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Russia: a chi fanno gola le privatizzazioni?

Il governo russo ha deciso di procedere alla privatizzazione di parte delle quote azionarie di imprese statali: ufficialmente per cercare di raddrizzare la difficile situazione di bilancio (mancano oltre 2 trilioni di rubli), dovuta più che altro alla congiuntura dei prezzi dei prodotti energetici, principale voce delle entrate russe. A ciò è legata anche la scelta di rivedere più volte il bilancio di previsione, in ragione della continua altalena al ribasso del prezzo del petrolio; così che la dipendenza del budget statale dai petrodollari (invece di basarsi su fonti interne scaturenti da industrializzazione e modernizzazione delle grosse imprese statali), rischia di generare una spirale disastrosa che trascini anche la Russia “nello tsunami della seconda ondata della crisi mondiale”, come ha dichiarato a Sovetskaja Rossija l’ordinario di Finanza internazionale Valentin Katasonov.

Tra i pacchetti azionari di proprietà statale delle maggiori imprese candidate alla vendita, ci sarebbero quelli di Rostelekom (principale operatore russo per telefonia, internet e canali tv a pagamento), Transneft (monopolista per il transito di prodotti energetici attraverso Russia e paesi della CSI), Rosneft (la più grossa impresa pubblica mondiale per volume di estrazione petrolifera: il piano prevede il passaggio del controllo statale dal 69,1% al 50% + una azione), Bašneft (una delle maggiori imprese petrolifere del paese; nel Consiglio di direzione siedono già oggi vari stranieri, ex manager Shell, ecc. Le quote da privatizzare, come quelle di Rosneft, potrebbero essere vendute anche a investitori non russi), Aeroflot (una delle compagnie aeree più vecchie del mondo), Sovkomflot (con una flotta di 1,6 milioni di tonnellaggio, è uno dei leader mondiali per il trasporto marittimo di prodotti energetici). Ma nell’elenco ci sarebbero anche le Ferrovie Russe, AlRosa (presente in 10 regioni russe e 9 paesi, tra cui Cina, USA, Israele, Dubai, Angola: estrae il 97% dei diamanti della Russia e il 27% di tutto il mondo) e RusGidro, la terza al mondo nel settore, per potenza idroenergetica installata.
Il piano triennale delle privatizzazioni era stato approvato nel 2013 e, oltre alle imprese sopra rammentate, si consideravano anche gli aeroporti internazionali di Vnukovo e Šeremetevo, in parte già privatizzati nelle strutture logistiche e commerciali, con il controllo passato in mano di offshore straniere. Secondo la presidente di Rosimuščestvo (le proprietà statali russe) Olga Dergunova, per il 2016 l’Ente prevede però di privatizzare il solo Sovkomflot, da cui dovrebbe ricavare circa 12 miliardi di rubli. Ma pare che dalle vendite del 2014 si siano ricavati appena 8 miliardi di rubli e addirittura 5 miliardi da quelle del 2015.
Il Ministro delle finanze, Anton Siluanov, ha detto di non ritenere possibile rinviare oltre la privatizzazione e che si prevede di ricavare dalla vendita 1 trilione di rubli in due anni: una cifra irreale, hanno dichiarato a Interfax gli analisti della ING Wholesale Banking, uno dei maggiori istituti finanziari stranieri presenti in Russia. Da parte sua, il Ministro dello sviluppo economico, Aleksej Uljukaev, ha ammesso che le condizioni in cui si procede oggi alle privatizzazioni non sono particolarmente favorevoli, anche perché “nel 2014-2015 il mercato ha continuato a scendere; noi attendevamo quando la tendenza si sarebbe invertita. Oggi ci siamo resi conto di non poter aspettare oltre. La situazione del bilancio è critica, la generale turbolenza dei mercati finanziari non dà ragione di attendersi un recupero”. Ma la privatizzazione va avanti, pur se non nelle “condizioni brillanti” – secondo Uljukaev – in cui furono condotte le vendite negli anni 2011, 2012 e 2013 e pur se Vladimir Putin tiene a sottolineare “che il pacchetto di controllo delle imprese a partecipazione statale deve essere conservato nelle mani dello stato, perlomeno oggi”.
Ciò significa, ad esempio, che per l’Aeroflot, il cui pacchetto è oggi statale al 51,7%, non si debba scendere al disotto del 50% più 1 azione. Per quanto riguarda la Cassa di risparmio – il cui direttore, Gherman Gref, si pronuncia per la sua piena privatizzazione – un’ulteriore vendita delle quote di proprietà della Banca Centrale, la porterebbe fuori del controllo statale: Putin e la presidente della Banca Centrale, Elvira Nabiullina, hanno quindi assicurato che non si prevede tale vendita nell’immediato. Per il secondo istituto del paese, la Banca per il Commercio estero, già nel 2013 il controllo statale era sceso dal 75,5% al 60,9%. Ma, ad esempio, per la “Imprese Granarie Riunite”, già oggi lo stato detiene solo il 50%+1 azione e l’azienda rientra nel programma di privatizzazioni 2014-2016. In ogni caso, ha detto Putin, “i nuovi proprietari devono rientrare nella giurisdizione russa ed è inaccettabile il trasferimento in zone grigie o quote offshore o nelle mani di azionisti dissimulati”; ma, soprattutto, non si deve vendere sottoprezzo. D’altronde, nota Gazeta.ru, vendere oggi quote statali a prezzi 2-3 volte inferiori al periodo ante-crisi, sarebbe un suicidio politico, in vista delle elezioni alla Duma del prossimo settembre; pare dunque che il governo pensi di attendere il periodo tra settembre e dicembre. L’importante, però, è comunque privatizzare. E chi può permettersi esborsi di miliardi di rubli?
Parlando del “chi beneficerà delle privatizzazioni”, scrive ancora Gazeta.ru, il consigliere presidenziale Sergej Glazev si interroga: “saranno gli oligarchi? Saranno gli speculatori finanziari che, con la caduta del rublo, il deprezzamento degli introiti delle imprese e l’impoverimento dei cittadini, hanno razziato un’immensa posta alla borsa di Mosca, pari a circa 50 miliardi di $?”. Dollari che ora esigono di essere investiti: ecco che quindi si riapre il piano delle privatizzazioni. Non prima però, nota Glazev, “di aver sanato, a spese del bilancio statale, banche e imprese in perdita”. Nulla di nuovo anche in questa parte di mondo capitalistico.
Intanto, a metà gennaio, secondo il servizio russo della Reuters, “il basso prezzo del petrolio ha costretto il governo a rinunciare alla indicizzazione delle pensioni secondo l’inflazione reale, a requisire per la terza volta i fondi pensionistici, confiscare i proventi aggiuntivi dei petrolieri”, non indicizzare i salari nel settore pubblico e tagliare le spese per l’assistenza alla maternità. Questo perché il bilancio di previsione 2016 era stato stilato partendo da un prezzo medio annuale del greggio Urals di 50$, un corso medio di 63 rubli per 1 dollaro e una crescita economica di +0,7%; in realtà il dollaro continua a oscillare tra i 76 e gli 80 rubli, il barile di Urals si assesta sui 28 $ e la crescita economica negativa varia tra -0,5 e -2,5%. E la Banca Centrale non prevede alcuna crescita per i prossimi sei mesi, un ulteriore indebolimento del rublo e un conseguente aumento dei prezzi al consumo.
Dunque, scriveva Komsomolskaja Pravda a inizio gennaio, ci sono serie possibilità che l’80% dei russi si ritrovi in uno stato di “povertà cronica” nel giro dei prossimi due anni. Secondo il giovane economista Vladislav Žukovskij, a ciò porterebbero sia la crisi, “la più grave in Russia dalla guerra civile”, sia la politica economica del governo. A parere di Žukovskij, l’assenza di prospettive di aumento del prezzo del petrolio, potrebbe condurre in un vicolo cieco un’economia “feudale-oligarchica basata sulle materie prime; un tipo di capitalismo da borghesia offshore-compradora nella forma primitiva dell’accumulazione originaria del capitale”. E i problemi non sono cominciati ieri, aggiunge Žukovskij, ma “sono la continuazione naturale di quel modello “liberale” che stiamo predicando da 20-25 anni”. Di contro, l’economista capo dell’Istituto per Borsa e Gestione, Mikhail Beljaev, giudica la situazione diversa da quella degli anni ’90, allorché “economia e scienza venivano distrutte, perché ciò era vantaggioso per l’Occidente”. Secondo Beljaev oggi si stanno sviluppando settori di export diversi da gas e petrolio, come ad esempio cereali, bestiame e lo stesso complesso militare-industriale.
Interfax riporta invece l’opinione di vari economisti che, quantomeno, dubitano dell’opportunità di procedere alle privatizzazioni delle imprese petrolifere, quando il prezzo del greggio è così basso (attorno ai 30 $). Ma la domanda è ancora: a chi fanno gola le privatizzazioni? Non pochi, a dispetto dei “limiti” posti da Vladimir Putin, ritengono probabile la partecipazione di capitali stranieri alle privatizzazioni e giudicano quasi sicuro un rientro in patria di capitali russi privati. Andrej Poliščuk, della Raiffesein Bank, reputa verosimile una “deoffshorizzazione” di capitali appartenenti a magnati russi, anche in ragione della appetitosa svalutazione del rublo: ad esempio, Mikhail Fridman (con un patrimonio personale di circa 15 miliardi di $, secondo Forbes 2015 è il 2° russo più ricco – anche se è nato in Ucraina ed é cittadino israeliano – controlla “Alfa-Grupp”, il più grosso gruppo finanziario privato russo) comprando azioni di Rosneft potrebbe tornare a controllare la TNK-BP, il 100% delle cui azioni era stato acquistato nel 2013 proprio da Rosneft. Secondo Poliščuk, a Rosneft potrebbero essere interessate anche compagnie cinesi e indiane, oltre a Surgutneftgaz (la 3° impresa russa per volume di estrazione del petrolio nel 2014) di Vladimir Bogdanov.
In ogni caso, è chiaro come questi giochi passino sopra la testa di quei russi che, anche secondo l’ufficiale Comitato per le statistiche, lo scorso dicembre hanno visto diminuire del 10% il proprio salario reale rispetto a un anno prima: il salario medio nominale a fine 2015 era pari a 42,6 mila rubli, mentre quello reale si è fermato a circa 34 mila rubli. E a questo si unisce un numero ufficiale di disoccupati di quasi 4 milioni e mezzo, con un aumento dal 5,5 al 5,8% del livello di disoccupazione. Ovvio quindi che, secondo i sondaggi del Centro Levada, al primo posto tra le preoccupazioni dei russi ci siano oggi stabilità politico-economica del paese (53%), garanzie sociali e pagamento puntuale degli stipendi (51%), occupazione (48%). Per contro, i paradisiaci “diritti democratici” occidentali – libertà di parola, di riunione, di culto – sono ritenuti importanti dal 9% degli intervistati (20% nella capitale e 2% in provincia). Non a caso, nella regione estremorientale di Primore, scrive Sovetskaja Rossija, ha raggiunto i 400 milioni di rubli la cifra di salari non pagati, la metà dei quali ai lavoratori delle imprese TMK e Radiopribor, che stanno realizzando il cosmodromo “Vostočnyj”, insieme ai dipendenti di un’altra quindicina di ditte. Già nel 2015 solo l’intervento della magistratura aveva consentito il pagamento di circa 800 milioni di stipendi arretrati. Secondo il collettivo di ricerca dell’Istituto di analisi sociali, se proseguirà l’attuale ritmo di caduta economica, la quota di russi che non raggiungono il minimo vitale potrebbe salire al 30%, mentre le statistiche governative parlano oggi di 22 milioni di russi poveri; una cifra, sembra, lontana dal numero effettivo di coloro che si avvicinano alla soglia di povertà.
In questa situazione, scrive Pëtr Bizjukov su Gazeta.ru, non pochi si meravigliano del fatto che le proteste locali, pur crescenti, stentino a trovare uno sbocco comune. Secondo il Centro per i diritti sociali e del lavoro, già a fine 2014 si era registrato un balzo del 30% nelle azioni di protesta dei lavoratori; complessivamente, nel 2015, il Centro ha catalogato il 40% in più di azioni – scioperi parziali o totali, dimostrazioni – rispetto al 2014 e il 76% in più rispetto alla media degli anni 2008-2013. Nel 48% dei casi, le proteste sono legate al mancato pagamento degli stipendi, una causa che, tra il 2008 e il 2013, era scesa dal 58 al 29%. Cresciuto negli ultimi 2-3 anni anche il numero di azioni di protesta da parte di medici, taxisti, camerieri, insegnanti: lavoratori poco o per nulla sindacalizzati. E una tendenza alla crescita si può rilevare anche nell’unione delle proteste dello stesso comparto lavorativo in più di una regione – una singola regione della Russia può essere grande quanto alcune volte l’Italia – come è stato il caso degli autotrasportatori o dei portuali; o, al contrario, nell’accordo per azioni congiunte di settori diversi all’interno di una stessa provincia. “Si può far finta di nulla”, conclude Bizjukov, “o anche rallegrarsi dell’assenza di segni visibili di azioni di massa”; ma è come se, “vedendo l’acqua allontanarsi di decine di metri dalla spiaggia, si corresse gioiosi a raccogliere le conchiglie, senza pensare che quello possa essere il primo segnale di un grosso tsunami”.
In fin dei conti, siamo ancora sulla linea economica seguita da 25 anni a questa parte, con poche virate del timoniere di turno. E per l’appunto, una nota di colore che accompagna il quadro sopra abbozzato, è data dal battibecco tra l’ex primo ministro (tra il 2000 e il 2004) e attuale leader del movimento liberale “ParNaS” Mikhail Kasjanov e il presidente ceceno Ramzan Kadyrov. Quest’ultimo aveva pubblicato nei giorni scorsi su Instagram la foto del primo ritoccata nel mirino di un fucile, con la didascalia “Kasjanov è giunto a Strasburgo in cerca di soldi per l’opposizione russa. Chi non ha capito, ora capirà”. Qualche giorno prima, Kadyrov aveva dichiarato che l’opposizione antisistema tenta di rafforzarsi facendo leva sulla difficile situazione economica della Russia e che simili personaggi devono essere trattati come “traditori”, che “necessitano di un ospedale e di medici competenti”.
A ciascuno il suo.

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