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Turchia. Il regime accusa: dietro il golpe la Nato

Le accuse del regime turco al governo degli Stati Uniti, alla Cia e alle strutture della Nato per il fallito golpe del 15 luglio continuano a caratterizzare lo scontro tra Ankara e Washington. Sia Barack Obama sia vari capi delle forze armate statunitensi sono intervenuti più volte per smentire ogni loro coinvolgimento sulla sfortunata sollevazione di militari di due settimane fa, ma con i giorni cominciano ad emergere degli elementi che, in mancanza di prove concrete e inoppugnabili, sembrano comunque verosimili.

Nei giorni scorsi il ministro della Giustizia Bekir Bozdag, durante un’intervista televisiva, ha dichiarato: «Gli Stati Uniti sanno che Fethullah Gülen ha dato vita a questo golpe. Obama lo sa meglio del suo stesso nome. Sono convinto che l’intelligence statunitense sa troppe cose». Secondo il ministro turco Washington sapeva cosa stava per succedere e non ha fatto nulla per mettere in guardia Ankara. Ma altri suoi colleghi del governo di Ankara sono stati ancora più espliciti, accusando l’esecutivo statunitense di aver sostenuto il tentativo di regime change in Turchia, per stoppare il repentino avvicinamento di Erdogan alla Russia e ad Israele, il che allontanerebbe ulteriormente l’importante membro della Nato dagli interessi politici e geostrategici degli Stati Uniti.

Poi sono venute le accuse da parte di alcuni media filogovernativi che hanno accusato gli Stati Uniti di aver cercato di assassinare Erdogan.

In particolare il quotidiano filoregime Yeni Safak ha puntato l’indice contro la Casa Bianca. Il giornale ha scritto che il golpe sarebbe stato organizzato dall’ex comandante di missione dell’Isaf – la missione della Nato in Afghanistan – John Campbell, coadiuvato da un’ottantina di agenti della Cia dislocati in Turchia. L’operazione sarebbe stata ‘oliata’ con lo stanziamento da parte di Washington di circa due miliardi di dollari, fatti passare tramite una filiale in Nigeria della United Bank of Africa e utilizzati per corrompere i generali e gli ufficiali ribelli. Dopo il suo pensionamento, nel maggio scorso, Campbell si sarebbe recato in Turchia almeno 2 volte per incontri segreti con alti ufficiali golpisti scrive Yeni Safak citando fonti d’intelligence.


A conferma delle accuse vari media turchi citano alcuni elementi. Intanto il complotto sarebbe stato organizzato e coordinato dalla base militare turca di Incirlik, dove parecchie centinaia di militari statunitensi gestiscono i raid aerei contro le postazioni dello Stato Islamico in Siria e Iraq. Il generale Bekir Ercan Van, responsabile della base, è stato arrestato insieme ad un consistente numero di alti ufficiali e militari, con l’accusa di aver sostenuto la sollevazione. Per molti giorni dopo il 15 luglio alla installazione militare in dotazione alla Nato le autorità turche hanno letteralmente tagliato i rifornimenti di energia elettrica, e per alcune ore la base è stata addirittura assediata dai militari lealisti che hanno impedito le comunicazioni con l’esterno.


Altro elemento: il fulcro del putsch erano alcuni battaglioni turchi che negli ultimi anni sono stati sotto comando Nato inseriti nella Forza di reazione rapida – per lo più statunitense- nel corso di varie missioni militari dell’Alleanza Atlantica in vari paesi, in particolare in Afghanistan. Nei giorni scorsi due generali turchi di stanza in Afghanistan sono stati arrestati dalle autorità di Dubai su richiesta del regime turco. Il general Mehmet Cahit Bakir, comandante delle forze turche in Afghanistan, e il generale di brigata Sener Topuc sono stati fermati all’aeroporto di Dubai grazie alla cooperazione tra intelligence turca e le autorità degli Emirati arabi uniti. Secondo quanto riferito dal quotidiano turco Hurriyet i due generali sono stati trasferiti in Turchia subito dopo l’arresto.


Secondo quanto riferito dai media turchi, inoltre, insieme ai sette ufficiali turchi riparati a Salonicco subito dopo il fallimento del golpe ci sarebbero stati anche alcuni agenti della Cia, ma la notizia non è stata confermata da nessun media ellenico.


Sempre il quotidiano Yeni Safak ha scritto che nell’operazione coordinata dalla Casa Bianca sarebbe coinvolto anche Henri Barkey, ex ufficiale dell’agenzia di intelligence Usa e attuale direttore del programma per il Medio Oriente al Woodrow Wilson Center. Secondo il giornale, che cita fonti delle indagini, avrebbe trascorso la notte del 15 luglio in un hotel su una delle isole dei Principi, un piccolo arcipelago a poca distanza da Istanbul, organizzando un presunto “incontro clandestino” con altri esperti stranieri.


Secondo quanto riportato da vari media turchi, compresa l’agenzia stampa ufficiale Anadolu, i golpisti per riconoscersi avrebbero utilizzato una banconota da un dollaro con la stessa lettera iniziale – la F o in certi casi la J e la C – nel numero di serie. Il che, secondo le accuse, sarebbe una ulteriore riprova del legame tra i golpisti e gli Stati Uniti. Banconote da un dollaro sarebbero state trovate addosso o nelle abitazioni di alcuni dei militari e di altri arrestati perché accusati di aver preso parte alla sollevazione. Anadolu cita il caso del colonnello della gendarmeria Kamil Gunler, i giudici Neslihan Dagli e Guluzar Gulsen Firat, e anche un docente di una scuola coranica nella provincia orientale di Mus, Bahattin Turkaslan. E poi ancora poliziotti, imprenditori e accademici.


Ovviamente è difficile dire quanto siano fondate le varie notizie diffuse in questi giorni dalla stampa erdoganiana – alcune delle quali obiettivamente di tono complottista – ma ciò che conta è che il regime punta il dito contro Washington in maniera frontale.

L’oggetto del contendere, oltre alle nuove alleanze internazionali annunciate da Erdogan nelle ultime settimane, sarebbe rappresentato dalla numerose e strategiche basi che la Nato e gli Stati Uniti hanno potuto utilizzare finora in territorio turco, a partire da quella di Incirlik, fuori dalla quale alcuni membri del gruppo ultra-nazionalista di destra ‘Associazione della Gioventù Anatolica’ ha organizzato una manifestazione per “mandare un messaggio agli Usa golpisti”.

Secondo le accuse in cambio del loro presunto appoggio al tentativo di golpe gli Stati Uniti avrebbero avuto in uso dal nuovo governo supportato dai militari ribelli un’altra base al confine con la Siria, scrive sempre il quotidiano Yeni Safak.

E a nessuno è sfuggito il carattere doloso di un grande incendio che, all’inizio di questa settimana, ha assediato una base Nato a poca distanza da Smirne: un chiaro segnale, secondo alcuni analisti, a Washington.

In Turchia, fomentato dal regime ma trasversale anche all’interno degli schieramenti di opposizione, cresce un inconsueto sentimento anti-americano. Tanto che il leader del partito nazionalista di destra Mhp – gli ‘ex’ Lupi Grigi – Devlet Bahceli ha affermato che, se provate, le accuse di un coinvolgimento statunitense “significherebbe che gli Usa e i centri del potere globale vogliono trascinare la Turchia nella guerra civile”.


Le autorità statunitensi cercano di smorzare la polemica, ma sull’estradizione dell’imam Gulen, che vive dal 1999 in una sorta di fortezza protetta da uomini armati in una cittadina della Pennsylvania, la Casa Bianca non sembra per ora disposta a cedere. E nei giorni scorsi il Dipartimento di Stato americano ha autorizzato la “partenza volontaria” delle famiglie del suo personale in Turchia, adottando una misura che viene presa solo quando la situazione della sicurezza si aggrava “in modo significativo”.

Gli Stati Uniti hanno messo in guardia i loro connazionali contro un possibile rafforzamento delle attività di polizia e militari in Turchia, oltre che su possibili limitazioni alla libertà di circolare. Washington “chiede ai cittadini americani di riconsiderare i loro piani di viaggio verso la Turchia”, ha poi aggiunto l’ambasciata ad Ankara.

 

Marco Santopadre

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