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Dalla perestrojka sovietica alle sanzioni occidentali alla Russia

Per alcune sue recenti dichiarazioni a proposito della Crimea, il Servizio di sicurezza dell’Ucraina ha emesso un divieto di ingresso nel paese per 5 anni nei confronti di Mikhail Gorbačëv. Pochi giorni fa, l’ex primo (e ultimo) presidente dell’Urss aveva detto che, sulla questione della Crimea, avrebbe agito allo stesso modo di Vladimir Putin: “Ho sempre sostenuto la libera espressione della volontà delle persone”, aveva detto Gorbačëv in un’intervista al Sunday Times “e la maggior parte della Crimea desiderava unirsi alla Russia”.

Come è noto, la questione della riunione della penisola alla Russia ha costituito il pretesto per le sanzioni occidentali nei confronti di Mosca, ribadite ora al G7 in Giappone e che certamente costituiscono una discreta fetta dei problemi economici attuali della Russia, ma solo una fetta.

Nikolaj Arefev scrive su Sovetskaja Rossija che le macchinazioni statunitensi messe in atto a suo tempo per la liquidazione dell’Urss costituiscono solo un’appendice di quanto sta facendo oggi lo stesso governo russo per affossare l’economia del paese. “Hanno distrutto l’Unione Sovietica e li abbiamo lasciati fare”, dice Arefev; “Ora si occupano della Russia: crisi, sanzioni, fuga di capitali a Ovest: la quinta colonna sta continuando a lavorare per lo smembramento del paese”. La piena dipendenza del bilancio dagli introiti energetici, con il gioco dei prezzi sul mercato mondiale del petrolio, obbliga a intervenire con manovre preventive. Invece di incrementare la domanda di consumo, scrive Arefev, la si restringe e “i liberali di scuola gajdariana (il “riformatore” delle terapie d’urto eltsiniane) suggeriscono di svendere le ultime risorse statali e con ciò assestare il colpo definitivo allo stato”. Secondo il Comitato statale per le statistiche, a inizio 2013, il 27% del capitale sociale complessivo di società russe era in mano straniera; tale quota raggiunge il 43,7% nelle imprese estrattive, il 33,6% nell’industria manifatturiera e l’89,6% nel commercio. Nel complesso dell’economia russa, la quota in mano a imprese straniere è del 33,9%. Nel 2016, continua Arefev, si propongono al capitale straniero altre porzioni dell’industria russa, compresa quella militare e cosmica, oltre al settore delle prospezioni geologiche o a quello della sicurezza informatica: “ancora non si parla del Cremlino!”, sospira Arefev. Tra i maggiori soggetti stranieri invitati dal governo alle privatizzazioni figurano le banche Morgan, City Group, Goldman Sachs, Credit Swiss, Deutsche Bank, Unicredit, ecc. Eppure, sostiene Arefev, “non ci sarebbe bisogno di tali vendite: la disponibilità liquida attuale è di 57 trilioni di rubli, a fronte di un bilancio di meno di 13 trilioni, che potrebbe essere portato a 23 trilioni introducendo l’imposta progressiva sul reddito, il monopolio su alcol e tabacco e statalizzando i settori energetici: una somma che potrebbe essere investita nell’economia. Al contrario, 7 trilioni (97 miliardi di $) sono fermi nelle obbligazioni USA e il flusso in tale direzione sta continuando, affinché con quei soldi le banche statunitensi acquistino imprese russe”. Al tempo stesso, con tasse e tariffe, si spremono soldi ai lavoratori. “Avevano promesso 25 milioni di posti di lavoro: ne hanno tagliati 5,5 milioni. Parlavano di aumento del tenore di vita: hanno tagliato salari e pensioni, aumentando i prezzi del 12% e quelli alimentari del 20,8%”. Se la percentuale ufficiale di persone al di sotto della soglia di povertà è di circa il 14% (quasi 19 milioni di persone), considerando gli altri 30 milioni che arrivano a malapena a fine mese, i poveri rappresentano quasi il 35% della popolazione. Si chiudono complessi industriali, mentre l’import nel settore dell’industria pesante è del 70%; nelle attrezzature energetiche del 60%, nelle macchine agricole dal 50 al 90%, nell’aviazione civile del 80%. Questo quadro si riflette nei sondaggi condotti tra la popolazione su quale sia il pericolo percepito oggi come principale per il paese: per il 44% degli intervistati (era il 36% nel 2015) sono “i problemi economici, la frenata del ritmo di crescita, l’aumento del debito pubblico”. Una situazione simile, è il giudizio generale, non si vedeva dagli anni ’90.

Ma, come si era arrivati ai “malvagi ’90”? Ancora Arefev sintetizza il nucleo centrale dei piani messi a punto subito dopo la fine della Seconda guerra mondiale dal primo direttore della CIA, Allen Dulles, relative all’Unione Sovietica: “Episodio dopo episodio si consumerà l’estinzione definitiva e irreversibile della sua identità. Sradicheremo la natura sociale di arte e letteratura; disabitueremo artisti e scrittori a occuparsi dei processi che si svolgono tra le masse. Letteratura, teatro, cinema si ridurranno a raffigurare e glorificare i più vili sentimenti umani. E solo molto pochi capiranno cosa stia succedendo. Ma, anche questi, troveremo il modo di calunniarli e dichiararli rifiuti della società. Estirperemo le radici spirituali, distruggendo le basi della morale popolare”. Ed è accaduto davvero, scrive Arefev, secondo i piani di Dulles: “Seminando il caos, impercettibilmente sostituiremo i loro valori, con altri, falsi e faremo in modo che credano ad essi. Come? Troveremo persone che la pensano come noi, nostri alleati dentro la Russia stessa”.

Quel processo, avviato negli anni ’50, aveva imboccato la dirittura d’arrivo a metà anni ’80. Nel febbraio 1986, il XXVII Congresso del PCUS gettava le basi della perestrojka. Scrivendo oggi su Sovetskaja Rossija, uno dei maggiori dirigenti del partito sovietico tra il 1985 e il 1990, Egor Ligačëv, si dice tuttora convinto della legittimità delle scelte allora adottate (nonostante ne sia risultato successivamente “vittima”) per “riformare e perfezionare il sistema sovietico”, di contro alla visione di chi riteneva il sistema “non riformabile e, quindi, da doversi cambiare”. Il perfezionamento avrebbe dovuto realizzarsi riequilibrando la crescita produttiva, con la modernizzazione degli impianti – per cui si stanziavano cifre più che doppie rispetto all’insieme dei 40 anni precedenti – e colmando la distanza con la produttività del lavoro occidentale, ampliando la partecipazione dei lavoratori alla direzione dello stato. Ma poi, scrive Ligačëv, mentre nei primi anni della perestrojka si mettevano in cantiere nuove abitazioni, ospedali, scuole, oggi chiudono i battenti migliaia di istituti scolastici e ospedali. Istruzione, sanità, casa, centri sportivi e sociali gratuiti assicurati a tutti, sono oggi sostituiti da “un processo di estinzione della popolazione e dal crescente asservimento del paese”.

Già nella “seconda fase della perestrojka”, continua Ligačëv, si era avviata “la disorganizzazione dell’economia, del mercato di consumo, la liquidazione del PCUS e dell’Urss. Ciò fu reso possibile dall’indebolimento dello stato sovietico nell’economia, dall’allontanamento del partito comunista dalle scelte politiche, dalla fine della base pianificata dello sviluppo economico. I redditi monetari crebbero del 60% tra il 1985 e il 1990, mentre la produzione di beni di consumo del 19%, il che svuotò gli scaffali dei negozi”. A fianco di un “avventurismo economico”, in varie parti del paese e addirittura nell’ambito del Soviet Supremo, sorsero frazioni antisocialiste e separatiste, guidate da membri del partito. All’inizio del 1990 Ligačëv metteva in guardia il partito: “O si conserverà e svilupperà su base socialista quanto costruito dalle generazioni precedenti, oppure l’Unione Sovietica cesserà di esistere e si formeranno decine di staterelli con altri sistemi sociali”. La risposta fu che, di lì a due mesi, Ligačëv non faceva più parte del Politbüro. “Si accelerò l’abbandono dei principi ideologici e organizzativi del partito comunista, si moltiplicarono fazioni, gruppi, piattaforme e si eliminò il ruolo guida del partito comunista. Al vertice delle strutture di partito e di governo andarono carrieristi,  separatisti e nazionalisti. Molti di essi sono diventati miliardari grazie al saccheggio delle ricchezze del popolo, allo sfruttamento e all’impoverimento di milioni di lavoratori”, scrive oggi Ligačëv. Durante la perestrojka “non si lottò a sufficienza contro il nazionalismo. La perestroika fu sconfitta, perse l’orientamento socialista e democratico e si concluse con il colpo di Stato controrivoluzionario del 1991, lo smembramento dell’Unione Sovietica, la restaurazione del capitalismo e il potere della grande borghesia e dei vertici burocratici statali. La lezione principale della perestrojka è quella di non permettere il frazionismo nel Partito Comunista, nel suo nucleo dirigente e aprire la strada a carrieristi politici, rinnegati”, conclude Ligačëv.

Ripensando alla perestrojka, all’incenso profuso dall’occidente a piene mani a onore e gloria del suo profeta e portabandiera, Gorbačëv, che ne sanzionò lo showdown finale decretando autocraticamente lo scioglimento del CC del PCUS, dopo essersi dimesso dalla carica di Segretario generale nell’agosto 1991; ripensando a quel referendum con cui, nel marzo 1991, con la gorbacioviana “libera espressione della volontà delle persone”, la maggioranza dei cittadini sovietici si era espressa per il mantenimento dell’URSS, liquidata invece a tavolino dal trio Eltisn-Kravčuk-Ščuščkevič, viene da chiedersi se le grandi linee del canovaccio fossero davvero state scritte da tempo da un’abile regia, cui gli attori apportarono solo un proprio personale contributo come quello, per dirla con l’ex cancelliere tedesco Helmut Kohl, di aver svenduto “la DDR al prezzo di un panino!”.

 

Fabrizio Poggi

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