Il Ttip salta, per ora. Ed è la prima volta che i ministri del commercio di alcuni paesi europei lo dicono apertamente. Il cumulo dei punti di vista contrastanti è tale da non potere essere sciolto in tempi brevi, comunque non entro la scadenza della presidenza Obama e in piena incertezza su quali saranno le priorità del prossimo inquilino della Casa Bianca. Nè la Clinton, né tantomeno Trump, hanno detto una sola parola chiara sull’argomento.
Naturalmente, vista l’assoluta segretezza con cui sono state fin qui condotte le trattative, nulla vien detto su quali siano i punti di frizione, ma è comunque noto da tempo che su produzione alimentare (gli Stati Uniti chiedono di aprire il mercato alle loro carni agli ormoni e ai prodotti ogm, mentre si rifiutano di assicurare una qualsaisi tutela dei prodotti Doc )e soprattutto sulle corti arbitrali che dovrebbero decidere in caso di contrasto legale tra una multinazionale e un paese sono stati registrati contrasti fin qui irrisolvibili.
Da lunedì prossimo dovrebbe in ogni caso partire il 14esimo round del negoziato, anche se lo spazio per fare passi avanti appare chiuso. Il vice ministro francese per il Commercio estero, Matthias Fekl, è stato particolarmente chiaro: “Stiamo aspettando così tante serie offerte da parte degli Usa che non esiste assolutamente alcuna possibilità che si arrivi a un accordo entro la fine dell’amministrazione Obama. Penso che ormai lo sappiano tutti, anche quelli che sostengono il contrario.”.
E la conferma arriva, con ambiguità tutta italiana, anche dal ministro italiano dello sviluppo economico, Carlo Calenda: “Il Ttip secondo me salta perché siamo arrivati troppo lunghi sulla negoziazione”. Solo una questione di lentezza dei lavori, insomma, anche se è proprio lui a dare il contesto che determina questo fallimento: “ rischia di saltare anche l’accordo con il Canada perché c’è una mancanza di fiducia verso tutto quello che è internazionalizzazione e una mancanza di delega a una governance europea certa”
Nessuna fiducia reciproca, dunque, tra i due lati dell’Atlantico, specie per quanto riguarda la possibilità di arrivare a definire regole comuni che non comportino danni serissimi per uno dei due contraenti (e l’Europa è certamente il lato debole); e assoluta incertezza – specie ora che Londra sembra aver smarrito il ruolo storico di cerniera transatlantica, votando la Brexit – su come vada a finire nell’Unione Europea. “Gli americani stanno perdendo uno dei paesi più favorevoli all’accordo”, spiega Chad Bown, ex economista della Banca mondiale. E le priorità europee sono rapidamente cambiate: prima di negoziare con gli americani, serve trattate con gli inglese affinché l’uscita dalla Ue sia il meno disordinata possibile”. Ed è impossibile condurre contemporaneamente due negoziati sulle stesse materie, con gli stessi paesi, ma improntati a logiche opposte: con il Nord America di stava trattando per unire i rispettivi mercati, con Londra bisognerà discutere su come separarli con il minor danno possibile.
“Non è chiara la governance” significa dunque che non si sa bene chi comanda e con quale approccio. L’accumularsi di tensioni antiunitarie (euroscetticismo e populismo sono solo parole) mette in discussione ulteriori passi avanti nell’integrazione continentale. E il riemergere prepotente dell’”approccio intergovernativo”, addirittura nella logica del “chi ci sta, ci sta, gli altri verranno”, consiglierebbe chiunque di rinviare qualsiasi contratto duraturo con “i 27”. Figuriamoci un trattato che dovrebbe definire un mercato comune alla viglia di un anno elettorale – il 2017 – che potrebbe disegnare governi del tutto diversi da quelli che hanno fin qui tessuto la tela del negoziato.
Ed è il paese con il governo meno popolare d’Europa, la Francia, a mettere la parola fine sul Ttip: “Non c’è nulla di peggio che iniziare una trattativa dicendo di voler concludere a qualunque costo. Noi – ha detto ancora il viceministro Fekl – avremmo preferito una buona intesa per l’occupazione in Francia e per i lavoratori”. Ancora più esplicito era stato il premier Manuel Valls: “Non ci può essere un accordo sul trattato transatlantico, non siamo sulla buona strada”. L’accordo “sarebbe imporre un punto di vista che non solo potrebbe essere terreno fertile per il populismo, ma anche un male per la nostra economia”.
La retorica delle conferenze stampa falsa molto la realtà: dei lavoratori, al governo francese, non importa nulla, vista la ribellione totale alla loi travail che, come il jobs act, cancella sette decenni di conquiste sindacali incardinate nel “patto tra produttori” che definisce la costituziona materiale di Parigi. Il problema intollerabile è che la materia del Ttip mette evidentemente a rischio l’ossatura della struttura industriale francese, oltre che la qualità dello champagne, dei vini e dei formaggi d’Oltralpe. In questo senso, dunque, diventa vera anche la preoccupazione per il possibile l’esplodere della disoccupazione una volta andati a regime gli accordi Ttip.
Dal punto di vista dei lavoratori di entrambe le sponde delll’Atlantico è un’ottima notizia, perché quanto meno rinvia l’ennesimo drastico peggioramento delle condizioni di vita e delle normative contrattuali. Ma ci appare chiaro che il mancato accordo, nel medio periodo, comporterà un aumento della “competizione” economica tra Europa e Nord America, con ovvie conseguenze sui rispettivi mercati del lavoro.
Diciamo dunque che l’arresto del negoziato Ttip può aprire una “finestra di opportunità”. Che soltanto un ritrovato protagonismo conflittuale dei movimenti dei lavoratori – al momento assolutamente divisi ed estranei tra loro, chiusi come sono nei recinti locali disegnati dai capitali multinazionali (gli unici che possano praticare con profitto un certo tipo di “internazionalismo”) – trasformare in un processo di superamento della crisi sistemica del capitalismo.
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