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Siria e Medio Oriente all’insegna dell’instabilità

Siamo giunti al nono giorno dell’operazione militare turca contro il Cantone di Afrin, guidato dal Pyd curdo, ala siriana del Pkk. Non è possibile, al momento, recapitare fonti valide rispetto alla consistenza della complicata avanzata di terra delle forze armate di Ankara e, soprattutto, delle varie fazioni fondamentaliste sunnite satelliti, i cui combattenti stanno fungendo da “carne da cannone” nell’ambito di durissimi combattimenti. Tuttavia pian piano vengono fuori alcuni tasselli del mosaico del quadro politico all’interno del quale si svolge l’ennesimo atto di aggressione da parte del regime erdoganiano.

Innanzitutto, nei giorni immediatamente precedente alla decisione di pigiare sull’acceleratore, si sono diffuse dichiarazioni relative al fatto che gli USA stessero predisponendo, all’interno dei ranghi delle alleate Syrian Democratic Forces (SDF), composte per la maggior parte dalle milizie curde Ypg/Ypj, una vera e propria milizia di frontiera; inoltre, alcune testate arabe riportavano che gli USA fossero anche pronti ad inviare personale diplomatico nelle aree a nord-est della Siria in mano alle stesse SDF. Questi due passi avrebbero configurato l’avvio di un percorso per il riconoscimento formale di un vero e proprio stato curdo, che Ankara non avrebbe mai permesso.

In secondo luogo, a seguito dell’offensiva lanciata dall’esercito siriano nella provincia di Idlib, dove operano alcuni gruppi fondamentalisti sunniti alleati dalla Turchia, assieme ad Hayat Tahrir al-Sham (HTS), formalmente considerata organizzazione terroristica da tutti in quanto legata ad Al-Qaeda, sono collassati gli accordi di de-escalations in precedenza stretti da Ankara con Russia e Iran; secondo tali accordi, sarebbe dovuto essere l’esercito turco a garantire la provincia di Idlib divenisse un’area di de-escalations, garantendo al contempo che gli altri gruppi si separassero da HTS. Ciò non è mai avvenuto, poichè Ankara nei fatti ha sempre sostenuto a sua volta tale milizia jihadista in chiave anti-Assad.

Dati i successi in serie raccolti dall’esercito di Damasco nell’area sud-occidentale della provincia di Idlib, tutti i gruppi che spadroneggiavano nell’ormai ex- feudo jihadista paiono destinati ad essere sfrattati dall’area nel giro di alcuni mesi, frustrando le mire egemoniche della Turchia, desiderosa di fare di tale pezzo di Siria un proprio protettorato.

Per rifarsi, dunque, il regime nezional-islamista ha spostato le proprie mire sul Cantone di Afrin, l’entità  debole politicamente, poichè isolata in quanto non gode dell’appoggio degli USA, come il resto delle aree in mano alle SDF; il pretesto di Washington per negare la propria protezione ad Afrin è l’assenza di miliziani dell’Isis da combattere nel nord-est della Siria, base sulla quale si fonda l’alleanza per quanto concerne gli altri Cantoni.

Da parte sua la Russia, che in precedenza aveva dispiegato nei pressi di Afrin un piccolo contingente con lo scopo di garantire il rispetto degli accordi di de-escalation e mediare fra le autorità curde e quelle di Damasco, ha avallato l’operazione militare turca adducendo come spiegazione “i molteplici atti unilaterali degli USA” atti a smembrare la Siria (fra cui la formazione di una milizia di frontiera di cui si diceva sopra) che avrebbero provocato la reazione turca; l’assenso di Mosca, comunque, appare anche come un parziale risarcimento rispetto a quanto sta accadendo a Idlib.

Nei mesi precedenti e fino all’ultimo giorno prima dell’operazione “ramo di ulivo” (così, beffardamente, l’hanno chiamata i vertici militari turchi), i comandi militari russi hanno più volto chiesto alle autorità del Cantone di Afrin di far entrare l’esercito siriano, ponendolo a presidio del confine con la Turchia. Tale richiesta è stata sempre respinta al mittente, sia per preservare integralmente il sistema politico vigente nel cantone (sarebbe stato, infatti, in quel caso, necessario stringere accordi con il governo siriano), sia per non danneggiare la propria collaborazione con gli USA.

Tuttavia, tale strategia di collaborazione con l’imperialismo, che in precedenza è servita a liberarsi dell’Isis, ma anche ad espandersi indebitamente nelle aree di Raqqa e Deir-ez-Zor, mostra adesso  la sua natura tendenzialmente fallimentare poiché ha ridotto all’isolamento il Cantone di Afrin, che, per altro, fino a 9 oggi giorni fa non era stato per nulla toccato dalla guerra. Così, nei giorni scorsi è apparsa sul web una dichiarazione riconducibile alle autorità di Afrin in cui si chiede allo stato siriano di “adempiere ai suoi obblighi sovrani nei confronti di Afrin e proteggere i suoi confini con la Turchia dagli attacchi degli occupanti turchi […] e di schierare le sue forze armate siriane per proteggere i confini dell’area Afrin”; in pratica si riconosce l’autorità di uno stato che fino a pochi giorni prima era dichiarata illegittima e si invoca la protezione in precedenza rifiutata.

Tale dichiarazione indica che sicuramente sono in corso trattative sotterranee coordinate dalla Russia; tuttavia riesce difficile pensare che a operazione militare avviata l’esercito di Damasco possa essere schierato a fronteggiare apertamente quello turco. Staremo a vedere. Da questo punto di vista molto dipenderà dai rapporti di forza che si verranno a creare sul terreno: un insabbiamento turco potrebbe in effetti riportare in auge la possibilità di una simile mediazione.

In una maniera sicuramente più rapida rispetto ai progressi sul terreno dell’esercito turco e dei propri satelliti procede  l’escalation di dichiarazione da parte della leadership turca: inizialmente il Primo Ministro Yildirim aveva limitato l’obiettivo dell’operazione militare a creare una fascia di sicurezza di 30 km sul confine; successivamente il Presidente Erdogan ha cominciato a declamare di voler estendere ramo d’ulivo “fino al confine con l’Iraq”, ovvero in aree aree dove gli USA mantengono una significativa presenza, che il “Sultano” non ha esitato a minacciare. Il Ministro degli Esteri Cevasoglu ha, nelle ultime ore, intimato gli USA di ritirare la propria presenza militare a Manbij, città nelle mani di tribù arabe in quadrate nelle SDF e sostenute dai comandi militari yankee.

Da parte loro, gli apparati militari e politici USA fanno una dichiarazione e una relativa smentita dietro l’altra: un giorno promettono alla Turchia di fermare definitivamente l’appoggio alle SDF, il giorno successivo dicono di voler costruire la milizia di frontiera con esse; un giorno si dicono d’accordo con la necessità del governo turco di costruire una fascia di sicurezza ai confini, il giorno successivi intimano di sospendere l’azione militare, e così via. Intanto, la loro influenza reale diminuisce progressivamente.

In questo quadro è prevista, per il 30 e il 31 gennaio una conferenza a Sochi, in cui sono invitati delegati del governo di Damasco, così come delle altre fazioni politiche siriane per provare a trovare una soluzione negoziata alla crisi. Sono invitati anche il Pyd e le fazioni fondamentaliste sunnite non considerate terroriste, le quali, tuttavia, pare abbiano già declinato l’invito. Alla conferenza, il governo siriano e i propri alleati si presentano in condizioni di forte vantaggio, dati i successi sul campo di battaglia, e decisi a costringere le opposizioni a sottostare alle proprie condizioni (fra cui la permanenza al potere del Presidente Bashar al-Assad durante la transizione e la possibilità di rimanervi anche dopo, punti, questi ultimi, sui quali si sono sempre incagliati i negoziati precedenti); non si intravede, comunque, allo stato, un’ipotesi di riassetto possibile che metta d’accordo tutti.

Il dato più importante, comunque, è che gli USA e l’UE sembrano completamente tagliati fuori da questi processi decisionali, mentre osservano sostanzialmente impotenti, e vittorie dell’esercito siriano e dei propri alleati e i tentativi della Turchia di rimanere comunque a galla e partecipare alla spartizione della torta siriana.

La stessa tendenza si registra in altre aree di crisi, quali la Libia, l’Iraq e lo Yemen, dove sempre più è evidente l’aumento dell’influenza della Russia, la quale, nel perseguire i propri i propri interessi, impronta le proprie relazioni e il proprio agire nella direzione della creazione di un equilibrio maggiormente stabile, rispetto ai continui atti di destabilizzazione cui sono improntate le azioni degli imperialismi americano e europeo.

Un capitolo a parte, in questo senso, lo meriterebbe l’azione dell’Arabia Saudita, scossa dalle vicende interne legate alle purghe messe in atto dall’erede al trono Mahammed bin Salman ai danni di altri membri della famiglia reale (arrestati e costretti a cedere i propri assets al Principe) e a sua volta promotrice di guerre fallimentari (vedi Yemen e la stessa Siria) e di tentativi di destabilizzazione (vedi il tentativo di far saltare gi equiibri in Libano, costringendo il Premier Hariri alle dimissioni e l’embargo ai danni del Qatar) all’esterno; il tutto per accreditarsi come unico referente dell’imperialismo nel mondo arabo.

Nel mezzo di questo turbinìo di eventi rimane sempre la questione curda, strumentalizzata dalle cancellerìe occidentali, sia in Siria che in Iraq. In Siria, come detto, il sostegno militare americano va e viene a seconda delle convenienze e l’esperimento democratico messo in atto dalle Ypg/Ypj, che tanto credito si è guadagnato anche presso i circuiti democratici e di movimento in occidente, rischia in ogni momento di dover segnare il passo a favore di fazioni jihadiste reazionarie a causa dei voltafaccia da parte dei cattivi alleati che si è scelto; anche in Iraq il Governo Regionale Kurdo sta perdendo parte della propria autonomia a causa della perdita dell’appoggio americano.

La situazione peggiore, al momento, pare quella dei Palestinesi. Nemmeno il riconoscimento formale americano di Gerusalemme capitale di Israele pare abbia scosso più di tanto il mondo arabo, nel quale, Siria ed Hezbollah a parte (in tutt’altre vicende affaccendati), prevalgono tendenze alla normalizzazione dei rapporti con Israele mai visti prima, nonostante le lamentele formali; i fili di tali tendenze vengono ancora una volta tirati dall’Arabia Saudita. Intanto, la degradata leadership dell’Anp è stretta, da un lato, dalla necessità di rilanciare un proprio ruolo politico e una propria credibilità verso il proprio popolo facendo saltare il banco delle “trattative” con Israele e gli USA, dall’altro dalla dipendenza economica dagli stessi oppressori. Su questo fronte, al momento non s’intravedono spiragli.

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