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Brexit. Lettera aperta alla sinistra britannica

Cari amici e compagni,

per uno straniero che ha vissuto e lavorato nel Regno Unito per gli ultimi sedici anni, l’immediata situazione post-referendum appare altamente paradossale. È come se lo shock fosse stato di una portata tale che pure le virtù britanniche più celebrate – l’humour inglese, la moderazione e, soprattutto, il buon senso – siano scomparse.

Dalla parte degli sconfitti, che include ovviamente la maggior parte dei media e dell’establishment economico e politico, l’impatto è stato devastante quanto inaspettato. I mercati stanno precipitando in tutto il mondo e la City di Londra, il sistema nervoso centrale dell’economia, affronta il disastro.

La sua voce semi-ufficiale, il Financial Times, lamenta che dopo le dimissioni di Jonathan Hill, il commissario UE della Gran Bretagna per i servizi finanziari, “la City di Londra ha perso la sua voce”. Alcuni stanno già facendo una petizione per un nuovo voto, o affinché il referendum sia ignorato.

Da una prospettiva continentale, questo sfacciato rifiuto della democrazia non è uno shock. Alla fine dei conti, in tutti gli ultimi referendum nei quali fosse in gioco una qualunque proposta dell’Unione Europea (una proposta costituzionale, un trattato, l’appartenenza all’euro, addirittura un oscuro trattato commerciale con l’Ucraina), i voti per il “no” hanno vinto e sono stati ignorati.

Tuttavia – e qua è dove sta il paradosso – il fatto è che non solo la City che appare agitata e senza voce. Anche la sinistra è nella stessa situazione.

Ovviamente, com’era pienamente prevedibile, tutti quelli che nel Partito Laburista non avevano mai accettato la leadership di Jeremy Corbyn hanno trovato il pretesto che cercavano per lanciare un assalto contro di lui. Me quello che sorprende è la loro giustificazione: Corbyn non avrebbe fatto abbastanza per la causa del “Remain”, e dunque è responsabile per la sua sconfitta.

Quasi due-terzi degli elettori laburisti hanno sostenuto il “Remain”. Tuttavia, il risultati mostrano che il “Leave” ha vinto in quasi tutte le roccaforti dei Laburisti al di fuori di Londra e un altro paio di città come Liverpool e Manchester. Anche qui, i quartieri più operai non hanno seguito l’Euro-entusiasmo dei centri città gentrificati.

Un significativo pezzo degli elettori laburisti hanno rifiutato la linea del “Remain” che la loro leadership stava ufficialmente difendendo, una linea che la maggioranza dei parlamentari laburisti anti-Corbyn hanno perseguito ancora più vigorosamente. A loro si sono uniti da una maggioranza di elettori. Ciononostante, in maniera bizzarra, i parlamentari che sono appena stati sconfessati dalle loro circoscrizioni stanno ora tramando per rovesciare un leader perché non ha fatto abbastanza per sostenere la loro piattaforma impopolare.

Una brutta sconfitta per il buon senso britannico, in effetti.

La logica conclusione dell’argomentazione è del tipo di Darwinismo sociale, profondamente radicato nella testa della classe dominante britannica, il quale è più o meno esplicitamente sostenuto da ogni tipo di esperti, in particolare quelli dei media di “centro-sinistra” come il Guardian.

La Brexit ha vinto, dicono, perché la parte più impoverita, essenzialmente bianca, della classe lavoratrice l’ha sostenuta. E queste coorti di perdenti e ignoranti hanno votato per il “Leave” perché sono razzisti e vecchi.

I dati – come l’oltre 70% di voti per il “Remain” in aree come i consigli londinesi di Haringey o Lambeth o in categorie quali quella dei 18-24 anni, o quelle che possiedono una laurea – sono ripetuti costantemente come l’evidenza definitiva.

La configurazione di classe del voto è certamente complessa. Parti sostanziali della classe lavoratrice, essenzialmente nella più grande area di Londra, hanno votato per il “Remain”, e una grande parte di loro non sono bianchi. Ma come testimoniano i risultati di aree multirazziali come i Western Midlands, non tutto l’elettorato della classe lavoratrice non-bianca ha votato “Remain”.

Anche i distretti considerati “classe lavoratrice bianca” – come Barking e Dagenham nelle maggiori aree di Londra dove l’estrema destra ha avuto qualche successo alle precedenti elezioni – ha un’alta proporzione di residenti nati fuori il Regno Unito (il 30%) e ha votato in maniera simile a Luton, che ha una proporzione simile di residenti stranieri.

Al contrario, molte aree molto bianche e ricche nella Londra Ovest o nell’Oxfordshire hanno votato in maniera travolgente per il “Remain”, che ha raggiunto quasi il 70% a Kensington e Chelsea.

In realtà, come indicato dal grafico del Guardian, che divide il voto in aree rispetto al reddito medio annuale, molti pochi posti al di fuori della Scozia (e alcune città relativamente grandi come Manchester, Liverpool e Cardiff) con un reddito annuale sotto le 25.000 sterline hanno votato per il “Remain”.

E la travolgente maggioranza delle aree con una proporzione sotto il 60% di quei residenti appartenenti alla cosiddetta “voti ABC1” (che sono i tre strati della “middle class” etichettati nel gergo statistico come “alta”, “media”, “piccola-media”) hanno votato per la Brexit.

Ancora una volta le eccezioni sono le stesse menzionate prima (Scozia ecc.) mentre la quasi interezza della aree dove la proporzione di quegli strati sociali raggiunge il 70% e oltre ha votato in maniera schiacciante in favore del “Remain”.

Secondo i sondaggi di Ashcroft c’è una correlazione fortemente lineare tra coloro che appartengono al grado sociale più alto e la propensione a votare “Remain” (57% per la AB “classe medio-alta”, sfortunatamente non differenziando tra i grado A e B, il 34% per il C2DE “classe lavoratrice” e “non-lavoratori”).

La logica di classe è pertanto fortemente prevalente ma sovradeterminata dalla polarizzazione spaziale che ha caratterizzato l’Inghilterra dall’era della Thatcher. Quindi, un lavoratore non-bianco che vive in un’area in declino tendeva a votare – insieme ai suoi vicini bianchi – per la Brexit, mentre la sua controparte nella economicamente fiorente capitale, anche se non necessariamente più ricco, tendeva a votare insieme alla popolazione più abbiente, con coloro con cui condivideva l’abbastanza fondata speranza per un futuro migliore (se non per loro stessi, almeno per i loro figli).

Qualcosa di simile si può dire riguardi il comportamento elettorale della popolazione più giovane, in particolare la frazione che possiede un titolo di laurea e che non è ancora propriamente entrata nel mercato del lavoro. Il tasso di “eurofilia” cade drasticamente nella massa della popolazione lavorativamente attiva (da 35% a 55%). L’euro-entusiasmo dei giovani ha a che fare con parametri culturali e ideologici, ma anche questi sono correlati con l’attesa in una mobilità sociale verso l’alto dei possessori di un titolo educativo oltre a quello secondario.

Da notare, il grafico del Guardian mostra che aree che sono sotto altri aspetti molto diverse ma con proporzioni simili di popolazione laureata, come Haringey, Hackney, Tower Hamlets, Oxford e Edimburgo — hanno votato in proporzioni simili per il “Remain”.

In ogni caso, i dati che confrontano l’eurofilia dei giovani rispetto all’eurofobia dei loro genitori devono essere mitigati tenendo in considerazione due variabili: la prima è che la presenza elettorale della fascia 18-24 anni è stata significativamente inferiore alla media.

Come risultato, mentre i giovani per il “Remain” erano i più motivati a esprimere la loro visione, il loro peso era relativamente limitato all’interno della loro fascia d’età.

Il secondo fattore mitigante è che il declino economico subito dalle aree non metropolitane si è tradotto in un esodo delle fasce giovani e più istruite della loro popolazione, il che ha fatto sì che

l’età mediana di residenti rimasti si sia alzata.

Ancora una volta, la divisione spaziale della crescita economica, che deve essere compresa come una versione particolarmente brutale – cioè neoliberista – di una combinazione di capitalismo sviluppo diseguale, sovradetermina fattori quali l’età e l’educazione.

Non c’è bisogno di dire che questo aspetto ha anche giocato un ruolo cruciale nell’emergere del nazionalismo scozzese, che spiega l’”anomalia” – in termini sociali e di classe – del successo del “Remain” in quello che sembra sempre di più una nazione indipendente, anche se ancora in potenza. In altri termini, il nazionalismo scozzese non avrebbe mai potuto ottenere quel successo se la ristrutturazione dell’economia inglese nel periodo del Thatcher non avesse prodotto una tale polarizzazione spaziale-economica.

 

Lo spostamento della lotta di classe

Lasciamo da parte il lato “oggettivo” del fatto e discutiamo ora quella che sembra essere la maggior questione per la maggior parte delle persone, e certamente per tutti quelli che si sono opposti alla Brexit da sinistra. Il referendum è stato veramente un voto sull’immigrazione? E se è così fosse, significherebbe che la sua innegabile dimensione di classe è stata dettata da una prospettiva razzista specifica della classe lavoratrice?

La campagna pro-Brexit è stata dominata da un discorso con toni fortemente razzisti e esplicita xenofobia. L’argomentazione che la Brexit avrebbe terminato l’afflusso di lavoratori immigrati dai paesi dell’Europa dell’est è stato ripetuto ad nauseam da Boris Johnson, Nigel Farage e i loro simili. È anche vero che quelli che hanno scelto la Brexit spesso alludono al rifiuto dell’immigrazione come una motivazione seria, o addirittura decisiva.

Ma raramente, o forse mai, è apparsa sul palco da sola: anche quanto l’anti-immigrazione era nominata come la maggiore ragione del voto, era portata avanti come una parte di un disegno più ampio che in maniera quasi senza variazioni includeva alcune altre tra cui: la mancanza di lavoro e case, bassi salari, servizi pubblici sovraccarichi, un generali senso di alienazione, mobilità sociale però verso il fondo e individualismo, e la perdita del controllo della propria vita. Questioni reali a tutto tondo hanno alimentato la rabbia ma sono state mal direzionate verso gli immigrati.

Come il filosofo francese Etienne Balibar ha formulato nel suo “Razza, nazione, classe: identità ambigue” – un testo canonico della letteratura Marxista sull’argomento – il razzismo dovrebbe essere compreso come “una distorta forma di lotta di classe” che può diventare prevalente quando la coscienza di classe dei gruppi subalterni è ai suoi livelli più bassi.

Invece che essere indirizzata verso l’esterno, contro la classe avversaria, la violenza dell’antagonismo di classe – e le ansietà e il panico morale che genera – svolta verso l’interno e accentua la pre-esistente differenziazione all’interno dei gruppi subalterni. Il risultato mina radicalmente la loro attività collettiva.

Ciò significa che la dimensione di classe del voto per la Brexit e l’egemonia nella campagna per il “Leave” delle argomentazioni reazionarie non sono mutualmente incompatibili. La loro congiunzione deriva da una situazione contingente ma effettiva, che combina la debolezza della sinistra con la capacità della destra di incanalare la rabbia popolare.

Questa è anche la ragione per cui non c’è niente di inevitabile riguardo larghi settori della rabbia della classe lavoratrice che si proietta in una prospettiva razzista.

La classe lavoratrice non è per definizione più razzista di altri gruppi sociali – sappiamo quanto forte sia la superiorità classi agiate. Ma la classe lavoratrice non è né immune dal razzismo, in particola modo quando sembra catturata in una spirale verso il basso di degrado sociale e perdita di un ethos collettivo.

Il fatto che nel caso della Brexit la rivolta della classe lavoratrice abbia raccolto una prospettiva razzista – in maniera significativa, anche se il suo livello preciso è ancora soggetto a dibattito – ha prima di tutto a che fare, e soprattutto, con la debolezza politica dei movimenti della sinistra e dei sindacati, la loro totale incapacità di superare il danno prodotto da decenni di conversione dei laburisti al neo-liberismo, che è culminato con l’era Blair-Brown.

Arriviamo dunque a un ragionamento più approfondito per il fallimento della campagna di sinistra per il “Remain”. Per adesso è abbastanza evidenziare quanto più successo abbia avuto la campagna di destra per la Brexit nell’articolare la rabbia della classe lavoratrice e il bisogno di una scossa radicale, ovviamente incanalandola in un flusso di xenofobia e nazionalismo.

Da questo angolo, la peggiore cose che la sinistra può fare per opporsi all’egemonia di destra è di conformarsi alla narrativa dominante che il successo della Brexit è un’esplosione razzista dal profondo della psiche inglese. Non solo perché questa interpretazione è analiticamente scorretta, ma anche perché questo discorso ha una dimensione immanentemente performativa.

Se emerge un consenso – come sfortunatamente sembra stare accadendo – che votare “Leave” indichi inconfondibilmente razzismo, allora l’insieme complesso e contraddittorio di motivazioni e azione che hanno portato a quel risultato sono retroattivamente “fissati”.

Per dirla diversamente, la sinistra ha fallito non solo a intervenire effettivamente nella campagna referendaria, ma anche nel vincere la battaglia per l’interpretazione del suo risultato. Perdere questa battaglia potrebbe infatti aprire la strada a tutti quelli che proveranno a trasformare la crisi politica in corso in un’opportunità di una ulteriore svolta verso una forma autoritaria e xenofobica di neo-liberismo.

 

Rabbia malposta

C’è comunque un argomento più sofisticato che fa cadere il significato politico della Brexit: il voto ha espresso una rabbia sociale legittima, ma non ha nulla a che fare con la UE.

È arrivato invece da decine di anni di politiche neoliberali, rese più dure dagli anni di austerità di Cameron e Osborne, che Johnson e Farage, grazie ad una considerevole dose di bugie e dichiarazioni demagogiche, sono riusciti a presentare come una conseguenza dell’appartenenza alla UE.

I media di centrosinistra hanno sistematicamente appoggiato questa linea narrativa, che probabilmente diventerà dominante nell’arco più ampio della sinistra, inclusi alcuni settori della sinistra radicale.

Al primo sguardo, sembra una storia più credibile, una spiegazione che riesce a svicolare da quella apertamente paternalistica ed essenzialista di un voto di una classe lavoratrice razzista favorevole alla Brexit. È comunque ancora più illogica e finisce per produrre alcune assunti fuorvianti.

Cominciamo con l’affermazione principale: il voto non ha niente a che vedere con la UE, ma è stato l’espressione  di rimostranze interne male indirizzate che alcuni politici hanno manipolato riuscendo a rivoltarle contro Bruxelles.

Bene, se dopo aver fatto parte della UE non meno di 43 anni, la maggioranza della popolazione britannica rimane così ignorante sul suo preciso ruolo appare pronta a credere demagoghi buffoni che danno la colpa all’Europa per le loro difficoltà, allora questo ci dice qualcosa sulla completa lontananza della gente da tale unione. Questa è tutt’altro che un’arringa contro la Brexit; se tale affermazione fosse stata vera fornirebbe un argomento decisivo in suo favore.

In secondo luogo, l’argomentazione presume che vi è un certo tipo di eccezionalismo della peggior specie nel voto, che combina una insularità retrograda ed una ignoranza esteriore. Ma il risultato del referendum britannico non è del tutto eccezionale. Per molti anni la UE ha perso tutti i referendum popolari sulle sue proposte e sulla sua autorità.

La lista è abbastanza lunga ed include i referendum sull’adozione dell’euro nel 2000 e nel 2003 in Danimarca e Svezia, il referendum Irlandese del 2001 sul trattato di Nizza, i referendum del 2005 in Francia e in Olanda sulla Costituzione Europea, il referendum irlandese del 2008 sul trattato di Lisbona, e, ultimo ma non ultimo, il referendum dell’anno scorso in Grecia sul cosiddetto “piano Juncker” – in realtà un altro piano di austerità draconiana al quale Alexis Tsipras si è arreso solo una settimana dopo un fragoroso 61,3% di voto popolare per l’“Oxi”.

Per quanto vergognosa, la capitolazione di Tsipras non è comunque stata un’anomalia. In tutti i casi menzionati – con l’eccezione del referendum sull’euro tenuto in Scandinavia – la UE ha ignorato le decisioni popolari. Ed in alcuni casi – Danimarca nel 1993, e Irlanda nel 2009 – ha addirittura spinto l’elettorato a ritornare alle urne per fare alla fine la scelta “giusta”.

La storia per cui i referendum popolari rifiutano la UE e la UE rifiuta i referndum popolari, punta eloquentemente al fatto che il problema primordiale di questa unione è insito nel suo rifiuto per la democrazia, su cui torneremo fra poco.

Ma facciamo prima un’osservazione finale sull’argomento  “non c’è niente da fare con la UE”. Per amore della discussione, facciamo finta che sia vero.

Come spiegare allora la totale incapacità della campagna per il “Remain” – promossa essenzialmente dal Partito Laburista, ma supportata anche dai Verdi, dal Partito Nazionale Scozzese (SNP), e dai principali sindacati, che sosteneva la causa che il rimanere nella UE avrebbe portato alcuni miglioramenti negli standard sociali della popolazione inglese?

Molto semplicemente: tale asserzione è risibile. Perché mai la UE dovrebbe da domani fare il contrario di ciò che ha fatto nei 43 anni passati? I termini dell’accordo del 19 febbraio di Cameron – i quali avrebbero sarebbero stati applicati se avesse vinto il “Remain” – non confermano a maggior ragione che la UE è pronta ad attuare le concessioni che le necessitano purché essa possa ulteriormente consolidare politiche neoliberiste?

Quanto può essere credibile dichiarare che restare nella UE migliorerebbe gli standard sociali quando tutti sanno benissimo che la UE è strutturata per promuovere il suo implacabile principio fondante di “competizione libera e senza distorsioni”, un principio che comporta libertà di moviment del capitale, deregolamentazione del mercato del lavoro e la privatizzazione dei servizi pubblici?

E se anche ci fosse stata la più piccola possibilità che un voto per il “Remain” avesse potuto innescare l’alleggerimento delle politiche di austerità, perché mai il “Remain” è stato allora sostenuto quasi unanimemente dalla City, dalla grande industria, e naturalmente da David Cameron e dalla maggioranza del suo partito parlamentare e del suo governo, con il generoso aiuto di ospiti come Obama e altri?

 

Sostituire la Nazione

Per concludere questo punto, facciamoci una domanda finale, e forse ancora più dolorosa – almeno per l’autore di queste righe. Come è possibile per gente che pretende di essere così consapevole delle realtà Europee, ignorare così spudoratamente ciò che è accaduto alla Grecia ed al suo primo governo eletto di sinistra?

Syriza è stata inizialmente eletta, nel gennaio 2015, per abolire l’austerità e cancellare la maggior parte di un debito illegittimo ed odioso. Si è confrontata subito con una guerra totale lanciata dalla UE, iniziata con lo strangolare il sistema bancario greco e con l’aumento di restrizioni sul suo rifornimento di liquidità che hanno avuto effetto pochi giorni dopo la sua vittoria.

Tsipras e la maggior parte del suo esecutivo sono capitolati lo scorso luglio precisamente perché erano intrappolati dalla loro illusione sulla loro capacità di “riformare la UE dall’interno” e “spostare gradualmente l’equilibrio delle forze.” Di conseguenza, non avevano un “piano B” che permettesse loro di affrontare il ricatto della troika, e ciò ha prodotto una scarsità di liquidità che ha portato alla chiusura delle banche e al quasi totale collasso dell’economia.

Un piano alternativo avrebbe posto come necessaria l’uscita dall’euro, e quindi  la rottura definitiva con la UE. Tra la Grexit e la sottoscrizione di un altro piano di austerità, rinnegando così interamente la loro piattaforma e ragion d’essere, Tsipras ed i suoi sostenitori hanno optato per il secondo. Il risultato è stato un disastro assoluto, il peso del quale è stato avvertito fortemente da tutta la sinistra europea.

C’è comunque una domanda ancora più imbarazzante che la sinistra britannica ha bisogno di porsi e alla quale cominciare a rispondere, cosa che ci riporta alla situazione nazionale locale. Da dove sono venuti l’energia e l’impatto della fazione della destra favorevole alla Brexit ? La loro capacità di articolare una forma di rabbia popolare distorta verso il razzismo risponde solo in parte alla domanda.

Non prendiamoci in giro: senza una forte argomentazione contro la UE in quanto tale, il rifiuto dell’immigrazione sarebbe stato decisamente insufficiente per creare una maggioranza a favore della Brexit. Nonostante le amareggiate negazioni dei progressisti pro-“Remain”, questo era un referendum sulla UE. E la chiave del successo della Brexit è molto semplice: la democrazia.

“Prendiamo il controllo” è stato lo slogan principale, ed è apparso credibile perché il rifiuto della UE di qualsiasi nozione di democrazia è ora ovvio non solo alla popolazione britannica, ma anche ad una parte sempre più significativa, dell’Europa.

Secondo i sondaggi del Centro di Ricerca Pew, pubblicato il 7 giugno, la UE ha percentuali meno favorevoli in Francia ed in Grecia rispetto al Regno Unito, che è attualmente al pari di Germania, Spagna e Paesi Bassi.

Inoltre, la democrazia ha un senso solo in rapporto ad alcune nozioni della sovranità popolare – anche nella versione britannica arcaica e distorta della “sovranità parlamentare”. Il che ci porta al complesso e scivoloso, ma inevitabile, terreno della nazione, che approfondiremo fra un attimo.

Vorrei riportare ciò che è stato detto in termini ancora più forti, poiché è qui che secondo me troviamo il reale pericolo della situazione attuale. Lasciando alla destra il terreno di un’opposizione decisa alla UE, la sinistra britannica, con la limitata eccezione di alcuni gruppi di estrema sinistra che hanno costituito la campagna a bassa visibilità “Lexit”, non ha solo abbandonato qualsiasi piattaforma credibile anti-austerità, ma ha anche consegnato il compito di difendere la democrazia alle forze reazionarie. E l’ultima cosa non è meno devastante della prima. Dopo tutto, nel Regno Unito, come nella maggior parte dell’Europa continentale, il movimento operaio è emerso come attore politico durante la battaglia per il diritto al voto, un momento di intensa lotta sociale che ha anche costituito il momento fondante della democrazia moderna.

Per riassumere, la sinistra che sosteneva il Remain è stata presa tra due lacci: intrappolata da una fede europeista, ha bypassato la questione della UE e del rifiuto della democrazia che la sua struttura istituzionale richiede. Avendo abbandonato questo decisivo campo di battaglia al suo avversario, non ha avuto altra scelta che ritirasi a una specie di sindacalismo, focalizzandosi su una agenda minima dei diritti dei lavoratori.

Purtroppo, la configurazione della parte del “Remain” – che riflette l’enorme brutalità delle politiche neoliberiste della UE (vedi l’onda delle cosiddette riforme del lavoro in vari paesi, con il caso più recente della Francia) – hanno reso quelle posizioni assolutamente ridicole.

Naturalmente, la democrazia – o più precisamente la democrazia nel suo significato più limitato, procedurale e istituzionale – non è né una soluzione magica, né assoluta. Gli antichi Ateniesi hanno mostrato che sistemi politici con un democrazia interna, nonostante le loro limitazioni, possono diventare brutali poteri imperiali e colonialisti.

Ecco perché Marx pensava che l’“emancipazione politica” non corrispondesse in toto alla “emancipazione umana” e perché lo “stato politico” avrebbe dovuto abolire la sua separazione dalla “società civile” tramite la trasformazione radicale delle relazioni sociali che entrambi i livelli organizzano e riproducono.

Comunque, nessun tipo di emancipazione è possibile senza ingaggiare e vincere la battaglia politica attraverso la quale i gruppi subalterni diventano una forza egemonica e trainante nella società.

Il terreno decisivo per quella battaglia è la democrazia, e il suo esercizio implica una attitudine positiva e vincente al livello della formazione nazionale. Se partiamo dalla premessa che ogni riferimento positivo alla nazione, per sua natura produce nazionalismo, razzismo, e nostalgia di imperialismo e colonialismo, allora la sinistra è condannata a perdere questa battaglia politica perdendo il contatto con le classi lavoratrici e popolari.

Questo riferimento alla nazione si oppone a coloro che difendono concessioni alla retorica anti immigranti e al razzismo in modo da ritrovare un contatto con la presunta “classe lavoratrice bianca”. Invece, richiede l’egemonizzazione del concetto de “le persone”, che costituisce la sostanza vivente della nazione per trasformarla in un corpo politico inclusivo, multirazziale, multiculturale, accogliente e sovrano.

L’importanza del livello nazionale dalla prospettiva egemonica dei gruppi subalterni è che li eleva a quello che Gramsci chiamava “il nazional-popolare”, trasformandoli in un nuovo blocco storico costituito dagli sfruttati e dagli oppressi che allora guiderebbero, prenderebbero il potere, e orienterebbero lo sviluppo della formazione sociale in una direzione completamente nuova.

Come Marx ed Engels scrissero nel Manifesto Comunista: “Poiché  il proletariato deve prima di tutto acquisire supremazia politica, deve innalzarsi ad essere la classe dominante della nazione, deve costituire esso stesso la nazione, diventando così esso stesso nazionale, sebbene non nel senso borghese della parola”.

Tale concetto non è solo compatibile ma anche logicamente porta a un genuino internazionalismo, diverso dall’astratto cosmopolitismo borghese. Per essere genuino l’internazionalismo, quale coscienza di una lotta universale e unificata contro un comune avversario, ha bisogno di essere concreta. E la concretezza significa che non può essere bypassato il livello nazionale, il quale esiste laddove la lotta di classe si manifesta a livello politico e laddove le organizzazioni dei gruppi subalterni acquisiscono le loro identità ed esistenze distintive.

 

Piano B

Vorrei insistere su un ultimo punto. La sinistra britannica, nella sua maggior parte, potrebbe volere che il resto della sinistra europea condividesse il suo lutto per la sconfitta del “Remain”. Questo è certamente vero per quanto riguarda i partiti socialdemocratici i quali, con la destra cristiano-democratica e e le altre forze conservatrici, sono state i pilastri del “progetto europeo” fin dal suo inizio. Ma per il resto della sinistra europea è una notizia abbastanza buona.

Destabilizzare la UE, scuotendo la sua legittimazione e la sua leadership dalla base, è una opportunità da non perdere. Vediamo per esempio come ha reagito Jean-Luc Mélenchon, il leader della sinistra radicale francese che al momento gode di percentuali di approvazione più alte del presidente Francois Hollande.

Per Mélenchon, la Brexit rivela la situazione di stallo totale in cui si trova la UE. La lezione da trarre è che un adeguato governo di sinistra in Francia dovrebbe immediatamente proporre “l’uscita da ogni trattato europeo esistente” in modo da implementare un programma “ecosocialista” antiausterità. E se la Germania blocca questo movimento, allora un referendum per uscire dalla UE diventerà inevitabile.

La reazione di Mélenchon non è isolata né opportunistica. Dopo la capitolazione di Syriza, Mélenchon ha lanciato il “Progetto Piano B” con altre forze della sinistra radicale europea, incluso Oskar Lafontaine in Germania, l’ala sinistra di Podemos in Spagna, Eric Toussaint ed il suo Comitato per l’Abolizione del Debito Illegittimo, coloro che hanno lasciato Syriza per creare Unità Popolare e il nuovo movimento Percorso di Libertà in Grecia di Zoe Kostantopoulou.

L’idea è molto semplice: l’esistente UE vieta l’introduzione di qualsiasi agenda che fermi, o anche moderatamente rallenti, l’evoluzione del neoliberalismo e dell’austerità, come ha ampiamente dimostrato il caso della Grecia.

È perciò assolutamente urgente spezzare i trattati europei costitutivi, i quali sanciscono un neoliberismo perpetuo e negano la democrazia e la sovranità popolare. Se ciò non sarà possibile attraverso negoziazioni, come ancora una volta ci ricorda il caso greco, allora sarà necessario un piano B, che porti a una uscita dalla UE, incominciando dall’uscita dell’eurozona. Il piano ha bisogno di essere specificatamente elaborato secondo le necessità di ogni nazione ed anche dalla prospettiva di un’Europa genuinamente nuova che rinasca dalle rovine dell’esistente e fallita Unione Europea.

Due conferenze internazionali sul “Piano B” sono già state tenute a Parigi e Madrid, e altre arriveranno. Sono certo che tutti i partiti coinvolti nel progetto saranno felici nel vedere i compagni  della sinistra britannica partecipare alle loro prossime attività e iniziare una conversazione seria su questi temi. Tale movimento aiuterà senza alcun dubbio a costruire il tipo di pensiero strategico di cui oggi si sente così tanto il bisogno. Sarebbe infatti una triste ironia se, in un paese con una ricca tradizione di lotte per il lavoro, la Sinistra rimanesse paralizzata sotto il peso delle sue stesse insufficienze e contraddizioni nel momento in cui la classe dominante e il suo personale politico affrontano le crisi più severa delle ultime decadi.

 

Stathis Kouvelakis 

https://www.jacobinmag.com/2016/07/brexit-referendum-remain-leave-corbyn-racism-xenophobia-greece-austerity-eu/

traduzione a cura di Angela Zaccheroni

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