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Sulle recenti elezioni in Gran Bretagna

Vince la Brexit. Così si può sintetizzare l’esito delle elezioni nel Regno Unito. I Conservatori, guidati da Boris Johnson rimangono sostanzialmente sugli stessi valori percentuali delle precedenti elezioni del 2017, poco sopra il 40% (passano dal 42.4% al 43.6%), mentre invece i Laburisti subiscono un robusto calo, passando dal 40% al 32.1%. In termini di seggi alla Camera dei Comuni, tuttavia, la differenza è amplificata dall’antiquatissimo sistema elettorale.

Tali elezioni, si ricorda, hanno fatto seguito a vari tentativi di accordo sulla Brexit trovati in sede europea e bocciati dal Parlamento a causa dei veti incrociati posti da un lato da parte dei sostenitori del “remain” a tutti i costi nonostante il responso popolare, presenti per lo più fra Laburisti e Lib-Dem, dall’altro altro da parte di chi riteneva sfavorevole l’accordo trovato, presenti soprattutto fra i tories disposti anche ad una Brexit senza accordo.

Boris Johnson si è presentato in campagna elettorale, per un verso, con un programma anti-sociale e iper-liberista al massimo, che prevede, fra l’altro, la privatizzazione del servizio sanitario, per un altro con una parola d’ordine chiara in materia di Brexit, sostanziata anche dalle prime dichiarazione post-elettorali, ovvero il Regno Unito sarà fuori dall’UE il 31 gennaio 2020, con accordo o senza accordo. Ciò gli è valso un patto di desistenza elettorale con il Brexit Party di Nigel Farage, fresco vincitore assoluto delle elezioni europee.

Jeremy Corbyn, al contrario, si è presentato con un programma davvero d’altri tempi per una formazione appartenente alla “famiglia socialdemocratica europea”, che nelle ultime fasi storiche si era caratterizzata per essere l’espressione massima dell’imperialismo britannico: nazionalizzazione dei settori strategici, sanità e istruzione gratuite, controllo sul movimento dei capitali, sostegno alle cause dei popoli palestinese e latino-americani. Per tali motivi questa versione del Labour Party ha suscitato il giusto interesse da parte delle formazioni della sinistra di classe in Europa, nonché le “attenzioni” negative da parte di apparati militari e mass-mediatici.

I problemi sono cominciati, come sempre a sinistra, sul punto strategico dell’Unione Europea. Mentre nel 2017 i Laburisti si presentavano avendo preso atto del risultato del referendum sulle Brexit, in questo caso vi sono stati smottamenti pesanti su questo punto; nel tentativo di mediare con le varie anime del partito e inseguire l’elettorato liberal-democratico, Corbyn ha partorito una proposta politicista e, per molti aspetti, incredibilmente fragile: da Premier, il leader laburista avrebbe negoziato un nuovo accordo sulla Brexit con l’UE e poi lo avrebbe sottoposto ad un nuovo referendum, dando la possibilità di accettarlo o rimanere nell’UE. Di fatto si tratta della ripetizione del referendum sulla brexit, rispetto al quale, per giunta, il partito sarebbe rimasto neutrale . Un partito di governo esplicitamente neutrale rispetto alla collocazione internazionale del proprio paese il bestiario della sinistra occidentale ancora non la aveva partorito!

Si è in pratica ricaduti nelle stesse contraddizioni di Syriza, ossia abbracciare un programma politico avanzato socialmente, ma, contemporaneamente, compatibilista rispetto all’UE, nella fede idealistica che a Bruxelles si rispettino i responsi democratici.

In questo caso, tuttavia, l’OXI popolare a Bruxelles è venuto già nel 2016 e la trattativa con l’UE su un piano paritario già si è dimostrata un’illusione vana in più di due anni di negoziati.

Il nocciolo duro della borghesia europea, infatti, ha dimostrato a più riprese di voler sfruttare la Brexit per liberarsi in maniera più marcata dell’influenza dell’imperialismo USA al proprio interno e rafforzare il processo d’integrazione interno fra i paesi, sia sul piano finanziario che su quello militare, come dimostrano le vicende del rafforzamento del MES e dei progetti di esercito comune europeo.

Pertanto, avendo messo in conto nel di perdere la piazza finanziaria londinese, l’UE ha impostato la trattativa in maniera complessivamente dura, pur dovendo mediare fra pulsioni diverse (la Francia, non a caso il braccio militare europeo, spinge per una maggiore intransigenza rispetto alla Germania, che ha nel Regno Unito un fondamentale mercato di sbocco per la propria industria manifatturiera) e non si è fatta scrupolo di fare perno sulle contraddizioni interne al Regno Unito, con Irlanda del Nord e, soprattutto, Scozia contrarie alla Brexit, che periodicamente minacciano il distacco dalla corona britannica per dar vita a stati “indipendenti” aderenti all’UE. Non a caso, uno dei punti più difficili di negoziai sulla Brexit continua ad essere l’assetto del confine fra Eire e Ulster una volta che il regno Unito sarà fuori dell’UE, confine che fisicamente attualmente non esiste. Della libertà di movimento dei lavoratori europei in Gran Bretagna, ovviamente, non interessa a nessuno, non sono oggetto di negoziati e il governo britannico con ogni probabilità potrà comportarsi in maniera selettiva un po’ come gli pare. In ogni caso, l’ipotesi di accordo fatta in campagna elettorale da Corbyn, che prevedeva la permanenza del Regno Unito nel mercato unico e nell’unione doganale (probabilmente fatta salvo la libertà di movimento dei lavoratori), quindi un remain di fatto, era assolutamente velleitaria e non sarebbe mai stata neppure in discussione in sede europea.

Date queste premesse, non c’è da stupirsi che a voltare le spalle al Labour siano proprio i suoi ex-bastioni situati prevalentemente nelle aree di provincia post industriali, che più hanno subito la pressione e l’impoverimento materiale scaturiti dal processo d’integrazione europeo. Ad un programma nominalmente avanzatissimo, ma che non offriva una prospettiva strategica al Regno Unito e, anzi, proponeva un passo indietro rispetto alla Brexit, questi elettori della working class hanno ribadito la scelta chiara fatta nel 2016: Brexit. Nonostante la natura apertamente reazionaria del programma politico proposto dai conservatori. Per inciso, questo fattore dovrebbe essere da insegnamento per chi, all’interno della sinistra di classe, teorizza apertamente in maniera economicista che bisogna porre in primo piano i punti programmatici più vicini ai bisogni materiali del blocco sociale di riferimento, a discapito delle questioni strategiche, come la presa di una posizione chiara rispetto all’UE, che sarebbero più “lontane” e aliene nella percezione popolare.

Boris Johnson, dunque, rappresenta la tendenza della borghesia britannica a voler rilanciare propri progetti imperialisti in maniera autonoma rispetto a quelli europei. Lo farà molto probabilmente raggiungendo un accordo di agevolazione negli scambi commerciali e finanziari con i “partner” americani; un simile accordo potrebbe costituire un ulteriore passaggio storico negativo nei rapporti USA-UE e un inasprimento di questa competizione inter-imperialistica, con Washington impegnata da un lato, a istituire dazi ai danni dei paesi del nocciolo duro europeo, dall’altro, appunto, a istituire un canale privilegiato con il Regno Unito. Salterebbe, in tal modo, un’altra fondamentale camera di compensazione fra i due poli imperialisti, rappresentato, appunto, dalla presenza di UK nell’UE, con probabili ripercussioni nella NATO, già dilaniata internamente, nella competizione monetaria fra l’euro e il dollaro e in tutto il quadro geopolitico mondiale.

Da tenere d’occhio, ovviamente anche le questioni nazionali all’interno del Regno Unito, destinate ad acuirsi anche in conseguenza del risultato elettorale positivo del Partito Nazionale Scozzese, che in passato è stato protagonista di campagne indipendentiste ed europeiste.

In ogni caso, con la ormai quasi certa Brexit, per di più probabilmente senza accordo, un’incrinatura all’interno del polo imperialista europeo si apre ed è un fatto positivo. Che avvenga “da destra non dovrebbe portare a teorizzare che l’arretratezza e la meschinità sarebbero insite nella classe lavoratrice di provincia dell’Inghilterra, come immancabilmente avviene a sinistra. Dovrebbe, invece, portare a fare uno scatto in avanti nella visione strategica che attualmente manca nel nostro campo. La rottura non può e non deve essere monopolio solo delle borghesie nazionali! L’europeismo è un tabù che va rotto all’interno del nostro campo. Se non crediamo noi militanti nella rottura storica non si vede come il nostro blocco sociale di riferimento deva seguirci.

La Rete dei Comunisti conferma la propria battaglia per far emergere la parola d’ordine della rottura dell’Unione Europea come premessa ineludibile per dar vita ad una battaglia politica all’altezza della situazione. Solo a partire da questo presupposto, infatti, sono pensabili processi d’integrazione sovranazionali e regionali (euro-mediterranei nel caso dell’Italia) di segno diverso, che ritematizzino la transizione al socialismo

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1 Commento


  • paolo regolini

    Non condivido, francamente, quasi nulla di questo Documento: non è una sorpresa, da tempo non ci intendiamo granché. Ma non mi pare utile aprire una discussione che sarebbe solo un dialogo tra sordi, onestamente poco interessante.
    Prendo invece spunto da un passaggio della vostra argomentazione per porvi qualche domanda ma soprattutto per sollecitare in merito contributi puntuali.
    Vi si afferma che “… Boris Johnson, dunque, rappresenta la tendenza della borghesia britannica a voler rilanciare propri progetti imperialisti in maniera autonoma rispetto a quelli europei…”
    Di quale borghesia parliamo e di quali rispettivi progetti imperiali?
    La borghesia della finanza e delle grandi banche? No di certo, questa (la City) è filoeuropea e si riconosce fermamente nella destra laburista.
    La grande borghesia industriale? In UK è sparita da un pezzo: ubriaca di petrolio ha venduto il patrimonio industriale inglese ad acquirenti stranieri.
    Forse la piccola borghesia? Non saprei ma comunque conta poco e non si muove su orizzonti mondiali.
    BoJo mi pare la copia (in quarantottesimo, si intende) di Trump, che dopo aver rischiato di rovinarli, solo è riuscito a salvare gli allevatori di maiali e quelli della soia (America great again?) mentre le grandi Corporations hanno continuato a fare (e fargli disfare) quel che volevano. Come non era difficile prevedere.
    Di quale imperialismo parliamo? Quello degli stati o quello delle multinazionali?
    Screpanti (nell’ultima intervista che pure avete pubblicato) si muove su coordinate molto diverse, sia nell’analisi dell’imperialismo che sul ruolo delle borghesie nazionali.
    Pone, intanto, una discriminante secca “…l’idea della fine della globalizzazione è un abbaglio…” e descrive poi acutamente “l’imperialismo globale delle multinazionali” nonché il ruolo servile che impongono col ricatto ai singoli Stati.
    In tema (e nel lontano 2016) aveva già detto cose altrettanto importanti Vasapollo (dalla catena di montaggio alla catena del valore).
    Dunque occorre capirsi bene sul dominio globale delle multinazionali ed il ruolo degli Stati nazionali nel rapporto con le rispettive popolazioni, senza mescolare troppo disinvoltamente economia e geopolitica, siamo marxisti in fin dei conti.
    Sarei grato a Contropiano se volesse proporre in tema qualche contributo di spessore, soprattutto delineando la ragnatela del dominio imperiale delle multinazionali e approfondendo l’intreccio tra le catene transnazionali delle Corporations e gli Stati. Che spesso sono tra di loro assai asimmetriche.
    La recente decisione di Trump di sanzionare chi collabora al North Stream II pone in merito domande molto impegnative.
    Credo che i compagni di Coniare rivolta (sempre puntuali e rigorosi nei loro contributi) potrebbero essere di aiuto prezioso.
    regolins (alias paolo regolini)

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