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La fine dell'”eccezionalismo” americano

I vertici a due sono sempre un po’ problematici da leggere. I protagonisti – in questo caso Trump e Putin – raccontano quel che a loro conviene far sapere, tacciono su tutto il resto. La stampa internazionale si muove assecondando gli interessi delle rispettive proprietà, e quindi gioca a rilasciare interpretazioni sulla falsariga del “a chi giova” oppure “chi vince, ci perde”.

I media mainstream – a cominciare dall’orrenda Repubblica – si sono concentrati sullo scontro Trump-Fbi, sugli strascichi del Russiagate e le presunte interferenze di Mosca nelle elezioni presidenziali Usa. Hanno insomma proseguito una sorta di campagna elettorale post-elettorale per conto dell’establishment Usa (democratici e repubblicani uniti, entrambi spiazzati dal “pazzo”).

Impossibile sapere o ricostruire, da quelle fonti, la mappa degli interessi economici e geopolitici in gioco, le implicazioni dirette e indirette, i cambiamenti nei rapporti di forza che in questi vertici vengono registrati e formalizzati.

Siamo perciò andati a cercare le analisi di due dei migliori interpreti delle dinamiche globali per consentire anche ai nostri lettori di orizzontarsi fuori dal blob della propaganda. Due punti di vista specialistici molto diversi e proprio per questo utili. Sul piano geopolitico riportiamo di seguito l’analisi di Alberto Negri, storico inviato di guerra de IlSole24Ore, ora battitore libero di grande indipendenza e chiarezza espositiva. E quello di Guido Salerno Aletta, editorialista di Milano Finanza, che privilegia naturalmente i dati dell’economia globale.

Dall’incrocio di queste analisi molto informate emergono alcuni “trend” che cerchiamo di tenere d’occhio da molto tempo:

– la fine del “mondo unipolare”, egemonizzato dagli Stati Uniti attraverso istituti sovranazionali di regolazione improntati all’imposizione di regole neoliberiste (“libero mercato senza dazi”, apertura totale agli investimenti esteri, delocalizzazione totale della produzione a scelta insindacabile delle imprese, finanziarizzazione dell’economia, ecc) e apertura di una lunga fase di multipolarismo, segnata dal crescere della competizione tra aree continentali, sia sul piano economico che su quello geopolitico e militare (con molte caratteristiche della “tendenza alla guerra”);

– il permanere irrisolto della crisi apertasi ormai oltre 10 anni fa (2007, eslosione della bolla dei mutui subprime; 2008, fallimento di Lehmann Brothers, quarta banca d’affari del mondo);-

– la centralità del Medio Oriente e dunque del Mediterraneo come faglia epicentro dei conflitti globali; e noi ci stiamo pienamente dentro…

A voi le analisi.

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L’unica certezza di Trump dopo il vertice con Putin: strangolare l’Iran

Alberto Negri

Il vero messaggio di Putin a Trump: fai un po’ quello che vuoi a casa tua e nella tua sfera di influenza, ma in Siria tieni a bada l’Iran, che sarà il bersaglio della prossima guerra

L’antifona l’abbiano capita da un pezzo: la politica americana è fortemente influenzata da Israele e dell’Arabia Saudita, con il primo che detta quasi la linea a Donald Trump perché la repubblica islamica viene considerata il peggiore nemico dello stato ebraico e dal 1979 non intrattiene relazioni diplomatiche con Washington. Quanto ai sauditi vedono l’Iran sciita come il fumo negli occhi, il loro peggiore avversario per la supremazia nel Golfo e nello Yemen dove gli strateghi da strapazzo di Riad, che acquistano 80 miliardi di dollari di armi sofisticate ogni anno da americani dai francesi e dagli inglesi, non riescono a vincere una guerra contro gli Houthi zayditi.

Obiettivo: Teheran

Nella conferenza stampa con Putin a Helsinki il messaggio più chiaro emerso dal discorso del presidente americano è stato proprio questo: “Fare pressioni per contenere le ambizioni nucleari dell’Iran e per mettere fine alla sua campagna di odio in Medio Oriente”. E Putin, che deve esportare i suoi oligarchi a Tel Aviv per aggirare le sanzioni, si è trovato d’accordo affermando “che farà di tutto per rendere sicuro il confine tra Siria, Israele e il Golan”, pur sapendo che non può esercitare più di tante pressioni su Teheran che ha messo a disposizione i suoi pasdaran per tenere a galla Assad.
Il presidente russo, che la settimana scorsa aveva ricevuto il premier israeliano Netanyahu e poi Ali Akbar Velayati, l’inviato di della Guida suprema Khamenei, ha capito l’antifona americana da un pezzo: se vuoi essere amico di Trump devi essere amico di Israele e dei sauditi. Tutto il resto viene dopo, dall’Ucraina al destino di milioni di arabi, dal disarmo nucleare alla Cina. Per non parlare degli europei, gli zerbini sia di Washington che di Mosca.

Storia di un’ossessione

Che un Paese come l’Iran di 80 milioni di abitanti, con un terzo del Pil dell’Italia, in evidenti difficoltà economiche – pur essendo il quarto al mondo per riserve di petrolio e il secondo per quelle di gas – sia il vero grande problema mondiale appare esagerato: anzi è una tale ossessione da sembrare persino patologica.

La realtà è che l’Iran non soltanto ha firmato un accordo sul nucleare nel 2015 con tutta la comunità internazionale e sotto l’egida dell’Onu, ma che lo sta rispettando, come dicono i rapporti dell’Aiea, la Russia, la Cin e anche la tremebonda Unione Europea.

Teheran non possiede la bomba atomica, a differenza della Corea del Nord di Kim Jong-un con il quale Trump vuole trattare a tutti i costi per arrivare a un accordo e che in questi anni ha violato regolarmente le intese internazionali. Non solo. L’Iran è un Paese firmatario dell’accordo sulla non proliferazione nucleare a differenza di Israele che ha un arsenale con 200 atomiche, o del Pakistan e dell’India, altre due potenze atomiche.

Mai pace, dai tempi della guerra a Saddam

Come se non bastasse l’Iran è stato un Paese attaccato dalla comunità internazionale quando questa sostenne la guerra nel 1980 contro Saddam Hussein, il quale poi invase il Kuwait nell’agosto del ’90. L’Iran non ha mai attaccato nessuno, ma ha sfruttato con abilità i gravi errori di calcolo compiuti dai suoi concorrenti, fuori e dentro la regione. La guerra del 2003 voluta da Bush junior ha regalato a Teheran l’influenza in Iraq, che per altro è servita – se qualcuno se lo fosse dimenticato – a fermare nel 2014 l’avanzata dell’Isis quando le truppe irachene si erano completamente sbandate. L’Iran si è piazzato in Siria, per altro l’unico Paese arabo che nel 1980 si schierò con Teheran, e mantiene una forte influenza in Libano attraverso gli Hezbollah: ma chi pensava di abbattere Assad nel 2011 erano proprio i Paesi sunniti del Golfo, la Turchia, gli Usa, gli americani e la Gran Bretagna, che aprirono la strada, senza pensare alle conseguenze, all’afflusso di migliaia di jihadisti dentro al territorio siriano. Un altro errore di calcolo sulle sorti del regime siriano che ha portato poi anche all’intervento della Russia nel 2015.

L’estate dei preparativi

L’unica certezza che viene dagli Usa sono quindi le sanzioni all’Iran dopo il ritiro dell’accordo sul nucleare del 2015: una lettera alle cancellerie europee del segretario di Stato Mike Pompeo e di quello al Tesoro Steven Mnuchin ribadisce che non ci sarà nessuna esenzione per le società in affari con Teheran. Il primo blocco di sanzioni comincia il 6 agosto, il secondo a novembre: l’Unione vorrebbe attivare le procedure di blocco per aggirare le sanzioni, ma con quelle finanziarie le banche che sono in affari con l’Iran finiranno in lista nera. 

In arrivo le bombe dall’alto

Dopo avere cercato di far saltare la Nato, insultato l’Unione europea e preso in giro la premier britannica May, Trump ha incontrato ieri Putin con questo viatico: non rispettare gli accordi internazionali, in primo luogo quello con l’Iran e strangolare economicamente la repubblica islamica, cosa che fa ovviamente piacere sia a Israele che all’Arabia saudita. Questo dunque il vero messaggio di Putin a  Trump: fai un po’ quello che vuoi a casa tua e nella tua sfera di influenza, ma in Siria tieni a bada l’Iran che sarà il bersaglio della prossima guerra. 

Da Tiscali News

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La fine dell’ecezionalismo americano

Guido Salerno Aletta – Milano Finanza

Ieri, ad Helsinki, è terminata l’era dell’unilateralismo americano. L’incontro tra i Presidenti di Usa e Russia, Donald Trump e Vladimir Putin, segna uno spartiacque storico.

La conferenza stampa è iniziata con la lettura di due interventi già scritti: nessuna improvvisazione, nessuna battuta di spirito. Sono stati toccati tutti i problemi internazionali più scottanti, dalla stabilizzazione della Siria alla lotta al terrorismo, dalla proliferazione nucleare alle relazioni con l’Iran. Sulle presunte interferenze russe negli affari interni americani e nelle elezioni presidenziali, Putin è stato netto a negarle; Trump è stato a sua volta altrettanto chiaro.

Il Presidente americano, cauto come mai, sapeva di avere di fronte a sé non solo l’intera platea mondiale, ma soprattutto l’opposizione interna ed il Deep State: le accuse mosse solo in questi giorni nei confronti di una serie di agenti segreti russi che avrebbero hakerato i computer che custodivano i dati della campagna elettorale dei democratici sono sembrate davvero strumentali.

Per Usa e Russia, i temi da affrontare sul piano internazionale sono tanti, complessi, ed occorre il confronto continuo. Si pone fine al duplice eccezionalismo americano, che nacque con la dissoluzione dell’URSS, che era stata fino ad allora l’altra superpotenza.

L’unilateralismo americano è stato basato sul potere militare, che i Presidenti Bush, padre e figlio, implementarono con le due guerre del Golfo e con l’intervento in Afganistan per combattere il terrorismo jihadista, e sulle relazioni economiche internazionali, sempre più esclusive verso il Pacifico e l’Atlantico, con cui Barak Obama avrebbero voluto isolare la Russia da una parte e la Cina dall’altra, con due Trattati speculari di liberalizzazione del commercio, il TPP ed il TIIP.

La destabilizzazione del nord Africa e del vicino Oriente per un verso, e della Ucraina dall’altro, voluta dal Segretario di Stato Hillary Clinton per ridurre le aree in cui l’Unione europea avrebbe potuto estendere la sua area di influenza dopo la crisi americana del 2008, sono state un banco di prova insuperabile per gli Usa. Sono stati squassati equilibri storici: mettendo in discussione la presenza russa in Crimea, irrinunciabile; accerchiando l’unica sua residua presenza nel Mediterraneo militare rappresentata dala base a Tartous in Siria; fomentando l’estremismo sciita come clava per abbattere i regimi arabi filoccidentali.

Gli Usa, secondo la Clinton, non potevano tollerare un’Europa pacificata che si estendeva addirittura a Sud con l’Unione Euro-mediterranea ed ancora ad Est senza scontrarsi con la Russia. La strategia dei democratici americani puntava ad isolare militarmente la Russia ed economicamente la Cina: ma non è riuscita né ad evitare che la prima mantenesse in piedi il governo di Bashar el-Assad in Siria e ad annettersi la Crimea, né che la seconda formulasse con la nuova Via della Seta la più grande strategia di penetrazione geopolitica mai concepita dai tempi del Piano Marshall.

Saldatura tra Russia e Cina, che avrebbero dovute rimanere ostili fra di loro e comunque isolate rispetto al resto del mondo mentre avevano reagito con la creazione del Gruppo dei Brics; accidia europea rispetto alle richieste di riequilibrare la bilancia commerciale con gli Usa, che si faceva negli anni addirittura irridente; annessione della Crimea e intervento in Siria della Russia; nuova Via della Seta: sono state queste, le quattro risposte all’unilateralismo americano.

Anche l’estensione dell’Unione Europea a 28 Paesi era stato un frutto dello stesso disegno: agglomerare ad ogni costo le aree eterodirette dagli Usa, attraverso la Nato, per cingere d’assedio la Russia.

L’euro nasceva ostaggio di una triplice frustrazione: quella comune, nei confronti dello strapotere del dollaro; quella della Francia. che ambiva a sottrarre finalmente alla Germania il dominio della politica economica europea; quella della Germania, che si era trovata costretta negli anni a dover procedere continuamente alla rivalutazione del marco per bilanciare gli squilibri ricorrenti americani nella bilancia commerciale.

L’unilateralismo di questi ultimi venti anni non è riuscito ad eliminarli, anzi li ha accresciuti per via di un impegno militare eccezionalmente gravoso. Il riequilibrio economico e geopolitico è iniziato, ma la strada sarà ancora molto lunga.

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