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La III Guerra in Iraq, stavolta senza tamburi. Un motivo c’è

La III Guerra in Iraq è già iniziata, con la rapida conquista della fascia centrale del paese da parte delle milizie ben armate dell’IS (Stato Islamico – originariamente ISIL, Stato Islamico dell’Iraq e del Levante) e con la presa armata, da parte della guerriglia curda nel nord, della zona petrolifera di Kirkuk e l’«espulsione» (agevolata con premi di trasloco) dei non-curdi della regioneStrano a dirsi, quest’ascesa folgorante dei fanatici dell’IS non sembra preoccupare l’Occidente più di tanto – e nemmeno l’espansionismo curdo. Niente allarmismi da Washington, nemmeno dai falchi, solitamente pronti a cogliere qualsiasi occasione per reclamare un’azione militare.

 

Di conseguenza, i nostri mass media non battono con fracasso i tamburi di guerra, come fecero prima della I Guerra in Iraq (1990), della Guerra in Afghanistan (2001), della II Guerra in Iraq (2003), e della Guerra in Libia (2011) per far accettare dall’opinione pubblica l’impiego anche di militari italiani in questi conflitti.

Una quiete surreale accompagna le vittorie odierne in Iraq delle milizie dell’IS, per quanto esse siano indiscutibilmente composte da guerrieri feroci e fanatici. Persino il Presidente Obama rimanda di continuo l’uso offensivo in Iraq dei suoi amati droni e consente il tranquillo svolgersi degli eventi.

 

Una spiegazione per tutto ciò ci sarà.

Forse queste belve dell’IS non sono poi così pericolose, in fin dei conti? (Per gli interessi economici e geopolitici occidentali, s’intende.). Forse l’espansionismo curdo è stato concordato con l’Occidente (e pagato con la consegna, due settimane fa, dei primi barili di petrolio a Israele)?

Ad una tavola rotonda sugli eventi in Iraq, organizzata il 7 luglio 2014 dal think tank ISPI al Centro Studi Americani di Roma, molti partecipanti hanno fornito chiavi d’interpretazione che sembrano avvalorare queste tesi.

Per cominciare, le milizie dell’ISIS stanno facendo chiaramente un favore a Israele smembrando l’Iraq in tre entità autonome: curda nel nord, sunnita nella fascia centrale e sciita nel sud; infatti, sin dagli anni ’50 un tale smembramento è stato auspicato esplicitamente da Tel Aviv. (Per Israele, è più facile difendersi da staterelli che litigano costantemente tra di loro, piuttosto che da una grande potenza militare, com’era l’Iraq di Qāsim o, ancora di più, quello di Saddam Hussein.)

Anche gli Stati Uniti sembrano prediligere ora, in Iraq, la soluzione dello “smembramento con conflitto permanente tra le fazioni”. È vero che il dominio diretto dell’Iraq sarebbe stato preferibile, qualora fosse stato possibile: avrebbe consentito agli USA di impossessarsi delle risorse naturali del paese, senza dover negoziare di continuo tra le fazioni per ottenere le condizioni più vantaggiose. Ma il dominio diretto si è rivelato troppo costoso, troppo logorante e, militarmente, troppo intricato (in Iraq come in Afghanistan, del resto). Meglio allora dividere et imperare.

La Libia fu, nel 2011, il primo grande esperimento pratico di questa nuova strategia, di questo RisiKo! giocato con milioni di vite umane. Gli USA, la Gran Bretagna, la Francia e l’Italia hanno dapprima incitato i libici dell’est alla rivolta per poter intervenire poi con i loro bombardieri, ufficialmente allo scopo di “salvare i ribelli dal regime” ma, in realtà, per distruggere le maggiori infrastrutture e tutti i gangli politico-sociali del paese. Lo ha detto esplicitamente un generale statunitense, con orgoglio: missione compiuta; «con le bombe abbiamo ricacciato la Libia nel medioevo!» Infatti il paese – fiorente anni fa con il più alto tenore di vita e livello d’istruzione del continente (dopo il Sud Africa) – ormai è in rovina. Bande erranti di milizie dettano legge e fanno guerra tra di loro. Della tanta osannata democrazia, portata dall’Occidente a costo di 50mila libici morti e centinaia di migliaia dislocati, oggi neanche una traccia: alle ultime elezioni ha votato solo il 18% della popolazione. In compenso, le compagnie petrolifere occidentali, che Gheddafi aveva cacciato dal paese, riescono ora ad ottenere il petrolio a prezzi stracciati, mettendo le bande di milizie le une contro le altre. Gheddafi, invece, aveva imposto prezzi norvegesi.

Quindi sembra funzionare egregiamente il nuovo modello di conquista occidentale, ovvero “smembramento con conflitto permanente tra le fazioni”.

La Siria doveva essere il secondo grande esperimento della sua efficacia, ma quel testardo di Assad, sostenuto da gran parte della popolazione, vuoi come salvatore, vuoi come il male minore, ha resistito e continua a resistere.

 

Per cui l’Occidente ora si sposta in Iraq, per tentare di applicare ancora una volta la sua nuova ricetta di “guerra e smembramento”.

L’Iraq, del resto, era da tempo finito sulla lista nera statunitense e israeliana. L’Occidente aveva assecondato la candidatura di Nuri al-Mālikī come primo ministro perché prometteva di essere accomodante; invece, una volta insediato, ha cacciato la più grossa compagnia petrolifera statunitense dal sud dell’Iraq; ha concesso i contratti principali per i nuovi pozzi petroliferi a (apriti cielo!) la Cina; ha facilitato il passaggio di armi dall’Iran ai nemici giurati d’Israele, Hezbollah (armi usate anche per soccorrere il governo Siriano che gli USA cercano invece di abbattere); ha autorizzato il passaggio, sul suolo iracheno, del gasdotto iraniano-siriano-mediterraneo, concorrente del gasdotto USA che, dal mar Caspio, doveva attraversare la Turchia per arrivare al Mediterraneo… insomma, ne ha combinato delle belle.

Ed ecco arrivare le milizie dell’IS, quasi telecomandate, per dare una mano agli USA e a Israele nel loro tentativo di rovesciare al-Mālikī. Formatesi inizialmente in Siria per rovesciare Assad, finanziate dall’Arabia Saudita per conto delle compagnie petrolifere occidentali (il vero State Department per le questioni medio-orientali), le milizie dell’IS hanno avuto facile gioco ad impossessarsi della fascia centrale dell’Iraq. Prima perché è abitata dai loro correligionari sunniti i quali vogliono, anche loro, cacciare lo sciita al-Mālikī dal potere. E poi perché sono di religione sunnita anche molti ufficiali dell’esercito iracheno di stanza nella fascia centrale del paese, alcuni dei quali hanno facilitato il compito delle milizie sunnite dell’IS rinunciando al combattimento e mandando a casa le proprie truppe, presumibilmente in cambio della promessa di un posto di comando nel nuovo regime. In pratica, l’IS ha incontrato pochissima resistenza.

Tuttavia altri capi sunniti locali, pur desiderando, anche loro, la fine del governo pro-sciita di al-Mālikī, rifiutano di lottare a fianco delle milizie dell’IS, giudicate troppo fanatiche. È facile prevedere, dunque, un futuro regolamento di conti tra questi sunniti locali e i militanti dell’IS, una volta rovesciato il regime attuale. Una di queste formazioni di sunniti locali, il Consiglio militare degli insorti iracheni, viene descritta favorevolmente in questo appello che chiede il sostegno occidentale alla “lotta degli iracheni” contro al-Mālikī. Ma l’appello desta sospetti; è troppo abilmente scritto in un’ottica occidentale; si sente la mano dello State Department statunitense (reparto PsyOps) e ciò fa sospettare anche il finanziamento USA dello stesso Consiglio militare e di altri capi sunniti locali che rifiutano sia al-Mālikī, sia l’IS. In pratica, non è affatto fantapolitica ipotizzare che gli USA, per salvaguardarsi contro qualsiasi eventualità (bet-hedging), stanno finanziando tutte le fazioni in campo, seppure in maniera differenziata, indirettamente tramite l’Arabia Saudita e forse anche direttamente in alcuni casi particolari.

 

Qual è dunque lo scenario più prevedibile in Iraq nel prossimo futuro? Se è esatto quanto affermato fin qui – e cioè, che la III Guerra in Iraq nasce per mano dell’Occidente allo scopo di ottenere i vantaggi economici e geopolitici indicati prima – allora è prevedibile che nel prossimo futuro:

  • l’IS non conquisterà per intero l’Iraq (altrimenti diventerebbe una potenza regionale difficilmente controllabile); minaccerà Baghdad (per far cadere al-Mālikī) ma non la prenderà d’assalto, pena un intervento aereo statunitense per ristabilire gli equilibri;

  • premesso ciò, l’IS manterrà comunque la sua presa sulla fascia centrale dell’Iraq, il che, insieme alle rivendicazioni secessioniste dei curdi nel nord, porterà alla caduta dell’attuale governo e la sua sostituzione con un triumvirato curdo-sunnita-sciita;

  • il triumvirato, paralizzato da rivalità interne, assisterà impotente alla dissoluzione ufficiale dell’Iraq in tre o più staterelli;

  • nello staterello centrale, s’insorgeranno poi contro l’IS le milizie sunnite locali meno radicali e sostenute dall’Occidente, come appunto l’appena nominato Consiglio militare degli insorti;

  • l’IS perderà dunque la sua egemonia. Potrebbe sparire (senza nemmeno il benservito da parte dell’Occidente) se lo State Department (quello vero, a Houston) fermerà il rubinetto delle sovvenzioni saudite; ma probabilmente i finanziamenti continueranno per consentire all’IS, che goderà comunque dei proventi petroliferi di Baiji. di guerreggiare contro le altre milizie sunnite e di mantenere l’Iraq in uno stato di caos permanente (lo scenario libico).

Se queste sono le prospettive più probabili per il futuro, allora è chiaro perché, oggi come oggi, né Washington, né Tel Aviv, né i capitali europei si allarmano per l’ascesa folgorante del fanatico Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, a due passi da casa loro. L’hanno voluto.

Tel Aviv, ad esempio, si sente sicuramente più a suo agio con un avversario come l’autoproclamato “califfo” dell’IS, Abu Bakr al Baghdadi, rispetto ad un Hassan Nasrallah, leader degli Hezbollah, o simile. Nel suo primo sermone a Mosul (video-registrata), il nuovo califfo ha infatti evitato la solita retorica anti-sionista; non ha colto l’occasione per attaccare Israele che, proprio in quel momento, aveva pur lanciato l’ennesima offensiva cruenta contro i palestinesi; non ha nemmeno pronunciato le parole “sionismo”, “Israele” o “ebrei”. Musica nuova in cucina. (In un’occasione precedente, è vero, al Baghdadi aveva detto di voler “conquistare Roma”; ma si è trattato di una metafora, secondo molti degli intervenuti alla tavola rotonda dell’ISPI, per indicare il primeggiare del suo califfato, retto dalla Sharia, sull’impero cristiano, simboleggiato dal Vaticano.)

Il segno più evidente, però, che le milizie dell’IS sembrano rientrare tranquillamente nella strategia globale imperialista dell’Occidente è il semplice fatto che il fenomeno non è affatto una novità, è stato seguito da anni dagli specialisti statunitensi e israeliani che hanno dunque consentito, se non addirittura favorito, la sua crescita. «ISIL/IS non è di oggi» (“ISIL/IS has been a long time in the making“), ha insistito il relatore principale, il professor Ibrahim Al-Marashi, docente di Storia del medio oriente alla California State University San Marcos. La rapida crescita dell’ISIL/IS in Siria, ha aggiunto lo studioso, è dovuta al fatto che il governo di Assad ha voluto garantire l’asse nord-sud del paese, assolutamente vitale per il movimento di truppe e materiali, lasciando sguarnito l’asse est-ovest, sopratutto al nord. Le milizie dell’ISIL/IS hanno dunque potuto conquistare quell’asse e poi l’hanno semplicemente prolungato in Iraq. Ma entra in gioco anche la complicità della Turchia nel lasciare aperti i varchi lungo la sua frontiera con la Siria, usati dall’ISIL/IS per rifornirsi. Ora, dal momento che la Turchia è un paese NATO, non è da escludere che la stessa NATO fosse al corrente del traffico di armi e di materiali e quindi complice de facto dell’ascesa dell’ISIL, ora IS.

In un breve scambio privato dopo la tavola rotonda, Al-Marashi ha riconosciuto che la pressione esercitata attualmente dalle milizie dell’IS su al-Mālikī e su Assad non può che essere ben vista da Washington. Nel caso della Siria, per esempio, quella pressione dà il tempo a Washington di mettere in piedi le “milizie moderate” cui si riferisce la recente richiesta di stanziamento di 500 milioni di dollari – milizie che sostituiranno l’ormai inconcludente Esercito Siriano Libero e che dovranno poi arrivare prima dell’IS al palazzo presidenziale, cacciare Assad e insediare un Presidente gradito da Washington. Alla domanda se egli ritenga che il governo statunitense abbia allora finanziato direttamente o indirettamente le milizie dell’IS, lo studioso, visibilmente imbarazzato, ha risposto diplomaticamente che, essendo uno storico, si riservava di rispondere a tale domanda dopo i canonici cinquant’anni. Un altro componente della tavola rotonda, presente allo scambio, ha poi aggiunto: «Come no! Gli americani non sono nuovi a finanziamenti del genere, amano fare gli apprendisti stregoni». Già! Come si è visto, poi, l’undici settembre del 2001.

 

 

 

 

 

Quale posizione, allora, deve prendere un pacifista – o, più semplicemente, un cittadino sensibile – davanti a questa intricata vicenda?

Fu molto più facile manifestare, il 15 febbraio del 2003, contro l’invasione miliare USA dell’Iraq, preannunciata dall’allora presidente George W. Bush, in quanto essa era platealmente imperialista (ed anche illegale secondo la Carta dell’ONU).

Ma come si fa oggi a manifestare contro un’ingerenza a stelle e strisce (e a stella di David) in Iraq, ingerenza che rimane tutta da provare?

 

 

 

Eppure la martoriata società civile irachena chiede il nostro sostegno: vedi, ad esempio, questo appello del Forum Sociale Iracheno, che elenca cinque iniziative che noi in Occidente possiamo intraprendere per una campagna di controinformazione e di promozione del dialogo tra le parti.

Oltre a ciò, possiamo chiedere al governo italiano di uscire dagli organismi che coordinano il rifornimento di armi alle milizie attive nel Medio Oriente. Ad esempio, nel caso dei ribelli in Siria (finanziati da Washington sin dal 2005), ciò significa uscire dal “Gruppo di Londra”, gli ex “Amici della Siria”. Naturalmente, i fabbricanti di armi italiani obietteranno e perciò bisognerà chiedere nel contempo finanziamenti pubblici per una (seppur parziale) riconversione industriale che possa compensare, con il lancio di nuovi prodotti non letali, le mancate vendite di armi e munizioni.

Bisognerà inoltre elaborare, insieme ai parlamentari sensibili che fanno parte delle commissioni estere, mezzi di dissuasione economico-giuridici da proporre in sede internazionale:

  • sanzioni economico-finanziarie (come quelle praticate oggi contro l’Iran e la Russia) da applicare contro tutte le nazioni implicate in progetti di destabilizzazione di paesi terzi. Va fatto notare che non servono necessariamente le prove obbiettive di un’ingerenza per poter applicare una sanzione economica, come si è visto nel caso delle sanzioni contro la presunta ma mai provata ingerenza russa in Ucraina. Perciò, a passare all’offensiva e ad applicare sanzioni simili contro gli Stati Uniti e contro Israele per le loro velate ma intuibili ingerenze in Siria e in Iraq, potrebbero benissimo essere i paesi BRICS e i paesi dell’ALBA, sostenuti dietro le quinte da paesi terzi sensibili alle questioni della giustizia sociale (l’Italia?)

  • deferimenti davanti alla Corte penale internazionale (CPI) dell’Aia per crimini contro l’umanità. In questo caso servirebbero tassativamente prove obiettive di colpa; ma, per fortuna, in molti casi abbondano. Ad esempio, le prove dell’operato criminale (istigazione alla guerra civile) dell’Arabia Saudita e del Qatar in Iraq e in Siria, sono numerose, ben documentate e schiaccianti. Anzi, i leader di queste due petromonarchie spesso si vantano in pubblico del loro interventismo! Non solo, ma il solo discutere, nelle riunioni BRICS o Alba, della possibilità di deferire il re saudita davanti alla CPI (o di applicare una sanzione economica contro il Qatar), lancerebbe un segnale inequivocabile ai mandanti delle due petromonarchie, gli USA e Israele (i quali spesso si comportano nel mondo come se si ritenessero impunibili): ossia, che nemmeno loro sono sopra la legge.

Infine, siccome le guerre si fanno per il bottino, bisognerebbe, in positivo, allargare e potenziare le sedi di negoziato commerciale internazionale (come il WTO), per fare sì che la suddivisione delle risorse della terra non sia lasciata alle ingerenze internazionali, in particolare quelle militari.

 

* Rete No War, membro di U.S. Cityzen for Peace anda Justice in Italia

 

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