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La guerra agli archivi e alla cultura palestinese da parte di Israele

Questo 9 giugno si celebra l’International Archives Day. Magari un giorno del genere è conosciuto e considerato importante solo da archivisti e storici, che ovviamente lavorano attraverso gli archivi, anche se l’obiettivo di una tale ricorrenza annuale è proprio quello di far comprendere l’importanza dei complessi documentari.

Quest’anno, la giornata deve essere occasione per un ragionamento sul ruolo degli archivi nel conflitto arabo-israeliano, affinché si garantisca la possibilità di procedere alla libera ricerca storica. Perché una cosa che passa spesso in sordina è l’attenzione sionista agli archivi, con fini eminentemente politici.

Bisogna innanzitutto far presente che l’archivio non è semplicemente la raccolta di tracce lasciate dal passato, ma è parte integrante della storia che viene scritta ogni giorno. Non è il caso qui di sciorinare la teoria archivistica, che è però bene ricordare che non ha nulla a che vedere con le biblioteche.

Per comprendere a pieno il senso di un archivio per il presente si possono fare però due esempi. Uno è abbastanza datato nel tempo, l’altro meno. Il primo è la distruzione a cui andarono incontro molti documenti attestanti i diritti feudali al tempo della Rivoluzione Francese.

Quello più recente è la de-classificazione che lo scorso agosto ha riguardato alcuni rapporti governativi della Casa Bianca all’epoca del golpe di Pinochet in Cile. Le responsabilità degli USA su quella fase della storia cilena sono ormai assodate.

In un comunicato statunitense era specificato che “la declassificazione dei documenti è un processo complesso e multi-agenzia in cui il governo degli Stati Uniti tiene conto di numerosi fattori, tra cui la sicurezza nazionale, la protezione della fonte, ed eventuali rischi e benefici derivanti dalla divulgazione di informazioni specifiche”.

I due esempi e le parole del comunicato appena citato fanno comprendere come l’archivio e la possibilità di nascondere, esaltare, manipolare alcune fonti del passato assumano un ruolo importante nello sviluppo di narrazioni culturali egemoniche, in grado di giustificare un determinato ordine politico.

Compreso che l’archivio ha un uso politico, tenuto presente che l’opera dello storico è pur sempre un’interpretazione e perciò, per quanto sostenuta da ampie serie documentarie, è comunque frutto di una valutazione su quelli che spesso sono poco più che indizi del passato, possiamo osservare come Tel Aviv, consapevole di questo, abbia agito pesantemente in questo ambito.

Un documentario del 2012, The Great Book Robbery, racconta di come al momento della Nakba, una gran quantità di documenti e manoscritti, oltre a 70 mila libri, sono stati trafugati dalle forze israeliane. Sono oggi proprietà esclusiva della Biblioteca Nazionale di Israele.

Molti sono accessibili, ma va sottolineato che alcune migliaia sono classificate come Abandoned Property. Tale definizione è usata per millantare un’attenzione israeliana alla ricchezza culturale abbandonata dai palestinesi che se ne sono andati nel 1948, quando invece rappresenta un vero e proprio saccheggio operato ai danni di coloro che furono costretti a fuggire dalle proprie case.

Ma non è solo una questione di appropriazione degli archivi altrui. Nel 1982 Israele invase il Libano e confiscò le carte dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), oltre che di diversi altri istituti e persino i video del Palestine Film Unit.

Nell’articolo The Paper Trail of a Liberation Movement, la storica Hana Sleiman mostra come i materiali sottratti all’OLP siano stati poi utilizzati contro l’OLP stesso. È interessante il lavoro portato avanti su di essi già nel 1983 dallo storico Raphael Israeli, dell’Università Ebraica di Gerusalemme.

Egli selezionò e organizzò i documenti per far apparire l’OLP come “una organizzazione terroristica e l’esercito israeliano come il liberatore del sud del Libano”.

L’organizzazione palestinese appariva anche come parte di una rete di “attori criminali della scena internazionale, enfatizzandone i legami col Blocco Orientale, con i paesi arabi e islamici, ed altri paesi che ‘permettono a gruppi sovversivi di portare avanti le proprie operazioni’”.

In pratica, appoggiandosi a quella che quantomeno era una omissione di una larga parte di ciò che emergeva dall’archivio dell’OLP, Israele legittimava la propria guerra. E lo faceva affermando che erano i documenti dell’OLP stesso a mostrarne il carattere terroristico.

Tornando a tempi più recenti, Lior Yavne, direttore dell’istituto di ricerca Akevot, ha reso noto alcuni anni fa come il ministero della Difesa israeliano si impegni direttamente nell’impedire l’accesso a molti documenti.

Ha raccontato al Manifesto che, per raggiungere questo obiettivo, succede che alcune persone “si presentano come funzionari degli archivi di Stato ma in realtà non lo sono. Riteniamo che facciano parte degli apparati di sicurezza, più precisamente del Malmab, un dipartimento speciale della Difesa”.

I documenti che si vogliono far sparire spesso non rappresentano alcun pericolo per la sicurezza nazionale (il che renderebbe comprensibile il coinvolgimento della Difesa). Essi hanno però un grande portato storico e politico.

In particolare, vi è un documento del 30 giugno del 1948, di cui l’Akevot è entrato in possesso, in cui l’intelligence sionista parla della Nakba. In esso si legge che “l’impatto delle azioni militari ebraiche sulla migrazione è stato decisivo, in quanto circa il 70% degli abitanti ha lasciato le proprie comunità ed è emigrato in conseguenza di queste azioni”.

La giornalista Hagar Shezaf intervistò poi Yehiel Horev, l’ex capo del Malmab. Egli spiegò che la sua unità doveva fare sparire documenti, in modo tale da rendere impossibile ricostruire eventi passati e minare la credibilità delle ricerche che su quei documenti si erano basate.

La prosecuzione della pulizia etnica cominciata con la Nakba continua oggi anche nella distruzione degli archivi di Gaza. Il 29 novembre 2023, gli Archivi Centrali di Gaza sono stati sventrati dalle bombe israeliane, perdendo almeno un secolo e mezzo di testimonianze sulla vita dei palestinesi.

Il primo febbraio la rete Librarians and Archivists with Palestine (LAP) ha pubblicato un rapporto sulle distruzioni provocate da Tel Aviv ad archivi, biblioteche e musei nella Striscia. Si tratta solo di uno studio preliminare, ma è già decisamente lungo.

Tornano in mente le immagini dell’Isis che abbatteva alcune delle più belle meraviglie archeologiche del Medio Oriente. Il solito doppio standard occidentale rende oggi difficile sentire le stesse condanne per l’opera distruttiva portata avanti da Israele.

Va però detta un’ultima cosa. Per quanto archivi e monumenti del passato possano avere grande valore artistico e scientifico, questo loro statuto non sopravanza le ragioni della storia in movimento, che non si preoccupa dello storico del futuro.

Per dirla in maniera meno pomposa, per quanto allo storico possa dispiacere non avere alcuni archivi feudali, che sarebbero stati di certo utilissimi per le sue ricostruzioni, la Rivoluzione Francese, per essere tale, quegli archivi li doveva distruggere.

L’assenza di documentazione è di per sé una fonte, lo storico studia la storia per parlarci di problemi del presente attraverso di esse. Altrimenti scade in un rapporto con ciò che il passato ci ha lasciato da erudito conservatore, che ne oblitera il valore attuale tanto quanto gli esplosivi.

Il nodo fondamentale, per una ricostruzione metodologicamente corretta dal punto di vista storiografico, è ricordarsi che quel che abbiamo – e quello che non abbiamo – negli archivi è, in maniera più o meno diretta, il risultato di scelte politiche, tolti i danni fatti da tragedie come terremoti, eruzioni o altre calamità naturali.

Possiamo lamentarci, a livello personale, delle statue distrutte dall’Isis, ma per lo storico la loro distruzione è essa stessa una fonte, almeno finché si potrà tenere traccia di questi eventi. Lo stesso vale per i documenti fatti sparire dagli uomini di Tel Aviv: il tema non è dispiacersi della mancanza di alcuni di essi, ma interpretare la loro mancanza come volontà politica di un soggetto storico.

E in occasione della giornata internazionale degli archivi, non possiamo che ricordare come la volontà politica di Israele sia quella di rendere impossibile la ricostruzione storiografica della loro occupazione e dell’esistenza del popolo palestinese. Un’altra faccia del genocidio che stanno perpetrando.

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