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Fasti e nefasti. Ovvero il giornalismo questurino e la verità negata

«Quando lessi Compagna Luna collaboravo, da circa tre anni, con Il Diario della settimana, diretto da un (ex) compagno di Lotta Continua, Enrico Deaglio. Gli portai l’intervista a Milano. “Barbara Balzerani?”. Non la lesse neppure. I fogli volteggiarono un attimo calando nel cestino. Smisi quella collaborazione. Intanto, Antonio Tabucchi aveva scritto, e ovviamente pubblicato sul Corriere della Sera con grande rilievo, un articolo indignato. Il nodo teorico, diciamo così, era quello della non legittimazione letteraria di chi era stato, in un modo o nell’altro, protagonista dei cosiddetti anni di piombo. Intellettuali e scrittori costituivano (costituiscono ancora?) il tribunale supplementare che aggiunge le sue sentenze (corporative?) a quelle dei magistrati».

Con queste parole, dense di amarezza e di disillusione, la giornalista e scrittrice Adele Cambria, ci introduce, sin dalla prefazione – intitolata Il giardino degli oleandri – alla lettura di Cronaca di un’attesa, il quarto libro (ma io preferisco definirli viaggi letterario-r/esistenziali al termine della notte) di Barbara Balzerani. Compagna, guerrigliera, ex membro della direzione strategica delle Brigate Rosse, componente del commando che portò a termine il rapimento e l’uccisione del Presidente della Dc, Aldo Moro, e ora scrittrice di struggente e potente asciuttezza, di lavica emotività e dallo stile sincopato, quasi jazzistico.

Troppo, evidentemente. Troppo, soprattutto per una donna comunista. Una donna comunista, che si è sempre dichiarata indipendente e libera, anche dai vincoli della stessa ortodossia ideologica o dalle logiche compatibiliste e stataliste dettate dal Partito Comunista: capziosamente imposta e strategicamente incarnata, la prima, dallo “stalinismo” de facto (e senza scopo) vigente nel Pci togliattiano, autonominatosi rappresentante unico della classe operaia; interpretate, le seconde, dal compromissorio corso berlingueriano.

Vincoli e logiche contro cui le stesse Br, e altre frange della lotta armata comunista, si sollevarono, negli anni ’70/’80, senza alcun timore reverenziale per quei padri ingombranti e dispotici al punto di non riconoscerli come figli. Una donna comunista che, per quella Libertà, per quell’Indipendenza, e per l’uguaglianza sociale che ne dovrebbe costituire il logico presupposto, ha anche preteso di imbracciare le armi. Una donna comunista, libera e indipendente, che non ha mai voluto svendere, con un pentimento di comodo, all’indulgenza di quello Stato contro cui aveva combattuto, la sua dignità e la sua Storia.

Dunque troppo. E troppo, in particolar modo, per una società come quella italiana, reazionaria, sciovinista, ancestralmente patriarcale e maschilista – tara culturale, quasi antropologica, quest’ultima, da cui non sono esenti, spesso, anche i compagni più avveduti – la cui cosiddetta Intellighenzia è stata sovente, e a maggior ragione oggi, riflesso fedele della doppia morale che l’attraversa: statale e vaticana.

Troppo, diciamo la verità, per una brigatista che, una volta scontata la pena, non si è rassegnata al silenzio. Quel silenzio che le sarebbe stato consentito rompere, forse, solo per implorare il perdono di coloro che, al riparo dello stato “democratico”, furono due volte carnefici.

La prima, con le stragi: da quelle di operai e braccianti dei secondi anni ’50, su cui la celere sparava durante le manifestazioni, a quelle più organizzate, che insanguinarono, con apposte in calce le firme congiunte dello Stato, del neofascismo e della mafia, il paese, sul finire degli anni ’60 fino alla seconda metà degli anni ’80; stragi che impressero la definitiva accelerazione, nel movimento rivoluzionario, alla scelta della lotta armata.

La seconda, attraverso l’adozione incostituzionale delle leggi speciali, l’instaurazione del carcere duro (art 90 e, successivamente, 41bis) e la pratica della tortura, mai riconosciuta.

Non si può spiegare altrimenti, se non attraverso queste categorie pre-concettuali, il loro uso strumentalmente politico e storiografico, ed il moralismo giustizialista che trasuda dalla società italiana e dalla cultura che la permea, in questo difficilissimo passaggio epocale, l’odiosa ridda di polemiche, scatenatasi sui social e alimentata dalla stampa di regime, intorno ad un banalissimo post, apparso su Facebook e pubblicato, alcuni giorni fa, dalla stessa Balzerani: «Chi mi ospita oltre confine per i fasti del 40ennale?».

Così scriveva, sulla sua bacheca. Un post tra l’ironico, il rassegnato e, a volerlo interpretare con intelligenza e obiettività – scevre da malafede ma non disgiunte da un briciolo di profondità – anche con un malcelato accento di lacerazione personale. I “fasti del quarantennale” fanno chiaramente riferimento a quella sicura liturgia celebrativo/commemorativa che, in occasione dei quaran’anni trascorsi dal sequestro Moro (il 16 Marzo 1978 avveniva il rapimento, il 9 Maggio dello stesso anno veniva eseguita la sentenza di morte emessa dalle Br) il circense clero mediatico del Belpaese non mancherà di officiare.

Non alludono certo a cinici ed ebbri rituali dionisiaci. Nessuna voglia, insomma, da parte della signora Balzerani, di ballare sul cadavere dell”onorevole Aldo Moro. Nessuna provocazione malevola. Nessun insulto alla memoria. Nessuna voglia di festeggiare all’estero – sull’interpretazione semantica della parola fasti mi soffermerò poi – com’è stato detto. Soltanto il legittimo desiderio di sottrarsi ad un ricordo che riapre ferite intime: umane e politiche.

Perché, a differenza dello stragismo e del cosiddetto “spontaneismo armato neofascista”, chi prese il fucile in quegli anni per l’ideale comunista non tolse la vita a cuor leggero, con superficiale disprezzo della stessa.

Ed è per questo che la sconfitta che ne seguì, brucia ancor di più: nella testa affollata di ricordi, sul cuore stanco per le emozioni, nelle mani che afferrarono, per un attimo, la Storia, rimanendone vuote ed in catene.

Dunque, dicevamo, per tornare al fatto, soltanto il legittimo desiderio – espresso con una normalissima frase su Facebook, da parte della libera cittadina Balzerani, di una donna che fu protagonista di eventi tanto drammatici da segnare, nel profondo, la vita della nostra Repubblica – di sottrarsi a quella che, considerando i prodromi, si preannuncia come una vera e propria “messa cantata”. Una messa celebrata dai Santi Inquisitori della religiosa Ragion di Stato e dai loro scriba, sul cadavere di Aldo Moro – la cui riprovazione morale, ricordiamolo, cadde come una scomunica eterna, sui suoi stessi sodali democristiani e su tutto il fronte della fermezza, PCI incluso – e a imperitura condanna degli eretici rossi, che, come Giordano Bruno, si vorrebbe bruciassero sul rogo.

Una “messa cantata”, infine -c i si può scommettere sin dora – con annessa dietrologia storiografica e infarcita di culto misteriosofico, che andrà ulteriormente ad insabbiare, occultare, stravolgere e falsificare quella Verità che già inutili commissioni d’inchiesta, pubblicistica di quart’ordine, saggistica cospirazionista e giornalismo sensazionalistico non hanno voluto accertare.

Una semplice, trpppo semplice verità: dietro le Brigate Rosse c’erano solo le Brigate Rosse!

Una veritá che fa paura, meglio terrore, a chi detiene il Potere e lo gestisce tramite il controllo sociale e la repressione del dissenso, in ogni sua forma. Perché quella verità potrebbe ingenerare una riflessione politica alalternativa, direi quasi distonica rispetto alla narrazione proposta dalle istituzioni e da tutti i suoi gangli, e che vorrebbe le Br al servizio di interessi internazionali e interni – la ridicola teoria del “doppio Stato” – il cui scopo sarebbe stato quello di destabilizzare la democrazia italiana, per consentire una deriva autoritaria.

Una narrazione che, per irionia della sorte, facendo convergere le rette parallele, tornava utile tanto alla Dc quanto al Pci, ieri. Oggi ai loro eredi. Convergenza di rette che trova il suo astratto punto d’incontro nell’ossessione della governamentalità liberale, cui si era convertito anche il Partito Comunista, e sul cui altare venne cinicamente immolato Aldo Moro. Un sacrificio utilissimo allo Stato liberale e al potere finanziario suo mandante, proprio per non consentire quella riflessione altrrnativa al pensiero capitalista e mercatista dominante, alla rassegnazione imposta dalle elite e oramai ritenuta ineluttabile. La Rivoluzione è possibile!

Una verità distorta e seppellita, si diceva, quindi, a scopi ben precisi. Come distorta e seppellita risulta, inevitabilmente, la Storia, in questo delirante coacervo di menzogne, al quale hanno contribuito, nel tempo, anche le dichiarazioni mendaci dei collaboratori di giustizia. Pentitismi infami e dissociazioni collaborative ad un tanto al chilo, barattati con sconti di pena e decenni di galera in meno, al supermercato della dignità in saldo.

Eppure, non mancano gli storici e i giornalisti di valore che, mossi dal semplice rispetto per la verità storica, hanno, in più occasioni, demolito l’impalcatura di falsità messa su da magistrati, politici, opinionion leader, editorialisti e pentiti. Parliamo di studiosi e giornalisti come Marco Clementi, Vladimiro Satta, Elisa Santalena, Gianremo Armeni, Nicola Lofoco, Giovanni Bianconi, Sergio Zavoli, che però, evidentemente, non meritano credito, malgrado la loro attestata serietà. Non fanno vendere. Anzi, risultano quais “pericolosi”.

A questa baraonda – meschina e un po’ ridicola – chiedeva di sottrarsi Barbara Balzerani. Soprattutto, forse, alla damnatio memoriae inflitta dai vincitori a lei e ai suoi ex compagni. Invece, l’Agorà virtuale dei nostri giorni, quel non-luogo imprecisato come l’inconscio freudiano, dove il linguaggio sembra fagocitare sé stesso in un annientamento semantico della logica del senso, e a cui tutti cediamo, spesso ingenuamente, ha prodotto il suo mostro, il suo fantasma.

In parole povere, quel post ironico, sincero e fin troppo spontaneo si è trasformato nella “voglia di festeggiare” l’omicidio del Presidente Dc, quarant’anni fa. Una malafede interpretativa che ha portato alcuni quotidiani accreditati del nostro pur misero panorama informativo, come Corriere della Sera e Tempo, nonché agenzie di stampa, il sito gossipparo Dagospia e finanche il Tg1, a costruire, a partire da quel post, articoli gonfi di odio e volutamente falsi, col meschino obiettivo di fare, dell’ex brigatista, addirittura l’incarnazione del Male.

Uno sciacallaggio giornalistico, a cui si sono aggiunti gli immancabili insulti da parte dei social haters, sempre pronti a distribuire ingiurie, improperi e rancore a mani basse e a prescindere dalle ragioni di una controparte, spesso ignara di quanto le venga scagliato contro, da bacheche che non sono la sua.

È quanto è capitato, ad esempio, sotto i profili dell’on. Gero Grassi – ineffabile componente dell‘ultima Commissione Moro e manipolatore doc – e di Giovanni Ricci (figlio di Domenico, il carabiniere che conduceva la 130 sulla quale viaggiava Aldo Moro, ucciso anch’egli la mattina del 16 marzo 1978). E non mancano nemmeno le francamente ignobili dichiarazioni di pentiti e dissociati come Adriana Faranda o Raimondo Etro. Quest’ultimo, oramai preda di una sorta di mistico furore da Penitenziagite (fate penitenza), in una mail farneticante inviata al summenzionato Grassi e prontamente rilanciata dai media, non solo definisce le Brigate Rosse emissari delle forze oscure ma, in conclusione, saluta la Balzerani dandogli appuntamento all’inferno. Si commenta da solo.

In quanto giornalista, però, la mia esecrazione deontologica la rivolgo a quei colleghi, quotidiani e organi di stampa che pur di ottenere visibilità, di vendere qualche copia e irregimentarsi nel solco tracciato dal pensiero dominante, invece di fare informazione vanno a sbirciare, ad ascoltare a rovistare, per amor di “democrazia”, è ovvio, nella Vita degli altri. Alla faccia della Stasi, dell’ex Ddr e del “totalitarismo comunista”!

Appare dunque evidente, credo, a questo punto, il motivo per cui ho deciso di cominciare quest’articolo con le parole di Adele Cambria, citate all’inizio. Sconfortato e soffocato nella risacca nauseabonda di quel “dabbenismo” che affligge ormai da tempo immemore i media italici e gli intellettuali che ne determinano forme, linguaggi e sorti. Quegli intellettuali, come scrive la Cambria, «che costituiscono (ancora? Certo, ancora, ndr) il tribunale supplementare che aggiunge le sue sentenze (corporative? Certo, corporative, ndr) a quelle dei magistrati».

Abbiamo a che fare con un giornalismo da copia-e-incolla, da commissariato di paese, spionistico, familistico, pervaso da uno spirito di corpo quasi settario, grondante moralismo ai limiti del pretesco ma, allo stesso tempo, viscido e violento nella sua tracotanza amorale e giudicante, extra e supra legem. E, cosa ancor più grave, succube – come altrove – del Potere e del Denaro.

Perché quelle parole di Adele Cambria ci parlano proprio di un giornalismo di tal fatta, ormai preda esamine tra le fauci di un Mercato che punta al sensazionalismo e alla spettacolarizzazione della notizia, divenuta oggetto entropico, svuotato della sua stessa essenza informativa e del suo statuto di oggettività per diventare materia malleabile e suscettibile delle più fantasiose o sinistre distorsioni ermeneutiche: a soli fini utilitaristici – di vendita e duunque di profitto – sul piano economico; a scopi auto referenziali sul piano più sottile della visibilità e del compiacimento personale dell’articolista.

D’altronde, siamo nell’epoca della dittatura del like ed anche il giornalismo soggiace volentieri a questa sorta di dogma, ascrivibile ad un orgiastico feticismo collettivo. Ne consegue, comprensibilmente, che verità, veridicità, autenticità sono divenute chimere relegate tra le siderali nebulose del relativismo, soprattutto etico. Siamo ben al di là delle teorie della comunicazione elaborate dalla Scuola di Palo Alto e del secondo enunciato, da essa postulato, secondo cui ogni comunicazione implica una metacomunicazione: nel caso di specie, Balzerani/Brigate Rosse/Stato. Ben al di là dell’affermazione di Paul Watzlawick – filosoficamente condivisibile, ma altrettanto filosoficamente opinabile nella sua clausura assiomatica – secondo il quale «La credenza che la realtà che ognuno vede sia l’unica realtà è la più pericolosa di tutte le illusioni».

La pesante coltre del postmodernismo, sotto cui il dato di realtà e la ricerca della verità si piegano a qualunque esigenza di scopo, ricopre per intero ogni comparto, ogni cellula della comunicazione e dell’espessione umana, ammorbandone il libero respiro. E questo, ancor più nella provinciale dimensione italiana, dove la logica della chiacchiera e della bega impera, a discapito della deontologia, della verità e, come detto, finanche della Storia. Senza un simile uso disinvolto dell’interpretazione, senza l’approssimazione etica, cui vanno ad aggiungersi una profonda ignoranza, una disonestà intellettuale e un volgare bisogno di spettacolarità e profitto, sarebbe impossibile spiegare la cagnara creata, ad arte, intorno alla Balzerani e alle Br a partire da un banale post, in cui compare il termine fasti.

Ed eccoci giiunti al valore semantico di questo vocabolo. Qui la malafede raggiunge l’apice. Perché, come si faccia a considerare fasti come il plurale di fasto, onestamente me lo sto ancora chiedendo, a più di una settimana di distanza. Sarebbe bastato, a chiunque, consultare un vocabolario. Oppure, trattatrattandosi di intellettuali, il cui compito sarebbe quello di indirizzare il pensiero dei cives nella polis, non ritengo troppo il chiedere se abbiano mai letto i Fasti del latino Ovidio. Ivi, i libri composti dal poeta, riguardano i primi sei mesi dell’anno ed elencano i vari giorni del nuovo calendario giuliano, con le loro feste religiose e le varie ricorrenze, spiegandone le origini, l’etimologia, gli usi e i riti corrispondenti. Semplice, quindi, comprendere, attraverso questa lettura, che la Balzerani facesse riferimento a quei mesi e a quei giorni del 2018, durante i quali le autorità italiane ed i loro sacerdoti della stampa, celebreranno, come detto, il quarantennale del Caso Moro.

Appunto, i Fasti. Non certo ad una fastosa festa macabra. E, d’altronde sarebbe sufficiente dare una letta ai libri della scrittrice – ad esempio Perché io, perché non tu – per capire con quale intimo dolore ed imbarazzo umano abbia affrontato il confronto, imposto, ad assurdo risarcimento per l’irreparabile, dallo Stato, con i familiari di qualche vittima: «Vigliacca intromissione nei territori dell’altrui intimità. Per dire cosa? Per riparare quale irreparabile? Ma no è forse il silenzio l’unica vera forma di rispetto e non è fondato sulla,reciprocità e riservatezza l’incontro?». Parole che non possono certo dar luogo ad equivoci.

Ma la cattiva coscienza, la disonestà, l’ignoranza, la stupidità e la loro figlia legittima, la perfidia, sembrano essere diventati il denominatore comune di questo mondo dominato da vittimismo e ferocia, in egual misura. Quella stessa ferocia vittimistica e accusatoria che si può leggere nelle parole di Etro. Al quale, per concludere, vogliamo rivolgere un ultimo pensiero. Non c’è inferno peggiore del rinnegare la propria Storia!

 

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