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Siria o la fine dell’egemonia statunitense

Era da mezzo secolo, con la crisi dei missili a Cuba, che il mondo non viveva una situazione tanto pericolosa. Il tentativo, per ora frustrato, degli Stati Uniti di attaccare la Siria ha messo il mondo in una situazione limite perché è ormai chiaro che, più che a cause interne, la crisi siriana risponde a dispute di potere di ambito regionale e globale. Nel primo caso, le potenze sunnite –Turchia, Arabia Saudita e Qatar- contro l’Iran sciita. Nell’arena globale, gli Stati Uniti e i loro alleati sono contemporaneamente impegnati nel “perforare” le capacità dell’Iran e nel garantire la sopravvivenza di Israele. L’una e l’altra cosa sono vitali affinché gli Stati Uniti mantengano la loro egemonia. Per questo collide con la Russia, la Cina e le potenze emergenti come India e Brasile. Nell’uno o nell’altro campo, e dato il suo valore strategico, i morti ce li mette la Siria.

L’impegno dell’amministrazione Obama per abbattere il governo di Bashar Al-Assad è stato esplicito da quando, all’inizio del 2011 e al calore della cosiddetta “primavera araba”, ha puntato sulla rapida caduta del governo siriano. Per ora non ha avuto successo. Il finanziamento della divisa opposizione siriana proveniente dall’estero, dominata dall’islamica Fratellanza Musulmana, non ha dato i frutti sperati. Non ha funzionato nemmeno il passaggio di armamenti che direttamente o indirettamente ha fatto arrivare a chi combatte lo Stato siriano. In quell’impegno gli USA hanno utilizzato i loro peones regionali, le dittature islamiche del Qatar e dell’Arabia Saudita, e l’islamico governo turco. Siccome niente di tutto questo ha funzionato e, imbarcatosi ormai in un conflitto aperto con la Russia, storicamente più coerente nella sua politica siriana –dal XVIII secolo mantiene legami con il paese-, l’amministrazione Obama ha fatto il pericoloso passo delle ultime settimane. Si è consegnata armi e bagagli ai gruppi terroristi che operano in Siria. Desiderosi di forzare un intervento armato occidentale che permetta loro di vincere un conflitto che militarmente e politicamente hanno perso, i gruppi che agiscono all’est di Damasco hanno collaborato con gli USA nel sospetto episodio del supposto attacco con armi chimiche. Non sembra credibile l’uso di quelle armi da parte del governo siriano mentre si imponeva militarmente su quasi tutti i fronti e tre giorni dopo aver ricevuto gli osservatori ONU che dovevano proprio investigare circa l’uso di quelle armi da parte dei vari attori del conflitto. Quel tipo di armamento inoltre, non si suole usare in scenari come quello siriano, in cui i combattenti dell’una e dell’altra parte sono separati solo da pochi metri: le armi chimiche danneggerebbero allo stesso modo le forze dello Stato e chi le combatte. Malgrado l’evidenza, Washington ha pensato che sarebbe stata assecondata dai suoi alleati occidentali, ma il pronto rifiuto del Parlamento britannico di un attacco contro la Siria ha messo a nudo la confusione e la debolezza dell’attuale leadership statunitense. Che non li segua un Regno Unito che della cosiddetta “relazione speciale” con gli USA fa la pietra miliare della sua politica estera, è cosa molto rivelatrice.

Certamente il fallimento degli USA è dovuto anche al fatto che gli alleati della Siria, cominciando dalla Russia e continuando con la Cina e l’Iran, hanno agito dall’inizio alla fine con coerenza e responsabilità. Meglio informati, hanno saputo fin dal principio che l’unica alternativa attuale a Bashar Al-Assad era l’integralismo islamico radicale e violento. Per questo non si sono mossi dalle loro posizioni. A ciò bisogna aggiungere la forza dello Stato siriano aconfessionale, che ha sorpreso per la sua capacità di resistenza. Sottoposto a una pressione brutale da parte dei suoi molti nemici regionali e globali, è riuscito a mantenere il polso della situazione politica e militare. Entrambi i fattori sono in relazione e conviene tenerli in conto. Senza appoggio politico della maggioranza della popolazione nessun esercito può sostenere per tanto tempo una sfida come quella che affronta la Siria e la sua leadership. In Siria la maggioranza della popolazione ha avuto chiaro fin dal principio e malgrado i molti soprusi ed errori che si possano attribuire al governo, che l’alternativa era una dittatura islamica contraria all’essenza della società siriana, che da millenni è pluriconfessionale. Questo è il vero armamento su cui conta la Siria, un sofisticato mosaico costruito alla pari da cristiani e musulmani di denominazione molto differente. Per questo la possibile rinuncia della Siria al suo arsenale chimico non è tanto rilevante. Per questo sta anche mettendo a nudo l’impotenza degli Stati Uniti che nella crisi siriana esibiscono un’incoerenza e una debolezza che annuncia la fine dell’egemonia di cui hanno goduto gli USA dalla fine della guerra fredda.

Fonte: quotidiano Publico, 14 settembre 2013 (traduzione di Rosa Maria Coppolino)

* Professore-ricercatore dell’Università Complutense di Madrid e del Centro di Studi Arabi della Universidad de Chile

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