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Algeria: “Non ci fermeremo”

Per il sedicesimo venerdì consecutivo il popolo algerino è sceso in strada dal 22 febbraio.

Una mobilitazione “inedita” per la storia repubblicana algerina ha prodotto un impasse politico altrettanto inedito nella gestione della transizione, dalla fine dell’“era Bouteflika” – iniziata nell’ormai lontano ’99, alla fine del decennio nero della guerra civile – ad una nuova fase.

Annullate le elezioni presidenziali del 4 luglio – che erano già state posticipate una volta – si è aperta una fase piena di incognite visto e considerato che il presidente ad interim Bensallah – una delle “3B” di cui da tempo la piazza chiede a gran voce la dipartita – esaurirà ad inizio luglio il periodo di 90 giorni previsto dalla costituzione per l’indizione e l’organizzazione delle elezioni. Il governo “provvisorio” del paese, alla testa del quale siede Bedoui (la “seconda B”), sta di fatto inserendo nella durata la sua azione senza che sia stata prefigurata concretamente un alternativa.

Lo “stato profondo”, a cominciare dalle alte cariche dell’esercito, ha puntato a giocare una doppia partita: da un lato “eliminare” per via giudiziaria sia personaggi a lui ostili della vecchia cerchia di potere, presentando tale epurazione a tappe successive come l’espressione dei veri desiderata della mobilitazione popolare, anche con l’uso di tecniche di guerra psicologica attraverso i vari socials – tra l’altro non ha disdegnato di incarcerare o mantenere in carcere i più risoluti oppositori del precedente regime (tra cui la dirigente del principale partito di opposizione, il PT, Louisa Hanoune) -; dall’altro lato ha voluto gestire la transizione all’interno della geografia del vecchio sistema di potere, che è stato la sponda dell’ipotesi di un quinto mandato per l’ex presidente ottuagenario, da tempo gravemente malato, a cominciare dai partiti che avevano sostenuto Bouteflika, allineatesi ai voleri del capo di stato maggiore dell’ANP e numero due del governo Gaïd Salah.

La dirigenza sindacale della centrale UGTA – comunque a fine mandato – aveva ugualmente sostenuto il quinto mandato ed è da tempo nell’occhio del ciclone di una vivace contestazione, mentre alcuni punti di riferimento importanti per la società algerina, come l’associazione degli ex combattenti della Lotta di Liberazione Nazionale (1954-62) e l’influente associazione degli Ulema, hanno apertamente indicato di recente la necessità di una direzione di marcia che aprisse ad una transizione, visto tra l’altro il fallimento  di Bensalah nell’organizzare le elezioni.

L’editoriale della rivista dell’esercito, “El Djeich”, ha ribadito anche questo venerdì la contrarietà ad un periodo di “transizione” propugnando la via elettorale come strategia di rapida uscita dalla crisi; una transizione che per l’organo dell’ANP “non potrebbe che condurre ad una situazione di ancora più difficile gestione”.

Come ormai di consueto, i partiti d’opposizione che rifiutano il dialogo sono oggetto di un duro attacco, così come gli strumenti di informazione che utilizzano.

Solo le elezioni presidenziali permetteranno di “neutralizzare tutte le proposte destinate chiaramente a far perdurare la crisi

Un raggruppamento di importanti realtà della società civile – incontratosi per la terza volta sabato scorso – ha nominato una commissione che ha il compito di elaborare una possibile road map di uscita dalla situazione attuale, rigettando la proposta di un dialogo con porzioni del vecchio apparato di potere, facendosi carico del “rifiuto” che anche questo venerdì è stato espresso in massa dalla società algerina.

Questa settimana non è stato Salah ad esporsi direttamente, ma il contestato Abdelkader Bensalah ha preso parola giovedì sera, rinnovando l’appello al dialogo, senza fare – nel suo discorso alla nazione – alcun passo in direzione della piazza né dell’opposizione. Nel discorso della settimana precedente il capo dell’ANP aveva battuto sullo stesso tasto, ma senza fare alcun riferimento alla data delle elezioni, il cui il loro rimando sine die era stato ufficializzato domenica scorsa.

Nessun segnale, né in direzione della liberazione dei prigionieri politici e d’opinione – nonostante la morte di Kamel Eddine Fekhar, dovuta allo sciopero della fame durante la detenzione di un ex eletto del FFS e attivista dei diritti umani della comunità berberofona mozabita -, né di un alleggerimento del dispositivo poliziesco che cerca di cingere le mobilitazioni (da quelle del venerdì, a quelle studentesche del venerdì alle iniziative di piazza del sindacato), né tanto meno sulla libertà d’informazione (l’emittente nazionale ENTV ha “censurato” le mobilitazioni anche questo venerdì, JT alle 19.00 ha dato degli estratti del discorso di Bensalah, mentre Canal Algérie ha evocato le mobilitazioni ignorando il rifiuto al dialogo della piazza e le rivendicazioni relative alle dimissioni del “sistema” – senza tralasciare una maggiore autonomia del potere giudiziario, che sta agendo come “braccio” dell’esecutivo di transizione.

Bensalah si è ben guardato dall’indicare una data precisa per la tenuta delle elezioni, conscio che un terzo flop avrebbe indebolito ulteriormente la legittimità dell’assetto di potere e bruciato anche l’ultimo credito di fiducia di cui gode in parte l’istituzione militare. Le sue frasi sulla possibilità di “negoziare” su tutto sembrano il classico fumo negli occhi per prendere tempo prezioso ed elaborare una differente exit strategy, ma sempre interna agli attuali equilibri di potere.

Difatti RND, MPA e FLN – i corpi politici intermedi che hanno sostenuto “il regime” – hanno plaudito le parole del presidente ad interim, nel goffo tentativo di ancorarsi all’unica ipotesi che li salvaguarderebbe dalla loro “scomparsa” visto il livello di delegittimazione popolare di cui godono e le loro convulsioni interne.

In questo contesto, non cessano i tentativi di “ingerenza”, sia delle potenze neo-coloniali – come la Francia che fa da testa di ponte degli interessi UE -, sia degli attori regionali (Arabia Saudita, EAU, Egitto in combutta con Israele), che spiccano per la loro volontà di determinare un’escalation militare diretta contro l’Iran e la “Mezza Luna” sciita, affossare i loro contendenti locali (Qatar e Turchia), sbarrare la strada a competitor globali come Russia e Cina.

Il popolo algerino è storicamente solidale con la causa palestinese, e le bandiere dei due popoli sventolano fianco a fianco nelle mobilitazioni dell’Hirak, in un momento in cui “l’asse del male” della regione, insieme agli Stati Uniti, prepara una “risoluzione” politica del conflitto israeliano-palestinese tesa ad annichilire le storiche aspirazioni di questo popolo, attraverso una futura conferenza a cui Russia e Cina – che stanno dando un profilo sempre più netto al loro asse attraverso una serie di importanti accordi – hanno già detto che non parteciperanno.

In questo senso non è certo una variabile secondaria il fatto che l’Hirak si sia schierato apertamente a fianco di questo popolo, rinnovando un legame storico che mette in discussione i piani medio-orientali dell’amministrazione Trump.

In Algeria la crisi politica è conseguenza di una crisi sistemica che riguarda tutta la rappresentanza politica, che ha coniugato politiche neo-liberiste e neo-coloniali alla restrizione dei margini di azione politica, gestendo una ridistribuzione dei proventi degli idrocarburi attraverso le proprie reti clientelari, in grado di garantire sostanzialmente la pace sociale fino all’Hirak e configurando l’assetto economico del Paese come una economia dominata dall’esportazione di idrocarburi e dipendente dall’importazioni di prodotti provenienti dalla UE (dopo avere smantellato il settore produttivo pubblico in via di diversificazione).

Il sistema-paese ha visto crescere la sua parte più giovane ed istruita (tra cui spicca la componente femminile), asse portante dell’Hirak, ma allo stesso tempo ha ristretto le possibilità di realizzazione di questa gioventù, anche a causa dei fattori “esterni” che azzerano la possibilità di avere una “valvola di sfogo”.

L’emigrazione è clandestina e sempre meno preferibile, visti i meccanismi della “fortezza Europa” (parlano chiaro i morti in mare dell’Harraga e la detenzione in centri di reclusione di più di 2.000 algerini in Francia), mentre proprio l’ex “madre patria”  nega di fatto la già centellinata possibilità di studiare a chi proviene da fuori UE, aumentando a dismisura le spese per l’iscrizione all’università (gli algerini sono la terza comunità di studenti extra-Ue in Francia, dopo Marocco e Cina), che ha provocato un drastico calo delle pre-iscrizioni per il prossimo anno.

A questi “giovani a sud” del Mediterraneo, non sembra essere rimasto altro orizzonte di definire un futuro profondamente diverso, riappropriandosi delle risorse di cui dispongono, acquisendo una sovranità popolare di fatto fortemente mutilata già a ridosso della conquista dell’indipendenza, e decidendo quale configurazione dei rapporti dare alla Repubblica. Consci che ormai l’UE è un male comune che assoggetta a logiche coloniali il Maghreb e l’Africa sub-sahariana e che le organizzazioni dell’islam politico retrivo sono “il cavallo di troia” dell’asse del male, pronto a soffocare le più sincere aspirazioni popolari e nemiche giurate dell’emancipazione femminile.

Ad Algeri si è riproposto per l’ennesima volta lo stesso copione che caratterizza da alcune settimane la mobilitazione: barriere filtranti per gli assi viari che permettono di accedere alla capitale, interrogatori dei manifestanti fin dalla prima mattina, imponente dispiegamento di forze. Nonostante questo, dalle dieci e mezza circa, i manifestanti iniziano ad affluire di fronte alla Grande Poste, scandendo “Bensalah vattene!”, proseguendo poi per piazza Maurice Audine.

Altri slogan ricordano le promesse di Salah sull’applicazione degli articoli 7 e 8 della Costituzione, che conferiscono al popolo la fonte della sovranità e riguardano la contrarietà al “regime militare”.

Bouria, Tizi Ouzou, Orano, Tlemcen, Costantine, Bejaia, M’sila, Relizane, Mascara, El Tarf, Mostaganem, Annaba, Sidi Bel Abbès, Djelfa, Relizane, Bordj Bou Arreridj, Tiaret, Aïn Témouchent, Chlef, Jiijel, Tamanrasset, Skkida, Setif, El Oued sono state il teatro di imponenti mobilitazioni, che non sono scemate, ma anzi – in alcuni i casi – si sono ampliate nonostante il caldo torrido.

Maranach habssin, scandivano i manifestanti, ovvero non ci fermeremo.

Ed un popolo alla sua “seconda” rivoluzione va proprio preso in parola.

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