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Song to song, di Terrence Malick

Da tempo, Terrence Malick, osannato e pluripremiato regista statunitense, sembra aver smarrito la strada. Opere come La sottile linea rossa, L’albero della vita o Il nuovo mondo, appaiono, alla luce delle nuove prove, quantomai distanti; confuse in un narcisistico bisogno autocitazionista e nei meandri di uno stile che si fa sempre più ampolloso, freddo, artefatto. In una parola, inautentico e privo di una reale esigenza espressiva. E “Song to song”, pellicola del 2017, conferma questa deriva.

Siamo, in pratica, di fronte ad un film dall’andatura stanca, vacuo, noioso, essenzialmente algido, quando non addirittura frivolo. Una pellicola di un manierismo esasperante, le cui immagini, seppur splendidamente fotografate da Emmanuel Lubecki, restituiscono l’idea di un catalogo di moda o di architettura, sullo sfondo di panorami urbani vuoti, quasi disincarnati, nella loro angosciante, solitaria, inutile e incontaminata ricchezza. Un film che coniuga, in un indigesto – e francamente incomprensibile – melange, la finta trasgressione dell’Adrian Lyne di 9 Settimane e 1/2; il torbido/grottesco di Orchidea Selvaggia; e la filosofia estetizzante, nonché artificialmente profonda, del nuovo “genio della lampada”, consacrato dalla critica mondiale mainstream, Xavier Dolan.

Un’ opera, insomma, votata al convenzionalismo dell’estetica postmodernista, baroccheggiante, eticamente decadente nella sua posticcia dimensione esistenziale, e sconfinante nella tautologica ripetizione del principio – inteso come inizio – anziché costruire, come vorrebbe, un’affascinante struttura circolare. Più che un Eterno Ritorno nietzschano, siamo, in pratica, alla presenza di una sfiancante ripetitività dell’immagine/linguaggio, sofisticata e sofistica.

I protagonisti – Ryan Goslin, Rooney Mara, Michael Fassbender, Natalie Portman, Cate Blanchet – pur bravi, evidentemente, nel rendere sul piano puramente tecnico ciò che il regista chiedeva loro – una significante presenza fisica e simbolica – offrono interpretazioni prive di qualunque intensità e coinvolgimento emotivo, finendo per essere funzionali, loro malgrado, allo stereotipo hollyiwoodiano dell’attore di richiamo, di aspetto gradevole ed utile principalmente al mercato.

D’altronde, i loro personaggi sembrano degli annoiati dandy piccolo-borghesi, un po’ depressi, che si muovono ai margini della scena musicale di Austin – città nella quale è ambientato il film – sospesi tra la ricerca di emozioni forti ed il desiderio di una stabilità interiore e relazionale. In tal senso, un iconico poster di Rimbaud, ad evocare maledizioni e dolori poetici qui inaccessibili, risulta a dir poco urticante, se non addirittura ridicolo.

Per concludere, un film inconsistente ed inconcludente, dove il tutto – e per tutto, intendo regia, prova d’attore, sceneggiatura, scenografia – viene racchiuso in una confezione elegante, al limite del calligrafismo. Una confezione dove la sospirata leggerezza aerea della regia si muta, purtroppo, nella fissità marmorea di un’ immagine, asfittica nella sua monumentale ricercatezza poetica; la agognata e raffinata densità della riflessione esistenziale, ad uno con l’atmosfera intimista, si condensa in un intellettualismo retorico e velleitario, raggrumato su una tavolozza di tinte fosche, ma solo di ovvietà. E l’analisi incisiva, quasi anatomica, delle umane contraddizioni – cui pure Malick ci aveva abituati – si perde nella forma esteriore della parola detta e svuotata di senso. Cinema, insomna, come pure esercizio di stile e artificio linguistico. Mi chiedo, pertanto, dove sia finito il Malick de La sottile linea Rossa.

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