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Il programma politico di Macron. Innovazione o vecchio liberismo?

Recensione a Thomas Porcher, Frédéric Farah, Introduction inquiète à la Macron-économie, Paris, Les petits matins, 2016, pp. 108, euro 12,00

Il Governo francese ha inaugurato la ripresa delle attività politiche dopo la pausa estiva con l’annuncio dei “decreti delegati” che trasformeranno sensibilmente il diritto del lavoro transalpino. Quanto promesso da Emmanuel Macron durante la campagna elettorale comincia a diventare realtà.

Il perno della riforma – ispirata a quelle tedesche del “socialdemocratico” Schröder – è lo slittamento della contrattazione dalla dimensione nazionale-collettiva a quella aziendale, laddove i rapporti di forza sono nettamente sbilanciati in favore della parte padronale1. I commentatori del quotidiano della Confindustria ne sono ben consapevoli, tanto da sottolineare come l’esperienza tedesca abbia ampiamente dimostrato che la contrattazione “dal basso” in deroga a quella nazionale ha posto le «basi per una moderazione delle dinamiche salariali e per i guadagni di produttività»2. Detto in altre parole – con linguaggio da trinariciuti: aumento del tasso di sfruttamento3.

A ciò si aggiunga che tra gli obiettivi dell’attuale Governo francese c’è quello di attaccare frontalmente la legislazione sulla riduzione dell’orario di lavoro.

Prima durante e dopo le campagne elettorali per le presidenziali francesi e poi per le politiche, abbiamo assistito ad una rincorsa frenetica di mass media e politici nostrani all’apologia di Macron quale faro di novità, ventata di freschezza nell’approccio alla politica e alle ricette economiche.

L’attuale Presidente francese, giocando anche con la propria età, ha fatto sistematico ricorso ad un discorso “nuovista” scagliato contro le cariatidi della politica transalpina (in Italia ha molti antesignani): il “politico artigiano” contro quelli “fannulloni” – è una delle dicotomie utilizzate durante il confronto elettorale. Non a caso la sua biografia si intitola: “Rivoluzione”. Qualcuno, forse con maggiore senso del pudore, parla di “rivoluzione liberale francese”.

È interessante domandarci, in un’ottica critica, se ci troviamo davvero in presenza di un programma politico di rottura rispetto al recente passato francese. Macron ed il suo movimento politico rappresentano davvero il “nuovo”? Siamo realmente in presenza di una “rivoluzione” (a prescindere dal suo segno politico)?

Thomas Porcher e Frédéric Farah, studiosi critici del Tafta e dell’Unione Europea, insegnano economia nelle università francesi. Il primo, con una particolare sensibilità ecologista, è anche animatore del collettivo di ricerca “Les Économistes atterrés”, che promuove la critica all’ortodossia dell’economia neoliberista.

Entrambi hanno dato alle stampe l’interessante saggio dal titolo inequivocabile: “Introduction inquiète à la Macron-économie”, edito per i tipi parigini di Les petit matins.

Il libro è un agile volumetto, sintetico ma denso, sul pensiero politico ed economico dell’attuale Presidente della Repubblica francese. Il commento dei suoi principali slogan o propositi consente di evidenziare le coordinate essenziali del suo pensiero, da cui emerge una visione ben precisa della vita, della società, dello Stato e del lavoro.

L’obiettivo dichiarato del libro è di mettere in evidenza lo “scarto” esistente tra «la modernità apparente dell’ex-Ministro e la sua visione conservatrice dell’economia», molto vicina al liberalismo degli economisti del XIX secolo.

Prestando attenzione ai temi centrali della “rivoluzione” macronista, è facile rinvenire tutti i più classici cliché liberisti. Il primo è il mantra delle “riforme” per svecchiare l’economia-paese bloccata e arrugginita.

In Italia economisti, giuristi e politici da decenni ci ripetono che la “costituzione economica” vada profondamente mutata e che il mercato del lavoro vada continuamente ristrutturato. Nonostante le riforme lo abbiano ampiamente flessibilizzato, il legislatore ha proseguito imperterrito nell’opera di smantellamento del vecchio diritto del lavoro e sindacale. L’assunto è che la rigidità di salari, norme e contratti ottenuti con la lotta dalla classe lavoratrice nei decenni scorsi vadano ribaltati. Il rapporto tra dipendente e “datore di lavoro” va restituito alla sua “naturalezza”, spogliato dalle armature sindacali e legislative. Chi è contro è un “conservatore”. Proprio quanto sostiene Macron a proposito della “sinistra” francese, da cui pur muove il suo curriculum.

Nella narrazione macroniana la Francia è un Paese bloccato perché, a differenza del Regno Unito, negli anni ’80 non avrebbe promosso alcuna riforma (si noti il preciso riferimento al periodo della Thatcher e di Reagan). Gli autori sostengono che, invece, tale asserzione sia un falso, poiché i socialisti con Mitterand, dopo un primo e breve periodo di interventismo statale nell’economia, abbracciarono le politiche neoliberiste.

Il c.d. “tornante del rigore” (che prese l’avvio nel 1983) si fondava sui tre pilastri del “nuovo corso” socialista: i) un franco forte; ii) la riduzione della spesa pubblica; iii) la moderazione salariale (dal 1976 al 2008 i salari hanno perso il 10% sul PIL francese e, al contempo, le imposte sui profitti delle imprese sono calati dal 50 al 33%).

Gli obiettivi della crescita e del pieno impiego vengono abbandonati per privilegiare l’equilibrio esterno e la stabilizzazione dei prezzi, cardini della Scuola di Chicago e delle politiche di austerità.

Nel 1987 – continuano gli autori – Chirac perseguirà un programma di privatizzazioni nei settori strategici (energetico, bancario…), la flessibilità nel mercato del lavoro e la fine dei controlli dei prezzi.

Il mercato del lavoro, di cui pur Macron lamenta rigidità e ossificazioni, è ampiamente flessibilizzato da anni. Gli autori riportano alcuni indici esemplificativi: dal 1980 il ricorso al lavoro temporaneo è aumentato di cinque volte per gli interinali, di quattro volte per i contratti c.d. cdd (a tempo determinato) e di tre volte per gli stage e i contratti c.d. “aidé” (per i quali il datore di lavoro riceve incentivi finanziari pubblici). Le evidenze empiriche – riportano gli autori – dimostrano che tali contratti hanno prodotto precarietà e raramente fungono da trampolino di lancio verso percorsi lavorativi più stabili e duraturi4.

Tra gli obiettivi strategici delle politiche neoliberiste vi è lo smantellamento del settore pubblico: dapprima viene aggredito il comparto più propriamente economico-imprenditoriale5, quindi si passa all’organizzazione burocratica della pubblica amministrazione e dei suoi costi, tra cui figurano in primo piano i dipendenti pubblici6.

In Italia abbiamo lunga esperienza della performatività di tale discorso e di come abilmente si tenda a confondere le disfunzioni dei grandi apparati burocratici e di potere con l’attacco ai diritti dei lavoratori e come, dietro la critica della “casta”, si nasconda spesso un feroce attacco indiscriminato alle organizzazioni sindacali e ai dipendenti.

Il neopresidente francese non fa eccezione nemmeno su questo punto: i dipendenti pubblici sono “privilegiati, costosi e inefficienti”.

D’altronde le istituzioni europee chiedono da anni riforme di tal fatta. Basti pensare al diktat della Bce che pervenne al Governo italiano nel 2011 e alle sue richieste7, per rendersi conto di quanto sia “rivoluzionario” il nuovo ospite dell’Eliseo. Non è altro che un vettore delle politiche economiche costitutive dell’Ue e dell’unione monetaria. Tagli alla spesa pubblica ed equilibrio di bilancio, nel discorso neoliberista, vogliono dire compressione dei redditi dei dipendenti, licenziamenti, sforbiciate al Welfare State: il recente caso greco oramai fa scuola.

Come conseguenza di tali stagioni “riformiste”, alla fine del XX Secolo la Francia si è dotata di un’economia propriamente thatcheriana: riduzione del 50% del lavoro nel settore pubblico tra il 1985 e il 2000; privatizzazioni totali o parziali delle grandi imprese pubbliche; crollo delle iscrizioni ai sindacati…

Al contempo, tuttavia, né la disoccupazione né la disuguaglianza hanno smesso di crescere.

Stando ad alcuni studiosi, il neoliberismo non è soltanto una dottrina politica ed economica, ma una vera e propria “razionalità” che «ha per principale caratteristica quella della generalizzazione della concorrenza come norma di comportamento e dell’impresa come modello di soggettivazione»8. È proprio a queste esigenze che risponde il discorso anti-egualitarista di Macron.

Per l’attuale Presidente francese, la voglia di uguaglianza è diventata un “egualitarismo invidioso” da osteggiare. La République deve garantire l’uguaglianza di partenza, non certo quella di arrivo.

Gli autori criticano ampiamente tale prospettiva, evidenziando le differenti opzioni politiche che soggiacciono alle due idee ed orizzonti di uguaglianza. Quella di possibilità presuppone un discorso individualista, che espelle ogni fattore esogeno all’individuo. Non esistono determinanti o condizionamenti di natura sociale; è l’individuo, coltivando il suo “capitale umano”, ad essere responsabile del proprio futuro, dei suoi successi e fallimenti. Tuttavia – sostengono gli autori – le «opportunità non dipendono solo dalle qualità degli individui: esse coinvolgono altri fattori che vanno cercati tra le famiglie d’origine, le condizioni della società e le politiche economiche adottate».

Se la politica si interessa soltanto alle condizioni di partenza formalmente uguali, senza tener conto delle disuguaglianze sostanziali che minano ed ostacolano il raggiungimento di una società più eguale al punto di arrivo (nei livelli di studi, dei salari, del pieno effettivo esercizio dei diritti, anche politici), si giunge al paradosso per cui, nell’era della diffusione dei diritti (e della platea di destinatari), aumentano le disuguaglianze sostanziali (sul piano reddituale e patrimoniale). L’eguaglianza di partenza, meramente formale, si trasforma in disuguaglianza di risultato/arrivo. La prima, dunque, finisce soltanto per legittimare la tendenza alla crescente disuguaglianza interna alle nostre società, scaricando sui singoli individui le colpe dei “propri” fallimenti (lavoro precario, salari bassi, disoccupazione).

L’epilogo di tale ragionamento è che tutti i “giovani francesi dovrebbero voler diventare miliardari”. È solo la ferma volontà del singolo che rileva, astratta dai molteplici condizionamenti sociali.

Il disoccupato, dunque, non ha da prendersela che con sé stesso, perché «il punto non è che il ‘disoccupato’ non riesce a trovare un impiego, ma che egli non desidera lavorare per il salario che può ottenere sul mercato per quel particolare lavoro che sa e desidera svolgere» (ludwig von mises) o per aver fallito nell’investimento sul proprio “capitale umano”.

Sottesa a tale modello economico (tipicamente neoclassico) è la volontà – sostengono gli autori – di diffondere alcuni valori morali informati ad una precisa visione del mondo. Da un lato ci sarebbero i “lavoratori coraggiosi” disposti ad accettare un salario anche basso pur di lavorare ad ogni costo, e dall’altro ci sarebbero i “fannulloni” (ricordate i nostri Ministri?) che, allo stesso salario, preferiscono l’ozio.

La lotta alla disoccupazione, in quest’ottica, non può che trasformarsi in lotta contro i disoccupati.

Da tali brevi accenni si comprende agevolmente come l’agenda politica di Macron si inscriva nell’alveo del liberismo classico e neo, già bocciato clamorosamente dagli accadimenti degli ultimi decenni e, pur tuttavia, ancora vivido e dominante9.

Macron è riuscito ad imprimere una virata bonapartista alla politica francese, organizzata attorno al “partito del Presidente”, in grado di garantirgli una maggioranza all’Assemblea e nel Paese, nonché i mezzi per portare avanti il programma politico e di superare a monte le difficoltà tipiche dovute ai periodi di “coabitazione” tra presidenti e maggioranze parlamentari di diversi colori politici, strizzando continuamente l’occhio ai vari “poteri forti” disseminati nel tessuto sociale francese10.

Se sarà capace di portare a fondo la “rivoluzione liberista” nel cuore della Francia dipenderà molto anche dall’opposizione che troverà nelle piazze e nei luoghi di lavoro. Dalla capacità di organizzare un fronte di lotta che sappia ricomporre gli interessi dei lavoratori in una dimensione più ampia con tutti i subalterni.

Di contro, dinanzi alle sfide di una crisi senza precedenti che affonda le radici nella micidiale caduta del saggio di profitto11, sembrano deboli le pur pie proposte riformiste degli autori che auspicano politiche economiche e industriali che puntino sulla “rivoluzione verde” e combattano il riscaldamento globale. Per un capitalismo più umano che punti sulla cooperazione degli uomini piuttosto che sulla competizione tra essi, sulla qualità dei prodotti piuttosto che sulla quantità, sugli investimenti nell’economia reale piuttosto che nella speculazione finanziaria, sulle energie rinnovabili piuttosto che su quelle inquinanti. Il riferimento è evidentemente ai “30 gloriosi” anni del secondo dopoguerra. Ma in assenza delle condizioni interne (alti tassi di crescita e di profitto, spinte operaie, politica monetaria sovrana…) ed esterne (urss, sistema delle colonie, assenza di dumping salariale e fiscale promossi da nuovi competitor globali…) è ancora possibile immaginare un “compromesso” di classe che dia nuovo slancio al riformismo?

1 Già la Legge Macron – allorquando questi era Ministro del precedente Governo – aveva previsto un rafforzamento della contrattazione aziendale e l’introduzione del lavoro domenicale senza contropartite adeguate.

2 Si v. i commenti alla riforma pubblicati su Il Sole 24 Ore dell’01.09.2017.

3 Imporre al contratto (e dunque al salario) una dimensione aziendale, microscopica rispetto alla più ampia dinamica dell’intera classe sociale, vuol dire frantumare la classe stessa e minarne la solidarietà interna. Il contratto aziendale non soltanto altera i rapporti di forza, ma imprime una forte accelerata alla dinamica concorrenziale tra lavoratori. Su questi temi è ancora molto utile Pala G., Il salario sociale. La definizione di classe del valore della forza-lavoro, Napoli, Laboratorio Politico, 1995.

4 Numerosi studi hanno indotto da anni lo stesso Fmi a mettere in dubbio la correlazione positiva tra flessibilità del mercato del lavoro e incremento di occupazione. A Macron evidentemente devono essere sfuggiti. Per un resoconto aggiornato sul fallimento delle politiche di flessibilizzazione del mercato del lavoro nel produrre occupazione nel contesto italiano e un focus specifico sugli effetti del Jobs Act, si v. Fontanari C., Quattrociocchi L., ‘Una riforma del mercato del lavoro con il fiato corto’, in Critica marxista, n. 2/2017, pp. 29-42.

5 Si v. Cassese S., La nuova costituzione economica. Lezioni, Roma-Bari, Laterza, 2005 e Martufi R., Vasapollo L., Vizi privati… senza pubbliche virtù. Lo stato delle privatizzazioni e il Reddito Sociale Minimo, Napoli, Edizioni Media Print, 2003.

6 L’attacco al settore pubblico è una costante di tutti i programmi neoliberisti, finanche quelli applicati in regimi e modi di produzione ibridi come quello della Cina delle riforme denghiane. Sia consentito il rinvio a Borretti B., ‘L’attualità della Cina tra riforme economiche e nuova composizione di classe. Appunti’, in Proteo, n. 2/2008, pp. 72-77. Per un’analisi più ampia del fenomeno neoliberista e delle sue politiche economiche si v. Harvey D., Breve storia del neoliberismo, Milano, Il Saggiatore, 2007.

7 Per il testo integrale della lettera si v.: http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2011-09-29/testo-lettera-governo-italiano-091227.shtml?uuid=Aad8ZT8D.

8 Dardot P., Laval C., La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista, Roma, DeriveApprodi, 2013, p. 8.

9 Peck J., Theodore N., Brenner N., ‘Il neoliberalismo sta risorgendo? La supremazia del mercato in seguito alla Grande recessione’, in Postone M. (a cura di), Prospettive della Crisi Globale, Trieste, Asterios Editore, 2013, pp. 50-81, analizzano la capacità di rigenerazione dei processi di neoliberalizzazione, interpretati come «una tendenza storicamente specifica di ristrutturazione normativa volta al rafforzamento della disciplina del mercato ibrida, schematica e dallo sviluppo incostante» (pp. 56-7).

10 Dalla locale Confindustria alle lobby del diesel, come riportato dagli autori (pp. 97-101).

11 Si v. almeno Marx K., Il capitalismo e la crisi. Scritti scelti a cura di Vladimiro Giacché, Roma, DeriveApprodi, 2009.

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