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Algeria: quale scenario dopo le elezioni presidenziali?

Il 12 dicembre si sono svolte le elezioni presidenziali in Algeria.

Dopo due successivi rinvii nel corso di quest’anno questa tornata elettorale si è svolta nello stesso clima di opposizione che caratterizza il paese del Maghreb dal 22 Febbraio.

Il 13 dicembre infatti il popolo algerino è tornato in piazza per il 43esimo venerdì consecutivo di protesta, sbocco di una mobilitazione continua iniziata con lo sciopero generale che ha accompagnato dall’8 dicembre l’ultima fase di campagna elettorale, e che era stato proceduto da manifestazioni notturne in tutto il Paese.

Alle manifestazioni del martedì degli studenti, e a quelle del venerdì, si è quindi sommata questa nuova forma di protesta delle marce notturne durante una campagna elettorale sistematicamente contestata dagli algerini, costringendo di fatto i 5 candidati ad una forma di propaganda “clandestina”.

Lo stesso giorno delle elezioni sono scesi in Piazza, per “douzedouzer” – ennesima invenzione semantica dopo “vendredir” riferita a manifestare il venerdì – cioè per opporsi alle elezioni del 12 dicembre, in un anniversario storico che coincide con lo sviluppo delle grandi manifestazioni nel 1960 contro il potere coloniale francese, in quel fraseggio tra passato, presente e futuro che è una degli aspetti più fecondi dell’Hirak.

Queste presidenziali sono state comunemente definite una “mascherata elettorale”…

Gli algerini hanno considerato questo appuntamento elettorale come uno strumento di perpetuazione del “Pouvoir” per le modalità con cui è stato imposto dal numero uno dell’esercito – il Capo delle Forze Armate Generale Gaïd Salah – uomo forte del Paese che ne ha di fatto preso le redini con l’eclissarsi di Bouteflika insieme ad un governo provvisorio iscrittosi nella durata e composto da uomini del “vecchio regime”, dettandone fino ad ora l’agenda.

Le elezioni sono state concepite come unica strategia d’uscita dall’impasse politico senza che venisse presa in considerazione l’ipotesi un processo costituente, come continua ad essere chiesto a gran voce dalla piazza e dall’opposizione politica che cerca di tradurne le istanze in un programma d’alternativa.

Questa exit strategy è stata attuata anche attraverso una censura dell’Hirak da parte dei media ufficiali e di fatto un “oscuramento” di quelli indipendenti, un dispiegamento poliziesco sempre più pressante durante le mobilitazioni, una repressione che si è accentuata e che ha portato in carcere centinaia di prigionieri politici e d’opinione, comminando già pesantissime condanne come quella a Louisa Hannoune, segretaria del maggiore partito d’opposizione politica, il PT.

La sordità nei confronti delle richieste della piazza è stata accompagnata da una strategia di annientamento per via giudiziaria degli uomini del vecchio sistema di potere invisi al Generale, camuffati da compimento di quelle istanze di giustizia contro la corruzione che ha mietuto vittime nella fitta trama di poteri che aveva governato il Paese per vent’anni dall’élite economica all’intelligence, passando per l’esercito…

Quattro dei cinque candidati – compreso il 74enne presidente eletto Abdelmadjid Tebboune – sono stati considerati pezzi dell’ “issaba”, cioè della “banda” che ha fin qui governato il Paese, tenuto conto del loro curriculum politico: tutti hanno assunto ruoli di primo piano durante la ventennale “Era Bouteflika” (1999-2019).

Tebboune, un vicino di Salah, per esempio è stato Premier dal maggio all’agosto del 2017…

L’unico concorrente alla carica presidenziale – oltre a Ali Benflis, Azzedine Milhoubi, Abdelaziz Belaid e il già citato Tebboune: tutti in tempi diversi e a diverso titolo ex “uomini del presidente” ottuagenario dimessosi quest’anno – con una biografia parzialmente differente è stato Abdelkader Bengrina, politico moderato del Movimento islamista algerino, di cui è stato anche segretario.

Voleva essere il rappresentante dell’Hirak, ma non ha convinto nessuno, tenendo anche conto dell’assoluta marginalità della componente islamista nella Piazza ed in generale dello scarsissimo credito di cui gode in un Paese che ha conosciuto durante gli Anni Novanta una ferocissima guerra civile, che ha contrapposto l’esercito alla guerriglia islamista e con un sistema sorto dal “Decennio Nero” che ha reso compatibili queste forze dopo averle sconfitte militarmente.

Così mentre venerdì in tarda mattinata le piazze del Paese iniziavano a riempirsi, Mohamed Charfi, presidente della Autorità Nazionale Indipendente delle Elezioni (ANIE), annunciava la vittoria di Tebboune, dopo aver dichiarato il giorno prima che il tasso di partecipazione al voto era stato del 39,93%.

Si tratta del tasso di partecipazione più basso ad una elezione presidenziale nell’Algeria pluralista.

A Bejaia e a Tizi Ouzou il tasso è stato prossimo allo zero. La popolazione hanno chiuso i seggi. In molte località di differenti regioni come le Wilayas di Sétif, Bordji Bou Arreridj, Bouira e Boumerdes, ma è stata la Kabilia a essere più refrattaria al voto.

Abdelmadjid Tebboune è stato eletto con il 58,15% dei suffragi, cioè un poco più di quattro milioni di voti, su un corpo elettorale di 24 milioni ed una popolazione totale di 43 milioni.

Durante la conferenza stampa tenuta venerdì sera, il neo-presidente ha fatto dichiarazioni a tutto campo, che vanno dalla volontà di procedere ad una profonda revisione della Costituzione – che sarà sottomessa a referendum popolare alla nuova legge elettorale – dall’impegno contro la corruzione per recuperare il denaro rubato alla gestione delle importazioni, per impedire la speculazione sui prezzo dei prodotti; dalla giovane età che avrà la sua nuova compagine governativa, all’inflessibilità nei processi per corruzione, lasciando aperta l’ipotesi della grazia per i detenuti d’opinione.

Tebboune farà un tour in tutto il Paese, prima di recarsi all’estero, e reitera il suo invito a parlare direttamente con l’Hirak e i suoi rappresentanti.

Questo pezzo del vecchio regime sarà in grado di ricomporre la frattura tra la popolazione algerina e chi la governa, tenuto conto che queste elezioni presidenziali sono state una vittoria tecnica ma una sconfitta politica? A guardare alla non propria calda accoglienza delle piazze di venerdì alla sua elezione viene da rispondere negativamente.

Questa risposta tendenzialmente negativa trova conferma, se si tiene conto delle ragioni strutturali dell’Hirak e dello scenario economico che si prospetta anche grazie alle scelte effettuate dal “governo provvisorio”.

Lungi da noi sposare la tesi della “contrapposizione” generazionale come contraddizione principale del sistema di rappresentanza algerina, ma è un dato di fatto che la componente giovanile è stata il cuneo che si è conficcato in una cerchia di potere che sembrava inscalfibile e che come unica risorsa aveva, a febbraio, il Quinto Mandato di un presidente più che ottantenne, gravemente malato e che da tempo non appariva più in pubblico.

Un quadro”, dicevano gli algerini, alludendo alle sue allocuzioni con l’audio registrato che mostravano un suo quadro…

Più della metà della popolazione ha meno di trent’anni, il 45% meno di 25, con una disoccupazione giovanile ufficiale superiore al 30%. Questa componente giovanile ha visto azzerarsi le sue possibilità di costruzione di un futuro dignitoso che non fosse la precarietà strutturale in Patria – nonostante gli studi fatti – e l’emigrazione, fosse quella clandestina via mare (“La Hogra”) o la sempre più aleatoria possibilità di studiare all’estero, in particolare in Francia, divenuta di fatto impossibile con l’innalzamento delle tasse scolastiche per gli universitari non- UE.

Questo combinato disposto di azzeramento delle prospettive all’interno e all’esterno del Paese, di cui una classe politica apparentemente inscalfibile è stata ritenuta la principale responsabile ha prodotto una reazione inedita che ha trasformato profondamente la società algerina nel suo complesso, seppellendo quella sfiducia nell’azione collettiva maturata anche a causa dei precedenti repressivi – contro la componente berbera per esempio -e ancora prima causata dall’escalation di violenza innestata dai movimenti di protesta della fine degli Anni Ottanta, sfociati nella guerra civile.

In un Paese che esporta materie prime (gas e greggio costituiscono il 95% del valore, ed è uno dei maggiori produttori del fondamentale Elio) e importa tutto il resto, la redistribuzione clientelare della rendita derivata dagli idrocarburi è stata il maggior strumento di pace sociale, prosciugatosi come le risorse valutarie provenienti dalla sua vendita che ingrassavano le casse dello Stato, con l’abbassamento del suo valore crollato nel giugno 2014.

Lo scenario che si ha davanti è quello di una “delegittimazione” di un Potere che si dovrà fare carico non solo di colmare i deficit di rappresentanza democratica, ma di una agenda politica che combina l’austerità sociale con la svendita delle proprie preziose risorse naturali e l’approfondirsi del dispositivo neo-coloniale con margini economico finanziari estremamente ridotti, e quindi la non peregrina possibilità di indebitarsi nuovamente con istituzioni finanziare mondiali come il FMI.

La finanziaria del prossimo anno, la nuova legge sugli Idrocarburi recentemente approvata e l’avvio del Trattato di Libero Scambio con la UE che entrerà in vigore il Primo Gennaio prossimo sono testimonianza di questo processo che approfondisce anziché curare le piaghe del sistema algerino.

Per questo la monca legittimità del nuovo presidente e la sua del tutto ipotetica capacità di governance della piazza preoccupa non poco chi ha interessi in Algeria, come l’establishment italiano…

Per noi l’Hirak invece è una speranza.

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