ossia dell’esportazione del capitale e della spartizione del mondo da parte delle potenze coloniali ‘progredite’ e ‘civili’”, gli Stati Uniti d’Europa in regime capitalistico sarebbero o impossibili o reazionari”.

Vi proponiamo invece qui un articolo sufficientemente divulgativo scritto dall’economista Marcello Minenna, che ha avuto un breve attimo di notorietà mediatica come assessore della giunta capitolina guidata dalla grillina Virginia Raggi.

Sottolineiamo che il breve saggio è stato pubblicato da Business Insider, versione italiana dell’omonimo network statunitense, non certo sospettabile di tardo-bolscevismo. Ma – in soldoni – la conclusione è la stessa. E non ci sorprende, visto che “i decisori” internazionali hanno bisogno di informazioni vere, non di chiacchiere autorassicuranti.

Tornato al suo lavoro, Minenna ha ripreso a studiare i meccanismi regolativi tra gli Stati della Ue, e in specifico il funzionamento dell’euro, il ruolo effettivo della Banca Centrale Europea (Bce), i loro effetti sulle varie economie “nazionali”.

Senza le catene ideologiche a là Bonino, che avviliscono la capacità di comprensione di certa “sinistra”, si può agevolmente vedere e misurare il concreto operare del sistema dei trattati che tengono insieme la Ue. Abbiamo messo in corsivo i passaggi principali dell’articolo di Minenna, per aiutare anche i non addetti ai lavori ad identificare più celermente i contenuti – economici, politici, monetari – che devono guidare qualsiasi discussione politica dei soggetti popolari in lotta per cambiare il quadro esistente.

Proviamo a riassumerli sinteticamente.

a) La discussione sulle “riforme” da apportare ai trattati è orientata da interessi particolari (nazionali, finanziari, imprenditoriali, ecc), non da visioni utopistiche sulla migliore società possibile;

b) Il funzionamento della Ue e della moneta unica hanno favorito alcuni paesi e distrutto altri, al punto che la tenuta dell’insieme presuppone la “condivisione dei rischi” (tra aree economiche in surplus e quelle in deficit) oppure lo scioglimento più o meno consensuale della “comunità”;

c) Chi si è fin qui avvantaggiato di quei trattati sta già disegnando “riforme” che consentano l’uscita dalla moneta unica, ma in modo tale da mantenere i vantaggi (l’esistenza di un mercato unico fortemente squilibrato tra le varie aree) senza doverne pagare i costi (spostamento di risorse verso le aree depresse e/o rischio di dissesto per le proprie filiere produttive);

d) Quando si dice che “qualcuno si è avvantaggiato” non si fa riferimento a Stati o nazioni – anche se la retorica dominante parla in termini “patriottici” – ma quasi soltanto a figure sociali apicali: multinazionali e grande finanza, soprattutto;

e) La frammentazione della Ue, e soprattutto della moneta unica, è ormai un tema che si è imposto all’attenzione della classe dirigente europea.

Sarebbe idiota che non se ne ragionasse altrettanto seriamente anche tra chi si è opposto, per oltre dieci anni, alle “politiche di austerità”. A meno di non credere che ci si possa battere contro una “politica” lasciando però in pace i soggetti che l’hanno elaborata per avvantaggiarsene, fino a renderla un diktat imposto da una apposita struttura istituzionale

In fondo, come proviamo a ricordare spesso, per creare una forte rappresentanza politica del nostro blocco sociale (che non coincide necessariamente con quella solo elettorale), non basta stilare un programma di rivendicazioni socialmente appetibili e giuste. Bisogna anche capire e spiegare come si pensa di realizzare quegli obiettivi nelle condizioni date.

Se ogni mossa di un qualsiasi governo deve essere approvata e autorizzata dalla Commissione Europea; se gli squilibri creati dal sistema dei trattati si vanno ingigantendo ogni giorno che passa; se non è possibile “riformare la Ue” se non nel senso deciso da Germania e (in misura molto minore) Francia…

Qual è il sentiero su cui si vogliono organizzare “i nostri” per cambiare tutto?

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La Germania propone una via d’uscita dall’euro. Per proteggere se stessa

Marcello Minenna*

Nonostante un’economia che va a pieni giri, con la crescita del PIL al 3%, la disoccupazione al 3,6% ai minimi da 40 anni ed un surplus commerciale record che sfiora i 300 miliardi di €, i maggiori economisti tedeschi sono assai preoccupati per le sue sorti. La minaccia più immediata? Che il dibattito sulle riforme dell’Unione monetaria prenda una piega concreta verso la condivisione dei rischi, grazie soprattutto alle (timide) pressioni francesi e data l’inspiegabile assenza dell’Italia. Infatti, una riforma dell’Eurozona anche solo debolmente risk-shared che aumentasse (di poco) i trasferimenti di risorse verso i Paesi periferici vorrebbe dire rinunciare al comodo status quo attuale, nel quale l’industria tedesca può sfruttare la robusta ripresa del mercato europeo interno per le proprie esportazioni a prezzi ultra-competitivi.

La proposta ufficiale del gruppo di influenti economisti tedeschi, tra cui Hans-Werner Sinn e Karl Konrad del Planck-Institut e niente meno che il Presidente del Consiglio dei Saggi Economici (Sachverständigenrat), Christoph Schmidt è radicale ma non sorprendente: la legislazione comunitaria dovrebbe prevedere espressamente una procedura di uscita dall’Eurozona, sulla falsariga dell’Articolo 50 del Trattato di Lisbona recentemente invocato dal Regno Unito.

Con buona pace dell’irrevocabilità dell’Euro, dell’irreversibilità del processo di integrazione ed altri sinonimi altisonanti invocati a fasi alterne dall’euro-burocrazia, i tedeschi vogliono una via di uscita chiara dall’Euro. Al momento attuale infatti per un Paese membro l’unica possibilità di abbandonare l’Euro passa proprio attraverso l’applicazione dell’articolo 50, che però richiederebbe anche l’uscita tout court dall’Unione Europea e dal mercato unico. Una scelta con dei costi per l’economia manifatturiera tedesca, così ultra-integrata con i suoi Paesi satelliti, che appaiono proibitivi anche al gruppo di pensatori radicali tedeschi.

La minaccia dei saldi debitori di Target 2

L’intellighenzia teutonica è soprattutto crucciata dall’accumularsi dei c.d. saldi Target2, con squilibri crescenti tra le banche centrali creditrici dei Paesi core e quelle debitrici dei Paesi periferici. Il saldo a credito della Bundesbank a fine febbraio 2018 ha raggiunto un picco monstre di 913 miliardi di € (ben più alto del precedente record raggiunto nel 2012). È importante capire come questa preoccupazione faccia senso solo perché negli ambienti accademici tedeschi oramai si ragiona esplicitamente nella direzione di una Germania senza Euro.

Tuttavia, per il peculiare funzionamento del sistema Target2, le banche centrali nazionali – che intermediano sempre le operazioni transfrontaliere delle proprie banche – non regolano tra loro le transazioni, iscrivendo semplicemente la posta all’interno del proprio bilancio. I saldi Target2 insomma sono debiti e crediti fittizi tra banche centrali, non esigibili e senza nessuna scadenza, remunerati infatti da un tasso di interesse minimo, quasi simbolico.

Per capire meglio: un’azienda italiana che importa dalla Germania attraverso la propria banca nazionale genera automaticamente un “debito” Target2 per la Banca d’Italia, perché il bonifico in partenza dalla banca italiana viene trasferito alla corrispondente banca tedesca direttamente dalla Bundesbank. Però i fondi in partenza dalla banca italiana si “fermano” contabilmente in Banca d’Italia, che non paga nulla alla Bundesbank, ma iscrive semplicemente un debito nel proprio bilancio nei confronti della banca centrale tedesca. Lo stesso succede se una banca italiana compra un BTP da una banca tedesca.

Considerato che Banca d’Italia e Bundesbank sono solo succursali della BCE dov’è il problema? Se l’Unione monetaria rimane intatta non ci sarà mai nessun problema, i saldi Target2 rimarranno solo sulla carta e potrebbero essere potenzialmente di entità illimitata.
Rimarrebbero
testimonianza contabile – questo sì – di uno squilibrio persistente nei flussi commerciali e finanziari dell’Eurozona provocato prima dalla fissazione irrevocabile dei tassi di cambio delle precedenti valute dei Paesi membri e poi dalle logiche segregazioniste dei rischi sottese alle misure straordinarie della BCE.

Ricordiamo infatti che i prestiti (LTRO) erogati da Francoforte tra il 2011 e il 2012 sono stati usati dalle banche periferiche per saldare crediti commerciali verso le banche franco-tedesche e assorbire le loro esposizioni in Govies (titoli di Stato) del Sud Europa. Se fossero andati direttamente a imprese e famiglie, i saldi Target2 non si sarebbero mossi. Parimenti se col Quantitative Easing la BCE avesse comprato direttamente i titoli di Stato senza coinvolgere le banche centrali nazionali. Una sintesi efficace delle più recenti ricerche in materia effettuata dalla London School of Economics per conto dell’Europarlamento nel novembre 2017 (TARGET (im)balances at record level: Should we worry?) evidenzia proprio queste caratteristiche strutturali delle divergenze nei saldi Target2.

 

Chi paga i debiti di Target2 in caso di uscita dall’euro?

Se un Paese sta progettando di abbandonare la moneta unica, i rischi virtuali che sono stati “segregati” nei saldi Target2 si materializzano. Ipotesi: l’Italia decide di uscire, magari attraverso l’art.50 del Trattato di Lisbona. La Banca d’Italia si scinde dalla BCE riacquisendo una propria autonomia di bilancio. In questo caso i saldi Target2 diventerebbero debiti e crediti reali tra autorità monetarie ben distinte. Nello scenario probabile di forte stress economico e finanziario indotto dall’abbandono dell’Unione Europea, la Banca d’Italia – tornata verosimilmente sotto il controllo governativo – non avrebbe certo tra le sue priorità il pagamento di debiti (peraltro senza nessuna scadenza) per 440 miliardi di € alle altre banche centrali dell’Eurozona.

Ecco dunque che in questa prospettiva si capiscono le preoccupazioni tedesche. Il loro credito “potenziale” di oltre 900 miliardi verso l’Eurozona potrebbe essere di impossibile riscossione se si trovassero di fronte ad un’uscita unilaterale di un Paese Periferico come Italia e Spagna, o anche se fosse il governo tedesco ad optare per il ritorno ad un nuovo marco. Il presidente della Bundesbank Weidmann ne è pienamente consapevole e non a caso da anni propone un’ipotesi di collateralizzazione dei saldi Target2 dove le banche centrali dovrebbero porre a garanzia di eventuali deficit degli attivi di sicuro valore, come l’oro.

Allo stato attuale non è chiaro né se in caso di uscita unilaterale i saldi debbano essere regolati, né in quale valuta di riferimento.

Su questo si può dibattere a lungo: in una celebre risposta del gennaio 2017 all’interrogazione di due euro-parlamentari italiani, il Presidente Mario Draghi dichiarò pubblicamente che nel caso estremo di un’uscita unilaterale dalla moneta unica i saldi sarebbero dovuti essere regolati nell’immediato, ed in Euro. Un’interpretazione autentica e radicale, che rinfocolò in parte le tensioni sulla tenuta dell’Eurozona alla vigilia del voto presidenziale francese. Lo stesso Draghi però pochi mesi dopo fece marcia indietro, su una nuova interrogazione da parte di europarlamentari olandesi, dichiarando che la BCE stessa non poteva fare ipotesi sulla fine dell’Euro data la sua irrevocabilità.

A ben vedere infatti, la dichiarazione di Draghi implicava specularmente che le nazioni a credito come Germania ed Olanda dovessero essere “premiate” per la decisione di uscita con il regolamento in euro – e non in valute nazionali – a proprio favore dei saldi Target2. Un incentivo all’uscita, in pratica, che la BCE non poteva legittimamente sostenere.

D’altro canto, dall’analisi della documentazione legale sul sistema di pagamenti Target2 sembra che i conti tecnici su cui vengono regolate materialmente le transazioni siano soggetti a legge nazionale. Di conseguenza nel caso estremo di un’uscita unilaterale dall’unione monetaria da parte di uno dei Paesi membri, non è possibile escludere che un eventuale tentativo di ridenominazione in valuta diversa dall’Euro (come nuove lire, o dracma o peseta, verosimilmente svalutate) non possa essere tentato in sede legale dal Paese uscente.

Dal punto di vista della Germania dunque, sia che si concretizzi il rischio di un’Italexit innescata da un governo non cooperativo con la disciplina fiscale dell’area Euro, sia che si vada verso una riforma dell’Unione monetaria che abbracci il principio della condivisione dei rischi, conviene che esista una procedura ordinata di uscita dall’Euro. Alle loro condizioni, ovviamente.

La proposta di uscita dall’euro degli economisti tedeschi

Secondo la triade Sinn-Konrad-Schmidt, la clausola dovrebbe far parte di un nuovo pacchetto di riforme che si inserirebbe nel più ampio progetto lanciato dalla Commissione Europea lo scorso 6 dicembre e che comprende tra l’altro l’istituzione del Fondo Monetario Europeo e di un Ministro unico per l’Eurozona. A quanto si capisce dal materiale disponibile, l’attivazione della clausola di uscita sarebbe su base volontaria, ma fortemente proceduralizzata nei tempi e nelle modalità di negoziazione. Un punto chiave che sembra trasparire è che i saldi Target2 andrebbero regolati, magari non nell’immediato, ma con modalità che seguirebbero una laboriosa negoziazione, come è accaduto per la determinazione del Divorce Bill tra Regno Unito ed Unione Europea.

Nel caso “malaugurato” in cui l’euro-burocrazia e gli altri Paesi riuscissero a forzare il processo di integrazione verso una mutualizzazione dei rischi “inaccettabile”, una via di fuga di questo tipo consentirebbe alla Germania di poter abbandonare l’Eurozona con condizioni di vantaggio. Innanzitutto non dovrebbe abbandonare l’Unione Europea (ed il mercato unico) e manterrebbe poi un privilegio legale all’escussione dei 900 miliardi di saldi Target2 a credito nei confronti di tutti gli altri Paesi membri. La clausola offrirebbe alla Germania un cuscinetto anche nel caso in cui fosse l’Italia a decidere l’uscita, impedendo attraverso la fissazione di una procedura rigida una dissoluzione disordinata dell’Unione monetaria, con i relativi riflessi drammatici sui sistemi bancari e finanziari.

Cui prodest? La fattibilità di un utilizzo della clausola Eur-Exit da parte dell’Italia

L’Euro è nato esplicitamente senza prevedere la possibilità di una retromarcia da parte di uno dei Paesi membri, con la motivazione che ciò avrebbe rafforzato il processo unidirezionale di integrazione. Fu una scelta di carattere politico della cui efficacia ex-post e dell’opportunità ex-ante è lecito dubitare. L’economista USA Martin Feldstein definì la scelta di negare la possibilità di uscita come deleteria e foriera di conflitti. Di sicuro l’assenza di una clausola di uscita traeva la sua legittimazione da una prospettiva integrazione complessa, prima di tutto monetaria, ma successivamente fiscale ed infine politica. C’era cioè il presupposto implicito che ci si stesse muovendo verso un’”Europa dei trasferimenti” e della solidarietà; a che pro altrimenti decidere di bruciare i ponti rispetto al passato?

La proposta degli economisti tedeschi però antepone l’interesse nazionale a quello comunitario, prevedendo una scappatoia per la Germania proprio da quell’Europa dei trasferimenti che fungeva da presupposto al “salto nel buio” della moneta unica e che aveva già garantito tramite la cancellazione del debito tedesco una riunificazione senza troppi contraccolpi delle due Germanie. In una lettura non troppo distante dalla realtà, la Germania ha remato negli anni “contro” l’idea di un’Europa pienamente federale, quantomeno a livello fiscale, impantanando il processo di integrazione. In questo contesto mutato – di cui bisognerà prendere atto prima o poi – l’inserimento in linea di principio di una clausola di Eur-exit indica sicuramente, nelle parole di Stefano Fassina, “consapevolezza storica, economica e politica”. Nella sostanza, disegnare una clausola di uscita che possa tutelare il Paese periferico richiedente appare tutt’altra storia e mi vede piuttosto scettico.

Le modalità indicate dagli economisti tedeschi sono ovviamente pro domo sua, ed appaiono fortemente penalizzanti per il nostro Paese. Al di là dell’esigibilità dei saldi Target2, una procedura di Eur-exit rigida nei tempi e nelle modalità stile Art.50 tenderebbe ad aumentare piuttosto che ridurre i costi di uscita per l’Italia. Quale sarebbe infatti la posizione della BCE nel periodo di negoziazione? Fungerebbe da ombrello protettivo per il sistema bancario nazionale fino alla fine del periodo transitorio o ridurrebbe gradualmente il suo impegno?

Anche se la ‘attitude’ della BCE fosse apparentemente collaborativa, rimarrebbe comunque uno strumento di pressione da parte degli Stati rimanenti al fine di raggiungere un accordo più favorevole, come d’altronde l’esperienza della crisi greca del 2015 insegna piuttosto bene. Storicamente tocca constatare come gli accordi di cambi fissi tendono a rompersi improvvisamente. Può apparire paradossale, ma l’esistenza di una Banca Centrale unica a sostegno di un sistema di cambi fissi può solo complicare il processo di ritorno alle valute nazionali.

* Economista, @marcellominenna

da Business Insider

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