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Lezioni dalle elezioni in Portogallo

I risultati delle recenti elezioni politiche in Portogallo che hanno sancito la chiara riconferma del premier uscente, Antonio Costa, stanno producendo una discussione la quale sta travalicando l’aspetto interno al paese lusitano e sta assumendo una proiezione politica di tipo generale.

Nel nostro paese in molti osservatori politici – e più specificatamente quei settori della “sinistra patinata” che fanno capo al gruppo “Repubblica, Espresso, Micromega” ma anche al quotidiano “il Manifesto” – evidenziano come il corso politico interpretato della “sinistra portoghese” in questi anni può diventare un modello per la “sinistra tricolore” in considerazione del dato comune rappresentato dall’obbligato rapporto da intavolare (e subire) con la Commissione Europea ed il complesso delle istituzioni facenti capo all’Unione Europea.

Già nei mesi precedenti il voto del 6 ottobre scorso molti (interessati) osservatori notavano che il “caso Portoghese” potrebbe diventare una strada percorribile per la socialdemocrazia in Europa in virtù del fatto che l’esecutivo Costa (formato prioritariamente dal Partito Socialista con l’appoggio decisivo di Verdi, Bloco de Esquerda e del Partito Comunista Portoghese) era riuscito nell’alchimia di “governare” i diktat provenienti da Bruxelles temperandoli con una politica interna non particolarmente contrassegnata dalla filosofia antisociale dell’austerity.

Alcuni dati sono evidenti e sono l’esca su cui si appuntano le interessate attenzionI degli esegeti del “miracolo di Lisbona”: il Portogallo, con l’aumento di 1,7 del Prodotto Interno Lordo sta crescendo più della Germania. In sette anni ha abbassato il deficit pubblico dell’11% del PIL allo 0,5% (il livello più basso dal 1974, anno in cui la Rivoluzione dei Garofani pose termine alla dittatura).

Tali dati, però, se possono accontentare i freddi analisti statistici rivelano che dietro la patina di alcuni provvedimenti/simbolo (gli investimenti delle multinazionali attratti dalle agevolazioni fiscali e il forte boom del turismo oppure le facilitazioni offerte ai pensionati che provengono da altri paesI) si sta facendo strada una politica economica e sociale che inizia a penalizzare alcuni ceti subalterni aumentando – di fatto – le disuguaglianze e la divaricante polarizzazione tra settori del mondo del lavoro e tra aree territoriali del paese.

Non è un caso che nei mesi scorsi due categorie – solo astrattamente diverse tra loro – i professori delle scuole e i camionisti hanno impattato con il fermo Niet del governo Costa a fronte delle loro richieste di aumenti salariali e di miglioramenti giuridici e normativi.

I professori ed i camionisti – pur nella oggettiva diversità di lavoro e mansioni che concretamente svolgono – stanno pagando il generale incedere della crisi e il dato reale che registra come di alcuni segnali di “ripresa economica” stiano beneficiando, esclusivamente, quei comparti sociali e quelle filiere commerciali e finanziarie che, a vario titolo, afferiscono alle imprese multinazionali del turismo e dei servizi. Un dispositivo economico che penalizza gran parte dei lavoratori dipendenti e del piccolo “lavoro autonomo”.

Possiamo, quindi, affermare che sicuramente l’operato del governo di Antonio Costa non è, assolutamente, paragonabile a quei governi che immediatamente svendono (senza neanche un minimo di resistenza) il proprio paese ai diktat dei poteri forti continentali ma non è corretto accreditare questo esecutivo e la sua azione di governo come un esempio di “politica avanzata e progressista” a cui occorrerebbe offrire appoggio o, addirittura, andrebbe assunto come modello politico da generalizzare in Europa.

Il governo Costa – a differenza di quello di Tsipras che impattò subito con i diktat della UE – si è potuto più agevolmente barcamenare nell’esercizio della sua dialettica con la gabbia dell’Unione Europea potendo usufruire degli effetti di una congiuntura economica internazionale ed europea diversa da quella (tanto per indicare una data simbolo) del 2013 e di una collocazione geo/politica del Portogallo che favorisce questo paese (dagli ex paesi coloniali di Lisbona continuano ad arrivare rimesse economiche, manodopera a basso costo ed un afflusso agevolato di risorse naturali e minerarie. Inoltre questi paesi, nonostante non conoscano un poderoso sviluppo economico paragonabile ad altre zone dell’Africa costituiscono un “mercato privilegiato” per il Portogallo).

Le elezioni portoghesi e il ruolo dei comunisti nell’Unione Europea.

In questo contesto i risultati elettorali dei giorni scorsi rilevano un pesante arretramento di voti e seggi per la CDU (la Coalizione Democratica Unitaria promossa e guidata dal Partito Comunista Portoghese) la quale, pur recuperando consensi rispetto alle elezioni europee del maggio scorso, registra la perdita di almeno 5 deputati rispetto al numero degli eletti nelle scorse consultazioni politiche. Tiene, invece, il Bloco de Esquerda il quale perde solo lo 0,5%, nel quadro di un arretramento complessivo di quasi 200 mila voti delle forze “più radicali” dello schieramento politico, contenuto nelle percentuali soltanto dall’altro grande dato di questa tornata elettorale, ovvero della caduta dell’affluenza alle urne ai livelli minimi dal 1974.

Sicuramente è vero, dal punto di vista teorico e politico, che la partecipazione dei partiti comunisti a governi borghesi (specie quelli che si insediano sulla base di accordi post/elettorali e non come uno sbocco di processi di rottura politici e sociali nella società) ha sempre penalizzato le formazioni comuniste. Questo principio si è verificato nella dura realtà quotidiana nei decenni alle nostre spalle in molti paesi europei ogni volta che i partiti comunisti – al netto delle “migliori intenzioni possibili” – si sono assunti responsabilità di governo.

In Francia, in Grecia, in Spagna ed in Italia abbiamo registrato, dal 1989 in poi (volendo indicare una periodizzazione temporale), più volte la partecipazione di formazioni “comuniste e/o di sinistra radicale” ad esperienze governative il cui esito finale è stato disastroso non solo per gli interessi dei settori popolari che si intendeva difendere e rappresentare ma per la stessa tenuta ideologica, politica ed organizzativa di queste compagini.

Da materialisti e da conoscitori delle moderne forme della governance capitalista – specie in paesi che sono la base materiale di un polo imperialista come quello incarnato dall’Unione Europea – sappiamo che le “svolte governiste” – anche giustificate da programmi “autenticamente riformatori” – sono terreni politici scivolosi che inchiodano i comunisti a “patti programmatici” e a quel “realismo della politica” che depotenzia e, sostanzialmente, annulla ogni spinta politica in avanti che i comunisti dovrebbero imporre nella loro “azione governativa”.

L’essere collocati – obbligatoriamente – su un piano inclinato dove chi determina, oggettivamente e soggettivamente, le leve economiche e le scelte concrete da adottare siede a Bruxelles, a Francoforte e Berlino condanna i comunisti o alla funzione di meri notai delle scelte derivanti dalle decisioni della borghesia continentale oppure li espone ad una – impersonale quanto impercettibile – azione di sussunzione e depotenziamento culturale e politico della loro funzione costitutiva.

Come Rete dei Comunisti abbiamo un grande rispetto per la lunga e gloriosa storia ed il ruolo che il Partito Comunista Portoghese riveste, non da oggi, nella società lusitana e nell’intero continente europeo. Abbiamo sempre apprezzato la produzione teorica e le posizioni di aperta critica al carattere imperialista dell’Unione Europea che il PCP manifesta da tempo. Nei nostri organi di informazione spesso riportiamo le dichiarazioni dei compagni portoghesi a cui riconosciamo una importante funzione in Europa.

Lungi da noi, quindi, qualsiasi supponenza o spocchia verso una formazione che, concretamente, si misura ogni giorno con le contraddizioni della nostra contemporaneità senza abiurare all’obiettivo della lotta per il socialismo.

Da compagni vorremmo, però, far notare che l’esperienza del governo Costa (e il risultato di queste elezioni lo conferma) ha espresso tutti i limiti e le derive politiche e materiali derivanti da una concezione della lotta all’austerità ed agli effetti antipopolari delle politiche della UE tutte impostate dentro l’orizzonte della gabbia della Trojka ed il rispetto delle compatibilità.

Inoltre il “caso Portoghese” dimostra, plasticamente, come ogni tentativo – anche in presunta salsa “sociale e progressista” – impostato su scala nazionale è destinato a rifluire e, tendenzialmente, a soccombore di fronte al rullo compressore diplomatico, finanziario, economico e militare, dell’imperialismo europeo. Ed ancora di più questa implosione è certa quando si tratta di paesi piccoli come il Portogallo!

Lo stesso ragionamento, dal nostro punto di vista, può esemplificarsi anche in riferiamo alla situazione della Grecia dove il KKE (il Partito Comunista Greco) è, coerentemente, all’opposizione netta di ogni governo compreso gli anni in cui le elezioni sono state vinte da Siryza. Anche in terra ellenica, però, i risultati elettorali – nonostante la caparbietà politica del KKE e la presenza di un forte movimento sindacale indipendente – non premiano questa formazione.

Evidentemente – come ci sforziamo di argomentare da anni nell’analizzare le conseguenze profonde che la costruzione di un polo imperialista determina a vari livelli – i comunisti che agiscono in questa inedita dimensione politica e strutturale devono prendere atto di tale complessità predisponendo una modalità tattica d’intervento nella classe e nell’insieme della società che tiene conto di questa modifica, del mutamento dei rapporti di forza tra le classi e delle difficoltà per i comunisti di potersi cimentare direttamente sul terrerno elettorale ed istituzionale.

Come Rete dei Comunisti – sulla base del nostro impianto tattico che abbiamo definito dei tre fronti della lotta di classe – abbiamo sperimentato vari tentativi di costruzione di una Rappresentanza Politica degli interessi dei settori popolari consapevoli che il versante elettorale è – in ogni caso – un fattore subordinato nei confronti del compito primario che afferisce alla costruzione di nuovi e più avanzati livelli di organizzazione e coscienza di classe nei posti di lavoro, nei territori e nella società.

Una proposta politica di fase, un terreno di confronto e di azione unitaria sovranazionale.

Una efficace opposizione all’Unione Europea, ai suoi diversificati dispositivi di rapina e di austerity ai danni dei settori popolari – particolarmente del Sud Europa – può avvenire solo attraverso una risposta politica e sociale (una rottura) di tipo internazionalista superando suggestioni/scorciatoie nazionali o micro – territoriali consapevoli che il nostro avversario ha le dimensioni e la potenza di un polo imperialista a tutti gli effetti.

La ripresa, quindi, di un processo politico d’area (una prospettiva Euromediterranea) è la condizione minima necessaria per dare voce, forza e rappresentanza ad una alternativa popolare di tipo anticapitalista che sottragga il nostro blocco sociale di riferimento sia all’inanità politica e strategica di una “sinistra” sempre più integrata e disciplinata all’involucro europeo e sia dalla fascinazione dei miti idealisti, antistorici e reazionari delle “piccole patrie” di cui le destre e i “sovranisti” vorrebbero farsi interpreti.

A ridosso di questa proposta politico/programmatica – una vera e propria sfida teorica e politico/pratica – collochiamo la nostra azione a tutto campo e definiamo la nostra politica comunista disponibili al confronto, al dibattito ed alla collaborazione con tutte le forze comuniste, anticapitaliste e popolari a scala internazionale.

Rete dei Comunisti

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