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A proposito del “ruolo dei comunisti”

In questi mesi la Rete dei Comunisti ha avviato un dibattito sul ruolo dei comunisti oggi, dibattito necessario per rimettere di nuovo a confronto militanti provenienti da diverse esperienze e provare ad elaborare un linguaggio condiviso.

Chi scrive ha partecipato al dibattito facendone principalmente resoconti che facilitassero questa elaborazione. Tuttavia si sente il bisogno anche di esprimere il proprio personale punto di vista. E fare una prima sintesi problematica di tutti gli stimoli che il termine “comunista” porta con sé, a dispetto delle caricature che si fanno a questo termine creando a piè sospinto il proprio tascabile partito.

  1. A questo termine non si deve abdicare nonostante tutte queste parodie. Il nome è il primo momento di un passaggio dall’in sé al per sé che si augura ad ogni individuo e ad ogni organizzazione che iniziano un determinato processo di autocoscienza. Il nome è l’appropriazione di una storia con tutto il suo precipitato di errori e di tragedie. Il nome è la garanzia di un rammemorare sia i contenuti propri di una tradizione politica, sia i momenti storici che costituiscono e devono costituire problema. Rendere quello del nome un problema solo nominalistico vuol dire rischiare di trasformarsi perdendo ciò che invece va salvato e acquisire invece ciò che va rifiutato. La rapida destrutturazione del Pds in Italia non è senza rapporto con la questione del nome, perché nel nome è riassunta tutta l’apertura che una organizzazione che si definisca comunista deve avere verso tutta la sua storia, una storia che è plurale proprio per la sua ricchezza, una storia che va risolta sempre con una sintesi, con una scelta fallibile e non necessitata, una scelta che preservi l’intelligenza, invece di abdicare ad essa in nome della fatalità, in nome di una realtà che è alla fine solo un resoconto capzioso di essa.
  2. La seconda osservazione che va fatta riguarda il rapporto dei comunisti non tanto con la filosofia, ma più complessivamente con un modo di pensare e di atteggiarsi verso la realtà. Nel sancire il superamento della filosofia il giovane Marx intende passare alla prassi e la chiarificazione di quest’ultimo concetto ci deve riguardare da vicino: il non averlo fatto a sufficienza ci ha portato a mettere in secondo piano la dimensione collettiva del ragionamento politico. La critica di Marx al socialismo utopistico forse non è tanto una riflessione sul rapporto tra pensiero e realtà oppure tra ideale e reale, ma tra livello individuale del pensiero di chi vuole indicare la linea alle masse e il livello collettivo che è l’unica vera sede della discussione e delle decisioni di un’organizzazione che si vuole chiamare comunista. Il livello collettivo di pensiero è strettamente legato alla capacità umana di trasformare il contesto: non è l’uomo singolo, il re, l’eroe a trasformare la realtà ma solo gli esseri umani associati. Il rapporto con la realtà si configura storicamente come fondato sul rapporto degli uomini tra di loro. In questo senso il materialismo si compie sempre come materialismo storico (il contesto è sempre un contesto che si è storicamente sviluppato e sedimentato). Il linguaggio a sua volta si profila non più come mera forma di rispecchiamento della realtà ma come prassi essa stessa se non come produzione vera e propria. Ciò però esige una capacità nostra di elaborare una teoria della comunicazione compatibile con il nostro paradigma e tale dunque da non dover subordinare il nostro linguaggio né all’idealità etica astratta né ad una concezione prettamente e machiavellicamente strategica. Anche la questione ecologica è una questione che sorge dalla progressiva antropizzazione della natura e ne accetta l’irreversibilità: il rapporto con la Natura non è un ritorno ma un nuovo rapporto degli uomini tra loro, un andare avanti.
  3. La terza osservazione riguarda il rapporto dei comunisti con altre tradizioni culturali. Non è possibile negare che c’è per i comunisti un imprescindibile riferimento ai testi di Marx. Non si tratta di anteporre il testo all’analisi del presente a cui dobbiamo rapportarci in nome del principio di realtà. Si tratta di assumere la sfida che il movimento comunista ha gettato alla storia di verifica delle proprie ipotesi di partenza: il tentativo di un’organizzazione politica è la dialettica tra queste ipotesi e la realtà. Questa dialettica è il ruolo proprio che i comunisti assumono nella propria storia. Rinunciare a questi riferimenti vuol dire rinunciare a svolgere il proprio ruolo, rinunciare a quella determinazione liberamente scelta per qualificarsi e contribuire alla vita della società in cui si è immersi. In quest’ottica il rapporto con altre culture politiche e filosofiche (strutturalismo e post-strutturalismo, liberalismo e pragmatismo, ermeneutica e storicismo, positivismo e filosofia analitica) deve essere vissuto appunto come dialettica in cui la visione elaborata a partire da Marx si arricchisce ma non perde la propria specificità. Il marxismo è il programma di ricerca dei comunisti, composto da un nucleo duro e da ipotesi ausiliarie, dove si tenda comunque a non falsificare il primo mentre si possono considerare variabili le seconde, le quali sono più facilmente collegabili alla contingenza storica. Attorno a questo programma di ricerca, alla sua possibile condivisione, alla sua natura di sintesi di una discussione costante si lega non l’unità della classe (che ha ragioni materialisticamente connotate) ma l’unità dell’organizzazione che si propone di far passare la classe proletaria dall’in sé al per sé (alla consapevolezza dei propri interessi e del proprio compito storico). In questo contesto il marxismo (aggiornando la “dialettica della natura” di Engels) si può munire (facendosi però aiutare da matematici specialisti) degli strumenti elaborati in questi decenni dalla cibernetica, dalla teoria generale dei sistemi, dalla teoria delle catastrofi, dalla teoria del caos e della complessità, sia pure rifiutandone gli esiti più ideologicamente conciliabili con gli interessi del Capitale (si pensi ad es. a Parsons e Luhmann).
  4. Il quarto punto riguarda il rapporto dei comunisti con la scienza. Il pensiero marxiano è nato come pensiero scientifico di contro al pensiero metafisico e al pensiero utopistico. Tuttavia dobbiamo tenere presente che l’accezione del termine “scientifico” in Marx è influenzata oltre che dalle scienze positive (in maniera particolare l’evoluzionismo darwiniano) anche da Hegel. La scienza è una forza di produzione che in quanto tale può essere imprigionata dai rapporti di produzione. Questa sorta di cattività della scienza la rende potenza del capitale, ne determina la forma linguistica, il ruolo all’interno della società, l’ideologia che caratterizza gli scienziati, le sue applicazioni tecnologiche. Proprio per questo nella seconda metà del secolo scorso si è sviluppata una critica della scienza, una critica che va approfondita per valorizzare il legame della scienza con la storia e la necessità di collegare tra loro scienze naturali e scienze sociali in una nuova alleanza. In questo senso sarà determinante il rapporto tra linguaggi specialistici e linguaggi storicamente comuni (detti impropriamente linguaggi naturali): una dialettica tra queste due dimensioni sarà essenziale per l’elaborazione di una scienza rivoluzionaria ovvero una scienza che si liberi dei rapporti di produzione capitalistici che ne limitano le potenzialità di emancipazione degli individui e delle classi.
  5. Il quinto punto riguarda il rapporto dei comunisti con la democrazia. Non si tratta solo della politica in senso stretto o della rappresentanza e dei suoi paradossi. Si tratta di una rivoluzione epistemologica per la quale il lavoro vivo, nel tentare di sottrarsi al dominio che il lavoro morto esercita su di esso, deve strutturarsi in modo tale che lo sviluppo di ognuno sia condizione per lo sviluppo di tutti, ovvero in modo tale che il sapere, invece di essere incorporato nel lavoro morto e nelle merci, sia esplicitato nel confronto tra diverse prospettive e sia il risultato di una decisione collettiva in cui ognuno dà il suo contributo alla riconfigurazione del contesto e dell’analisi (questo potrebbe essere messo anche in relazione con i modelli di governo partecipato di cui si parla soprattutto relativamente al Sudamerica). D’ora in poi ogni istanza semplificatrice, ogni riduzione della complessità dell’elaborazione collettiva deve appartenere alla preistoria e i problemi politici vanno risolti a partire da questa cesura paradigmatica. Qualsiasi organizzazione che riduca la democrazia al proprio interno si deve considerare come in quarantena. E la consapevolezza di questo deve essere come un tafano per ognuno.
  6. Il sesto punto riguarda il problema della teoria del valore/lavoro di cui si deve stabilire se fa parte del nucleo centrale del programma di ricerca marxista o si tratta di una mera ipotesi ausiliaria che sarebbe dunque rimuovibile in quanto non necessaria per spiegare lo sfruttamento (come di fatto pretenderebbero gli sraffiani). In questo senso vanno chiarite le relazioni tra il marxismo e il cosiddetto paradigma postkeynesiano in economia (e dunque vanno fatte anche analisi circa il ruolo dei comunisti nelle fasi di capitalismo maturo socialdemocraticamente regolato) paradigma a cui impropriamente si riconduce addomesticata la stessa critica marxista all’economia. Molti del lavoro dei compagni si è concentrato su questo problema. Il problema è di analizzare la questione non da un punto di vista strettamente economicista, ma in relazione con l’insieme dei processi sociali e nel rapporto con la natura storica del modo di produzione capitalistico. Solo questa visione dinamica può restituire la questione del valore/lavoro alla concretezza della lotta sociale e può sottrarla a forme di astrazione prive di storia.
  7. Il settimo punto riguarda il problema della teoria della crisi. Si tratta di elaborare una sintesi tra tutte le forme in cui si svolgono le crisi all’interno del modo di produzione capitalistico. In particolare si tratta di elaborare una sintesi tra la caduta tendenziale del saggio del profitto, la crisi di sovrapproduzione, quella di sottoconsumo e quella di sproporzione. Al tempo stesso si tratta di collegare il livello economico con quello politico ed evidenziare dunque il rapporto tra crisi economiche e crisi di legittimità e di razionalità susseguenti alle prime. Come pure si tratta di integrare questi modelli anche con la possibilità di una crisi ecologica. A proposito di quest’ultima probabilmente si deve rivedere la vecchia classificazione tra terra, lavoro e capitale e sostituire alla terra proprio il concetto di ambiente ed aggiungere al concetto di esaurimento delle fonti (ricollegabile al concetto di crisi in Ricardo e collegabile alla teoria della crisi marxista) quello di saturazione dei pozzi. Infine va messa in collegamento con la teoria delle crisi anche un’analisi dei processi rivoluzionari e di transizione per vedere come e quando si innescano, se e come possono essere politicamente gestibili, come inserire condizioni che li rendano più probabili.
  8. L’ottavo punto riguarda proprio il problema della gestione politica dei processi sociali. Per quanto Marx non volesse sfornare ricette per la cucina dell’avvenire, bisogna pensare che tale rifiuto avveniva più di 150 anni fa e che ora la capacità di elaborare un progetto politico è direttamente proporzionale alla credibilità politica di un soggetto che si proclami comunista, Per quanto non si possa nemmeno pretendere di elaborare utopie e di fare programmi che non vadano corretti e verificati con l’evolversi degli eventi, senza rielaborare il concetto di pianificazione i soggetti comunisti sono condannati a rimanere politicamente marginali a tempo indeterminato. Non ha dunque senso a lungo termine proclamare crisi irreversibili per poi non porsi il problema di cosa fare e di cosa proporre alla collettività che si vorrebbe contribuire ad emancipare. La questione della pianificazione all’interno della nostra tradizione politica è rimasta lettera morta dalla fine dell’esperienza sovietica Sarebbe il caso che economisti, econometristi e matematici vicini a noi ci rimettano mano e dovremmo essere capaci di coinvolgerli in un progetto del genere. Potrebbe essere interessante collegare la questione della pianificazione con la questione ecologica dell’economia circolare che si sta affrontando in Cina.
  9. Il nono punto riguarda la teoria dell’imperialismo inteso anche come teoria dei modi con cui il modo di produzione capitalistico reagisce alle crisi. Anche qui si tratta di riprendere un dibattito interrottosi con la seconda guerra mondiale (e continuato solo in ambito accademico) e di integrare i diversi contributi forniti nel corso della storia. Bisogna prendere atto del fatto che, per quanto innestata ed anticipata negli scritti di Marx, la teoria dell’imperialismo (in particolare di Lenin) è un momento nuovo e decisivo all’interno del programma di ricerca marxista in quanto presenta anche una diversa teoria della rivoluzione, basata sull’analisi degli anelli deboli della catena imperialistica stessa. L’opera di Lenin e della Luxemburg in questo senso contribuiranno anche ad analizzare il ruolo che gli armamenti e la guerra hanno all’interno del modo di produzione capitalistico. Questa integrazione del marxismo però non sarà senza conseguenze, dal momento che implicherà rivoluzioni che giustamente furono considerate “contro il Capitale di Marx” e che ci hanno portato in un territorio inedito, tale da dover essere analizzato e valutato momento per momento, con divergenze interpretative interne al movimento comunista tali da comportare scissioni e scontri laceranti. Tale attenzione agli anelli deboli ha comportato anche il rapporto con soggetti che nel 1848 Marx avrebbe bollato come reazionari ed ha comportato l’assunzione a livello di analisi della questione del rapporto tra diverse culture e del rapporto tra queste culture e lo sviluppo capitalistico (si pensi alla questione del terzomondismo e delle analisi basate sul concetto di sistema mondo o sulla concezione della storia delle Annales). La situazione inedita consiste appunto nel fatto che il movimento comunista deve trovare volta per volta la strategia e la sintesi tra istanze cosiddette “progressiste” (che vedono nella scienza, nella laicità, nei diritti, nella cultura occidentale l’asse di azione) e istanze “anticapitaliste” dal momento che queste istanze non sempre sono coincidenti. Il rossobrunismo, la divisione (e la relativa spartizione del potere) a livello elettorale tra le due destre (quella elitaria e tecnocratica e quella populista) ha radici anche in questa situazione inedita. Sta a noi elaborare strumenti analitici e strategici che ci consentano di passare tra questi due poli apparentemente opposti ma sostanzialmente complementari. Quello che è certo è che l’istanza populista (sia pure lungi dal poter essere apprezzata) ha avuto l’effetto di “smazzare” gli equilibri politici precedenti e di creare un secondo centro del quadro politico aprendo nuovi spazi di manovra e liberandoci dal ricatto di un centrosinistra ormai centro a pieno titolo.
  10. Proprio a queste lacerazioni fa riferimento il decimo punto: stante la polverizzazione dei comunisti in organizzazioni politicamente irrilevanti e ideologicamente settarie, pur convenendo che la cosa più importante è il rapporto dei comunisti con la società in cui vivono, bisogna trovare un modo di costituire un network dei comunisti che tenga in perenne collegamento e confronto le diverse organizzazioni e che (nelle more della possibilità di un continuo approfondimento) tenti di portare le diverse organizzazioni su posizioni politicamente condivise sia nella dimensione analitica che nella dimensione strategica. Da questo punto di vista le vecchie appartenenze (staliniste, trotzkiste, gramsciane, bordighiste, luxemburghiane, maoiste) devono essere solo punti di partenza che però vanno superati in avanti.
  11. L’undicesimo ed ultimo punto deve essere la consapevolezza che, nell’analizzare la fase attuale del modo di produzione capitalistico, bisogna convenire che non abbiamo di contro un modo di produzione nella sua purezza (ma questo vale anche per l’analisi storica che non può sfociare in classificazioni schematiche e storicamente semplici: il capitalismo non viene tutto in una volta dopo il feudalesimo e così il comunismo dopo il capitalismo), quanto piuttosto che stiamo già in una forma di transizione, di processo dove le forme vecchie si stanno intrecciando con le nuove producendo situazioni ibride, nella quali gli aspetti progressivi non vanno attribuiti tanto al Capitale quanto alla lotta di classe stessa.

Concludendo, l’essere comunisti si prospetta come un compito straordinariamente difficile e complesso che però, proprio in ragione della sua complessità ci fa sperare che le soluzioni teoriche e politiche finiranno per giungere una appresso all’altra con l’evolversi degli eventi. E’ necessario però innanzitutto essere consapevoli che quella sensazione di marginalità precipitata negli ultimi anni ha la sua ragione ed il suo senso proprio nel fatto che il paradigma marxista ha messo mano alla sfide colossali ed alle vere questioni che attengono al futuro della specie umana. Il momento alto del movimento comunista è stato anche un rimuovere tali questioni ed alla fine questa rimozione ha contribuito all’arretramento ed al ristagno attuali. Ciò vale sia perché si rimanga il più possibile lucidi sia per non farsi prendere da un pessimismo irrazionale.

 

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