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Abd Elsalam e la sua lotta di classe: schiavi mai

Il sacrificio di Abd Elsalam, ucciso durante un picchetto alle porte della Seam di Piacenza, azienda logistica in appalto alla General Logistics System (GLS), si inscrive nel complesso affresco della nostra epoca come un fatto esemplare, una rappresentazione drammaticamente plastica del ruolo che la forza lavoro immigrata concretamente svolge nella nostra società. La figura di Abd Elsalam, immigrato morto difendendo il salario italiano, squarcia il velo dell’ideologia neoliberista, che vorrebbe rappresentare i lavoratori divisi tra autoctoni e immigrati, e fa cadere uno dopo l’altro tutti i falsi miti della destra xenofoba. Andiamo con ordine.

La visione neoliberista dell’economia concepisce il salario come il prezzo di una merce qualsiasi, e come tale determinato sulla base dell’incontro tra la domanda e l’offerta. È in questo senso che si parla di “mercato del lavoro” come di un qualsiasi mercato, come quello del pane o quello dei cellulari: data una certa quantità di manodopera presente in un paese, le forze della domanda e dell’offerta giungeranno a determinare un certo di livello del salario che non dipende, a questo punto, da alcun fattore politico, storico o istituzionale, ma solo e semplicemente dalla quantità disponibile di risorse. Entro questa cornice teorica, la crisi attuale non rappresenterebbe altro che il doloroso impatto della globalizzazione sulla nostra economia: l’integrazione dell’Italia nei mercati internazionali implicherebbe necessariamente l’afflusso di masse di lavoratori immigrati, i quali offrendosi sul “mercato” del lavoro italiano spingerebbero il salario a ridursi. Ed ecco che, grazie alla legge della domanda e dell’offerta, la compressione dei diritti dei lavoratori, la riduzione dei salari, l’aumento dei licenziamenti – in una parola, i sacrifici – vengono giustificati come l’inevitabile frutto di un processo impersonale, la globalizzazione, davanti al quale non si può che chinare il capo.

Eppure Adb Elsalam il capo non l’ha chinato, nemmeno quando un camion assetato di profitto ha provato a superare il picchetto organizzato dai facchini della GLS, che pretendevano migliori condizioni di vita e di lavoro. Per comprendere il significato di quel picchetto, dunque del sacrifico di quell’uomo, dobbiamo abbandonare il paradigma economico neoliberista e tornare a leggere Marx.

Come ripeteva Pierangelo Garegnani, attento studioso di Marx, cioè che rende l’analisi dell’economista tedesco sostanzialmente diversa da quella che si svilupperà e diventerà dominante poi è proprio la spiegazione del salario. Marx inizia infatti la sua originale riflessione a partire dalla teoria della distribuzione del reddito tra salari e profitti ereditata dagli economisti classici, Smith e Ricardo. Una teoria secondo la quale il lavoro non è una merce come le altre: dunque il suo prezzo non si determina affatto come il prezzo delle altre merci. La divisione del prodotto tra salari e profitti si determina, in Marx come nei classici, sulla base dei rapporti di forza tra lavoratori e padroni, portatori di interessi contrapposti. Dunque, il livello del salario è un fatto storicamente e socialmente determinato: tutti i fattori che contribuiscono a rafforzare una delle due parti in lotta, lavoratori o padroni, hanno un peso nella determinazione dei salari. Ecco perché quelli come Abd Elsalam non abbassano la testa, ma si ostinano a remare contro le correnti della globalizzazione: non esistono fenomeni economici che si svolgono sopra le nostre teste, ed un picchetto che blocca un magazzino può contribuire a spostare l’asticella dei rapporti di forza dalla parte dei lavoratori con conseguenze distributive che abbracciano l’intera società, andando ben oltre i maledetti cancelli della Seam di Piacenza. Marx abbatte l’ideologia secondo cui l’economia sarebbe in balia di forze impersonali ed intoccabili, come la fatidica scarsità delle risorse, le quali determinerebbero ineluttabilmente le condizioni materiali della nostra esistenza, relegandoci a semplici spettatori del nostro destino; al suo posto, il materialismo storico pone tutta l’influenza che i processi sociali, storici ed istituzionali hanno nella determinazione dei fatti economici. Marx ci ha insegnato la lotta di classe, trasformando l’economia in una scenografia aperta alla storia e, dunque, al protagonismo dei lavoratori organizzati. Quelli come Abd Elsalam.

Perché Abd Elsalam ha agito fuori dagli schemi preconfezionati dai padroni, che vorrebbero contrapporre gli interessi dei lavoratori autoctoni a quelli degli immigrati. La possibili divisioni all’interno della classe dei lavoratori sono state analizzate già da Marx, con una lucidità politica che oggi è raro riscontrare nei professionisti dell’economia. Secondo l’economista tedesco, osservatore privilegiato delle continue tensioni tra lavoratori inglesi e gli immigrati irlandesi, uno degli strumenti fondamentali tramite cui i padroni riescono a comprimere i salari è il cosiddetto esercito industriale di riserva. Con questa nozione, Marx descrive la necessità storica del capitalismo di mantenere sistematicamente disoccupata e disperata una quota rilevante della forza lavoro, da usare come arma di ricatto contro le rivendicazioni dei lavoratori. E, osserva Marx, il capitalismo ha sempre sfruttato le difficoltà degli immigrati per plasmare un esercito di disperati utile a disciplinare i lavoratori tutti.

Tuttavia, isolare questo punto della riflessione di Marx rispetto al cuore della sua analisi, cioè la lotta di classe, è sbagliato e anche molto, molto pericoloso. Non sono poche quelle forze politiche che, in Italia come nel resto d’Europa, strizzano l’occhio alla nozione marxiana di esercito industriale di riserva solo per rinfocolare le tensioni tra autoctoni e immigrati: “dato che gli immigrati sono usati per abbassare i salari italiani, cacciamoli via”, suggerisce la destra. Dal punto di vista teorico, il tentativo di strumentalizzare Marx per erigere muri contro gli immigrati appare assolutamente ingiustificato: l’idea che l’arrivo della forza lavoro immigrata, di per sé, produca una riduzione dei salari è al contrario figlia della visione neoliberista del “mercato del lavoro”, dove il prezzo del lavoro risponde unicamente alla legge della domanda e dell’offerta. Nulla di più lontano dalla prospettiva di Marx, secondo il quale sono i rapporti di forza a determinare il salario, fuori da qualsiasi banale automatismo. Seguendo Marx, possiamo dire che la deflazione salariale opera tramite un afflusso non di semplici immigrati ma di schiavi, e cioè lavoratori disperati, disorganizzati e privi di diritti. Solo questi ultimi, infatti, esercitano una concorrenza al ribasso contro i lavoratori autoctoni, e lo fanno perché condannati dalla loro condizione di miseria e clandestinità a vivere al di sotto dello standard di vita prevalente nel paese. In questo senso, l’analisi marxiana ci offre una visione del problema completamente opposta a quella che Brancaccio ha efficacemente definito “xenofobia liberista”. Quando la destra invoca muri contro gli immigrati non fa altro che provare a trasformare sempre più la forza lavoro immigrata in una massa di schiavi. Infatti non saranno i muri a fermare gli immigrati, che fuggono dalle nostre guerre e dalle nostre ruberie. Piuttosto, quei muri alimenteranno la loro disperazione, rendendoli criminali ricattabili e dunque lavoratori docili: in una parola, schiavi. E solo in quanto schiavi, gli immigrati possono essere usati come un’arma contro i lavoratori autoctoni. Questo pensava Marx e questo, nella tragica notte tra il 14 e il 15 settembre, deve averci insegnato Adb Elsalam, mai schiavo.

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