Tenutasi mercoledì sera, e trasmessa su Rai 1, la sessantaquattresima edizione dei David di Donatello, presentata da un improbabile e quanto mai inadeguato Carlo Conti, ha visto trionfare, com’era d’altronde prevedibile, Dogman, di Matteo Garrone. Il film sul canaro della periferia romana, interpretato da uno straordinario Marcello Fonte, si è portato a casa, infatti, ben nove e meritatissime statuette. Tra cui quella simbolicamente fondamentale – perché denuncia la tendenza culturale in voga – di miglior film.
Or bene, chi scrive nulla intende togliere a Dogman e a Garrone. Il regista romano, autore di pellicole come L’imbalsamatore, Primo amore, Reality, ha una cadenza narrativa, un’originalità linguistica nell’approccio a tematiche complesse, un tratto espressionista sospeso tra la fiaba e il realismo, tra l’incubo e l’oscura tensione al godimento mortifero dell’umano inconscio, che senza dubbio spiazzano, affascinano, turbano, sgomentano.
Personalmente, ritengo Garrone capace come pochi di scendere tra i cunicoli bui del disagio esistenziale di cui è spesso preda l’individuo contemporaneo. Un individuo esiliato da sé stesso, vittima di una periferia psichica ancor prima che urbana, della quale Garrone riesce, con intelligenza e rara attitudine all’abrasione morale, a rivelare gli inquietanti paesaggi di orrorifica tenerezza e di agghiacciante solitudine, là dove più acuta e lacerante si fa l’emarginazione, la paranoia, la follia.
Ciò premesso, però, ritengo che il David di Donatello doveva – ripeto: doveva – andare a Sulla mia pelle. La pellicola diretta da Alessio Cremonini – cui pure è stato assegnato il David come miglior regista edordiente – e magnificamente interpretata da Alessandro Borghi (premiato col David per la miglior interpretazione) ispirata alla tragica vicenda di Stefano Cucchi. Il giovane tossicodipendente romano, barbaramente picchiato dai Carabinieri e assassinato, oltre che materialmente dagli sbirri, dalla struttura carceraria e dalla indecente, apatica, inadeguatezza del personale sanitario e medico che avrebbe dovuto curarlo.
E il David doveva essere assegnato a Sulla mia pelle per un motivo molto semplice: perché il film ha avuto il coraggio di raccontare quello che, oggi, sembra dover rimanere coperto sotto la coltre maleodorante dell’omertà. Racconta la violenza, in tutte le sue subdole declinazioni, esercitata dallo Stato e dalle sue istituzioni – Carabinieri, Polizia, Magistratura, strutture detentive e classe medica – ai danni dei cittadini, specie se appartenenti ai ceti popolari o se marchiati dall’infamante stigma di una presunta diversità sociale.
Dunque sì, il film doveva essere premiato per la sua alta valenza politica, in tempi non certo felici per un paese attraversato da pulsioni razziste, classiste, escludenti, elitarie, tendenti a palesare tutta la violenza viscerale di quella maggioranza silenziosa e omertosa, che non ha certo l’intenzione, non dico di mostrare compassione – che invece lascerei ai chierici – ma neanche di voltarsi a guardare verso qualcuno che avrebbe bisogno di una parvenza di solidarietà.
Un paese, l’Italia, dove l’individualismo e l’egoismo neoliberista si declinano, insomma, nelle forme più bieche dell’aggressione, della viltà, del dominio predatorio, dello stupro dell’anima – oltre che del corpo – e della negazione del diritto all’esistere di chi non è funzionale al sistema o, peggio, da esso si allontana. Una colpa che va prontamente e quanto più duramente punita!
Quel David sarebbe stato, allora, un atto dovuto, da parte del Cinema e della corporazione degli intellettuali, che tra l’altro nulla avrebbe inficiato anche sul versante della mera considerazione estetica e formale.
Sulla mia pelle, infatti, non è solo un film eticamente e politicamente importante, ma è anche un’opera di considerevole fattura estetica, e di pregevole qualità visiva, oltre che capace di trasferire, sul piano delle immagini, l’assunto filosofico e direi altamente democratico che sottende il film. Un assunto di denuncia e di libertà. Il che, non è certo cosa da poco, in un cinema italiano asfittico e deprimente sul piano dei contenuti.
Una pellicola, quella di Cremonini, come ebbi a scrivere proprio qui su Contropiano, «agghiacciante e struggente, intensa e tragica; furente, come uno squarcio su una tela di Brugel; urticante e penetrante, come una spada che buca la carne e rompe le vene; mortificante, essenziale, incazzata, lucida, anti retorica, coraggiosa. Ma soprattutto una pellicola necessaria, sugli ultimi giorni di vita di Stefano Cucchi». Sulla mia pelle disegna infatti il Calvario di un Cristo contemporaneo e capovolto, perso nelle lande, ghiacciate e indifferenti, della violenza. Violenza impersonale della Legge. Violenza corporale dello Stato.
Ci sarebbe voluto, quindi, un atto di coraggio intellettuale da parte della giuria e dell’Accademia del David. Un atto di coraggio e di sfida ad un potere e ad un sedicente stato democratico, sempre più elitari e classisti; sempre più securitari e repressivi; sempre più violenti verso la marginalità sociale e sempre più avvezzi all’esclusione di coloro che non sono ritenuti compatibili con il sistema. Un Potere ed uno Stato fondati sulla punizione, la vendetta e la galera. Un Potere ed uno Stato dove la condanna morale del peccatore e del reo può essere estinta solo tramite la genuflessione ipocrita di questi all’Istituzione legale e totale.
Un’entità quasi metafisica, dispensatrice di indulgenze attraverso i suoi più fedeli sacerdoti, laddove la vocazione autoassolutoria dalla trasgressione e violazione degli altrui diritti, sembra promanare addirittura da una Legge superiore. Quella di una Democrazia Assoluta, fondata su un’investitura divina che consente allo Stato – e a chi ne gestisce l’apparato ideologico – di percepirsi e comportarsi come un padre/padrone, una divinità intangibile e infallibile, nel suo delirio di autoreferenziale appartenenza di casta!
Purtroppo, gli intellettuali e gli artisti italiani confermano, invece, ancora una volta, la loro untuosa subalternità al Sistema, allo Stato, al Potere, che li protegge e li coccola fintantoché non si spingono oltre un compromissorio patto di non aggressione, non consentendosi di esercitare fino in fondo quel pensiero critico che pure dovrebbe essere la loro prerogativa. Mentre riaffermano così, quasi pervicacemente, la loro vocazione al conformismo e la loro adesione ad una cultura gastronomica – per dirla con Bertolt Brecht – ancorché linguisticamente raffinata, densa di significati e di risvolti sociali, non priva di poesia e pur capace di mordere politicamente. Come in Dogman, appunto.
Il David a Sulla mia pelle avrebbe pertanto rappresentato – secondo il mio, come sempre, opnabilissimo parere – una salutare inversione di tendenza e un segnale di risveglio delle (da tempo) assopite coscienze. Un segnale seppur minimo, lanciato dal cinema e dall’intellighenzia italiani, alla volta della sempre più reazionaria e conformista ideologia dominante all’interno della nostra penisola.
Seppur va evidenziato come, in una più vasta dimensione globale, ci si scontri con una sovrastruttura ideologica, oserei dire ormai totalitaristica, che plasma le ricche società occidentali a modello neoliberista, a composizione liquida – come diceva Baumann – e linguisticamente/simbolicamente talmente polisemiche da smarrire anche il senso profondo di sé e della stessa cognizione di una realtà a-finalisticamente reinterpretabile.
Una sovrastruttura totalitaristica di cui, riplasmandone il concetto – espresso da Walter Benjamin in L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica – sui rapporti di produzione e di potere interni alle nostre società, possiamo senz’altro affermare che agisca sull’Arte, i suoi codici e le sue strutture linguistico/semantiche, recidendone il legame autentico, profondo, con la vita quotidiana e con le condizioni concrete dell’esistenza, alterandone, perciò, la percezione da parte delle persone comuni.
I totalitarismi, infatti – affermava Benjamin – utilizzano l’esperienza artistica come strumento di controllo delle masse, attraverso un'”estetizzazione della politica”. Mentre più nuclearmente, diremmo noi anche recuperando Debord, che nelle società contemporanee, più complesse e penetrate da un altissimo tasso di pervasività mediatica e comunicativa, nonché da una composizione proteiforme di linguaggi, codici, enunciati, messaggi, visioni, è “l’estetizzazione dell’ideologia del Capitale” a farsi esperienza artistica.
L’esperienza estetica, insomma, viene strumentalizzata come forma di comunicazione non razionale ma carismatica, individualistica, eroica, fondata sul protagonismo purché sia, anche in senso negativo, per coinvolgere e massificare la folla.
Sulla mia pelle sembra andare, invece, in una direzione diametralmente opposta, ristabilendo proprio quel legame autentico, profondo, con la vita quotidiana e con le condizioni concrete dell’esistenza, di cui si parlava prima. Più che all’estetizzazione e all’emotività, mira ad un sussulto straziante dell’intelligenza e della coscienza, attraverso cui possa costruirsi, auspicabilmente, pensiero critico. Un film in sottrazione, quello di Cremonini, mai enfatico ed essenzialmente anti-retorico. Anche per questo andava premiato con la statuetta per il Miglior film. È mancato, invece, ancora una volta il coraggio.
Dogman, dunque, ha senz’altro meritato. Ma io ho paura di morire democristiano!
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