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La speranza ostinata di Max Mannheimer

Non era destinata alla pubblicazione, la testimonianza che Max Mannheimer – cittadino cecoslovacco di origini ebraiche, deportato dai nazisti nel 1943 – scrisse quasi frettolosamente nel 1964. Un puro caso, ma assai significativo, favorì comunque la precipitazione di quelle memorie sulla pagina scritta.

Sopravvissuto alla persecuzione e ai campi di concentramento, Mannheimer tacque per molto tempo, troppo profonde e al tempo stesso vive rimanevano le ferite nei venti anni che seguirono alla sua liberazione. Ma nel 1964, per un errore di comunicazione con il personale ospedaliero, egli ritenne di essere stato sorpreso da un tumore, e di avere poco tempo ancora da vivere. Decise allora di lasciare a sua figlia un racconto del proprio vissuto concentrazionario. Nulla le aveva rivelato fino a quel momento, e avvertì forte l’esigenza di comporre velocemente, ma in modo chiaro e misurato, la propria esperienza di fuga, persecuzione, deportazione. Il tratto scarno e secco della narrazione rende questo testo estremamente efficace. Una freccia al cuore.

Mannheimer non aveva alcun tumore (sopravvisse infatti fino al 2016), accettando poi l’idea di pubblicare queste pagine, e di trascorrere buona parte della sua vita a raccontare, spiegare e testimoniare il proprio vissuto.

La storia di questo ragazzo appartenente a una famiglia di commercianti ebrei, primo di cinque figli, che a partire dal 1938 assistette alla progressiva accelerazione espansionistica e discriminatoria dei nazisti, è una storia che somiglia a quelle di tante altre vittime. Ma il tono quasi pacato con qui Mannheimer ricorda l’orrore, lascia veramente stupiti. L’autore resta calmo, e lascia emergere alcuni fattori cruciali della persecuzione e della sua possibilità, che spesso vengono tralasciati.

Il libro, nell’edizione italiana, è presentato con il titolo Una speranza ostinata (Edizioni Add, 2016), poiché la cifra caratteristica di questo tardo diario concentrazionario è un’oscillazione interessante tra l’auspicio di una possibilità di un destino non troppo avverso per la popolazione ebraica dell’Europa orientale, e l’attitudine alla passività che rese impossibile una vera resistenza all’oppressore.

Non ricostruirò qui gli intensi momenti descritti nel libro, né l’evoluzione dell’esperienza concentrazionaria di Mannheimer, che conobbe tutti i luoghi più noti della deportazione antisemita. Vorrei invece mettere in evidenza soltanto quella peculiare oscillazione.

In molti passaggi del racconto, Mannheimer ricorda come la propria famiglia, e lui stesso, non reputarono seriamente grave la minaccia nazista, quando questa si manifestava attraverso pur plateali e violente esibizioni di forza. Emblematica la reazione all’occupazione nazista della regione dei Sudeti: “Ne discutiamo a casa. Le cose non potranno andare peggio di così. Non si può mica scappare. E poi c’è la casa. Papà è ottimista. È un veterano di guerra e paga puntualmente le tasse. È molto apprezzato e ha una buona reputazione. Tutti lo conoscono. Non solo il rabbino, anche il parroco. È sempre stato solo un commerciante, non ha mai fatto politica. Se Dio vorrà, andrà tutto bene” (p. 27).

E poi, già dopo la notte dei cristalli, dopo le prime esperienze di fuga di città in città, c’è tempo per un nuovo lavoro, e per il primo amore: “Non vediamo il pericolo che si avvicina. Non vogliamo vederlo” (p. 43).

Nel gennaio del 1943 l’intera famiglia venne deportata. Ma anche in quel momento, persisteva una certa incredulità: “Le cose non potranno andare peggio di così. Anche mio padre lo pensa. Ha pagato regolarmente le tasse. Nella prima guerra mondiale è stato tre anni al fronte per l’Imperatore e Re. Non ha nulla da rimproverarsi” (p. 48). Di lì a pochi giorni la famiglia venne progressivamente sterminata. Alla fine della guerra soltanto lui e uno dei suoi fratelli sarebbero rimasti in vita. E con l’avanzare della narrazione, spontaneamente, naturalmente, quel cauto ottimismo iniziale scivola nella consapevolezza della propria incapacità di reagire.

Il primo momento di meditazione è nell’attraversamento dei ruderi del ghetto di Varsavia, là dove altri ebrei avevano cercato di resistere e avevano trovato la morte, e le macerie disseminate intorno, vengono definite da Mannheimer come “pietre storiche”.

A Dachau, invece, egli si imbatté in una diversa categoria di detenuti, i partigiani jugoslavi, portando così a compimento la sua amara riflessione: “Parlo con alcuni di loro. Ne ammiro il coraggio. Parte di un popolo sale sui monti. Combatte contro un esercito regolare. Con molto idealismo e poche armi. Nelle condizioni più dure. Faccio un confronto. Loro e noi. Ci lasciamo trasportare come bestie al macello. Con numeri al collo. Porgiamo docili il capo. Il bestiame oppone resistenza entrando al macello. Noi no. Noi ubbidiamo senza protestare” (p. 106). Esiste forse una spiegazione? Ha forse a che fare con la peculiarità della storia del popolo ebraico? Mannheimer formula ipotesi, ma non trova e non cerca risposte. Eppure gli pesa sul cuore quella domanda.

Il libro è breve, ed è molto interessante. È stato giusto proporlo al pubblico italiano. È importante che gli italiani lo leggano.

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