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Altro che 3%, Renzi alunno ubbidiente di Bruxelles

Ricordate la conferenza stampa del 12 marzo scorso, quella in cui Renzi, col supporto delle slide, annunciava il bonus di 80 euro in busta paga? Bene. A proposito delle coperture per sostenere la manovra da 10 miliardi, il premier aveva detto che una parte di esse sarebbe arrivata dal margine di deficit-Pil che dal 2,6% porta fino al 3%, il limite massimo previsto dal Trattato di Maastricht.

Qualcuno, tra cui il sottoscritto, faceva notare che il vincolo del 3% – che, beninteso, rimane come soglia invalicabile – di fatto era stato superato dagli obblighi derivanti dal nuovo patto di bilancio. Il ragionamento era questo: Renzi potrà utilizzare il differenziale di deficit solo a condizione che rinunci a rispettare i vincoli del Fiscal compact, tra cui quello del pareggio di bilancio strutturale, ovvero l’equilibrio tra entrate ed uscite dello Stato al netto delle una tantum e dei fattori congiunturali, entro il 2016.

Dando un’occhiata alle previsioni contenute nel Documento di Economia e Finanza (Def) appena varato, ciò che si coglie immediatamente è il fatto che non solo non si programma di sforare il tetto del 3% (a gennaio però questa ipotesi il premier l’aveva in qualche modo ventilata), ma non si prevede nemmeno il recupero del margine tra il 2,6% stimato per quest’anno e il 3% fissato dai trattati, per come si era parlato nella conferenza stampa di marzo.

Andiamo ai numeri (Indicatori di finanza pubblica). Per l’indebitamento netto nominale (in percentuale del Pil) si prevede per quest’anno un -2,6, che dovrebbe diventare -2,0 l’anno prossimo e -1,5 nel 2016. In termini strutturali tale indebitamento passerebbe dal -0,6 di quest’anno allo 0,0 del 2016. Più semplicemente, questo significa che il governo, al di là degli annunci e della propaganda, intende rispettare pedissequamente ciò su cui il nostro Paese si è impegnato con Bruxelles e, segnatamente, ciò che impone il Fiscal compact, ovvero il conseguimento del pareggio di bilancio in termini strutturali entro il 2016.

Nell’era della comunicazione frenetica le notizie hanno un tempo di vita brevissimo, si sa. E quello che si dice oggi non è detto che arrivi fino a domani. Ma qui siamo di fronte ad un rovesciamento clamoroso degli impegni assunti pubblicamente con il Paese. Senza, peraltro, darne una spiegazione a posteriori.

Torniamo ai fatti. Non più di un mese fa il Commissario europeo agli affari economici e monetari Olli Rehn, aveva avvertito il governo sui rischi di nuovo sforamento dei conti pubblici e, dunque, sull’apertura di una nuova procedura di infrazione a nostro carico. Aveva detto che per stare dentro i vincoli del patto di stabilità l’Italia avrebbe dovuto realizzare “surplus primari al di sopra dei livelli storici”. Tradotto: ridurre drasticamente la spesa pubblica per avere avanzi primari (rapporto tra entrate ed uscite dello stato al netto degli interessi sul debito) più sostanziosi, oltre il 2,2% realizzato l’anno scorso che già ci vedeva in testa nell’intera zona Euro.

Ricordate la risposta – stizzita – di Renzi? “No all’Europa dei vincoli”. Come a dire: il nostro paese è stufo dei diktat di Bruxelles. Sennonché, ritornando sul Def, su questo versante scopriamo che il governo è andato perfino oltre i “compiti a casa” assegnatigli dal severo commissario finlandese. La previsione, infatti, è questa: un balzo del surplus primario dal 2,6 (sul Pil) di quest’anno al 4,6 del 2017, fino al 5 nel 2018. Sostanzialmente 2 punti di Pil di minori spese (sembra che non sia previsto, al momento, un aumento delle entrate fiscali) in tre anni che, grosso modo, farebbero 32 miliardi di euro. Esattamente quanto ha stimato di rastrellare nello stesso periodo il commissario per la Spending Review Carlo Cottarelli.

I conti tornano. Da qui ai prossimi mesi la macchina dei tagli alla spesa, compresa quella sociale, e della svendita del patrimonio pubblico dovrà girare a pieno regime, anche per compensare gli effetti sul bilancio dalla misura sull’Irpef. Altro che margini di manovra sul deficit!

Cottarelli, dal suo canto, sta mettendo già le mani avanti, sapendo che questi tagli non saranno indolori (solo dalla “revisione della struttura dello Stato” si prevedono 85 mila esuberi, uno scenario greco!). In ogni caso è prevedibile l’impatto negativo che gli stessi potranno avere sul Pil (forse per questo le stime sulla crescita sono molto “prudenti”). Un impatto che non potrà essere mitigato né dalle “riforme strutturali” del mercato del lavoro e da una modesta riduzione del cuneo fiscale, né dal bonus Irpef per i redditi inferiori a 25 mila euro.

Tutti gli studi più autorevoli al riguardo, compresi quelli del Fondo monetario internazionale, dimostrano che un taglio della spesa pubblica di 10 miliardi avrebbe come effetto una contrazione del Pil di oltre 15 miliardi, mentre una riduzione della pressione fiscale di 10 miliardi comporterebbe un incremento del Pil di non più di 2 miliardi. Provate a quantificare l’effetto di 32 miliardi in tre anni!

Al netto delle piroette del premier, ordunque, la strada sembra tracciata: ora e sempre austerità!

* dal blog sull’edizione italiana dell’Huffington Post

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