Ilan Pappe, studioso ebreo, socialista e anti-sionista, ha recentemente scritto che il popolo palestinese, per quanto riguarda la sua tenacia, è paragonabile agli ulivi secolari della sua terra.
Lo scorso 17 Aprile è cominciato nelle carceri israeliane uno sciopero della fame promosso dal leader di Fatah, Marwan Barghouti. Secondo Addameer, associazione palestinese per i diritti dei prigionieri politici, sono oltre 6500 i detenuti nelle carceri in quest’ultimo anno, con 300 adolescenti, 61 donne e 24 giornalisti. La repressione nei territori occupati è diventata talmente feroce, da parte dell’esercito d’occupazione di Tel Aviv, che non passa giorno senza che qualche palestinese, spesso ragazzi e ragazze giovanissimi, venga ucciso perché colpevole di tentare “azioni di resistenza” all’arma bianca o perché sospettato di “atteggiamenti minacciosi”.
Negli ultimi mesi sono, inoltre, aumentati gli arresti e le misure repressive adottate da Tsahal (esercito israeliano) insieme alle forze di sicurezza palestinesi: un tentativo da parte di Abu Mazen di ingraziarsi il nuovo presidente americano, Donald Trump, sincero amico di Israele, per ottenere i cospicui finanziamenti internazionali per l’Autorità Palestinese. Le accuse di connivenza con le autorità di Tel Aviv hanno portato al boicottaggio delle recenti elezioni amministrative – svoltesi solo in Cisgiordania – da parte di tutte quelle forze politiche (Fronte Popolare Liberazione Palestina, Hamas, Jihad Islamico e Fronte Democratico) che non si riconoscono più nell’Autorità Palestinese e nel suo principale partito: Fatah. Il mese scorso Marwan Barghouti, storico leader dell’Intifada del 2000 e principale antagonista della nomenclatura all’interno di Fatah, ha lanciato uno sciopero della fame ad oltranza, da parte di tutti i detenuti del suo partito, con l’obiettivo di migliorare le condizioni carcerarie dei detenuti. Le principali rivendicazioni della protesta riguardano le visite dei detenuti, la salute dei prigionieri e la tutela delle donne incarcerate, oltre ad una limitazione dello strumento della “detenzione amministrativa”. La detenzione amministrativa è, infatti, uno strumento repressivo da sempre utilizzato dall’occupazione israeliana per imprigionare arbitrariamente i palestinesi. Attraverso il suo utilizzo l’esercito di Tel Aviv imprigiona i palestinesi senza accuse né processo per periodi da uno a sei mesi rinnovabili poi indefinitamente senza limiti di reiterazione.
Lo sciopero ha visto da subito l’adesione di oltre 1500 detenuti in tutte le carceri israeliane. Con il passare dei giorni la protesta è stata sostenuta anche dai prigionieri del FPLP e, in questi ultimi giorni, dagli stessi prigionieri di Hamas. Entrambe i partiti non avevano inizialmente appoggiato l’iniziativa di Barghouti perché richiedevano, secondo le parole di Sa’adat, segretario del FPLP incarcerato dal 2006 nelle carceri israeliane, “un maggiore coordinamento per una lotta che dovrebbe essere di tutti i palestinesi per tutti i prigionieri politici”.
Il FPLP, in un comunicato ufficiale di questi giorni, ha annunciato la mobilitazione da parte di tutti i suoi aderenti perché “la protesta è una forma di resistenza contro l’occupazione israeliana e contro le sue pratiche colonialiste, contrarie a qualsiasi diritto dell’uomo”. Lo sciopero ha assunto, sia all’interno delle carceri che nei territori occupati, le caratteristiche di una forma di “rivoluzione” o lotta non-violenta, già utilizzata negli anni ‘70 e ‘80, da parte dei prigionieri politici palestinesi per ottenere diritti civili fondamentali.
Il comitato centrale di Hamas, a sua volta, ha dichiarato che “tutti i suoi quadri ed i suoi prigionieri parteciperanno allo sciopero della fame, insieme agli altri detenuti, vista la valenza di lotta nazionale che la protesta ha assunto”. Nella sua prima apparizione da leader politico di Hamas, Ismail Haniyeh, ha dichiarato “di sostenere la lotta nelle carceri” ed ha lanciato un ultimatum alle autorità israeliane per l’accettazione delle richieste dei detenuti in cambio della liberazione/scambio di due militari israeliani prigionieri dall’invasione di Gaza del 2014.
In questo mese sono sempre più numerose le manifestazioni, i sit-in e le proteste da parte di numerosi attivisti, sia nelle principali città europee ed occidentali che in quelle mediorientali, in sostegno della protesta dei prigionieri per la “lotta per la dignità”. Espressioni di solidarietà che però, stonano, con il silenzio da parte di tutti i governi arabi o da parte della stessa Lega Araba. In un suo recente discorso, il segretario generale di Hezbollah, Hassan Nasrallah, ha provocatoriamente chiesto “dove sono gli stati arabi o la Lega per sostenere la protesta dei prigionieri palestinesi ed i loro diritti?” ribadendo il pieno sostegno da parte del partito sciita nei confronti “dello sciopero, dei suoi leader e della resistenza palestinese”. Anche nei Territori Occupati le proteste, anche in concomitanza con il 69 anniversario della Nakba, sono quotidiane e spesso vengono represse dalle stesse forze di polizia palestinesi.
Dopo numerosi giorni in isolamento, solo l’altro ieri, Marwan Barghouti ha potuto vedere il proprio avvocato. In una lettera il leader ha descritto le durissime condizioni di detenzione (privazione del sonno, continui rumori, condizioni igieniche precarie) ed ha confermato di voler continuare la protesta, nonostante i 13 chili persi, “fino a quando non saranno accolte le richieste dei prigionieri” aggiungendo di voler “interrompere anche con l’assunzione di acqua”. Stesse misure repressive nei confronti dell’altro leader del FPLP, Ahmed Sa’adat, messo in isolamento nel carcere di Ramon. In un comunicato il segretario del FPLP ha dichiarato di “voler continuare lo sciopero fino alla vittoria, visto che questa protesta rappresenta un esempio di lotta in una battaglia per la libertà e la dignità di tutti i palestinesi”.
Il quotidiano israeliano Yediot Aharonot ha annunciato in questi giorni che il governo Netanyahu, come già avvenuto in passato e denunciato dalla stessa Croce Rossa, intende somministrare integratori e medicinali con l’uso della forza nei confronti dei prigionieri.
Stefano Mauro
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