* http://www.itacat.net/riflessioni/25n2012-elezioni-catalane-si-allautodeterminazione-no-ai-tagli
Domenica 25 novembre 2012 la Catalogna ha votato per il rinnovo del Parlamento Autonomo in un clima segnato dall’imponente manifestazione a favore dell’indipendenza svoltasi in occasione della Diada, l’11 settembre scorso. Crediamo necessario fare alcune considerazioni su queste elezioni, sui contenuti della campagna elettorale e sulla fase politica che attraversa la Catalogna dal punto di vista della questione nazionale e sociale. Lo faremo partendo dalla notizia del momento, il voto, e ciò che i risultati possono suggerirci, però soprattutto tenendo presente il contesto generale e le linee di fondo in cui il tutto si inserisce.
Queste elezioni erano state convocate dal Governo Autonomo uscente, rappresentato del Presidente Artur Mas e il suo partito, Convergència i Unió (CiU), con un chiaro obiettivo: chiedere alla popolazione un doppio avallo in forma di maggioranza assoluta. CiU, coalizione nazionalista costituita dai liberal-democratici di Convegència Democratica de Catalunya (CDC) e i democristiani di Unió Democratica de Catalunya (UDC), è rappresentante ed erede del catalanismo moderato e conservatore. Quest’ultimo, durante tutta la sua storia ormai più che centenaria, non ha mai disegnato un progetto indipendentista, intendendo per questo un programma di costruzione di una Stato proprio separato e differente de quello spagnolo. Anzi, è bene ricordarlo, in tutti i momenti storici di passaggio, crisi e cambiamento, il programma catalanista conservatore ha sempre girato attorno alla scommessa per la costruzione di una Spagna differente; in sintesi più moderna, più europea, più democratica, che abbandonasse la via unitarista-centralista per definire non più uno Stato-nazione monoidentitario ma uno Stato federale plurinazionale. La politica di questa coalizione, nelle sue tre decadi di esistenza, ha sostanzialmente conservato e rispettato queste linee guida di longue durée. Il progetto di CiU può sostanziarsi in una scommessa a favore della progressiva federalizzazione dell’architettura istituzionale della Spagna post-franchista, attraverso una visione progressiva e aperta del cosiddetto Stato delle Autonomie. Mai, fino alla Diada di quest’anno, CiU aveva compiuto passi chiari e definiti a favore dell’indipendenza. Lo stesso sentimento indipendentista catalano rappresenta un fatto storicamente recente e assolutamente nuovo come fenomeno di massa.
Per questo motivo, le dichiarazioni indipendentiste di Mas e CiU cui abbiamo assistito negli ultimi mesi, sono qualcosa d’inedito e sorprendente. La lettura di questo passaggio è tanto facile quanto delicata. Alcuni in Italia ne hanno addirittura parlato come di una conseguenza diretta della crisi economica che si sostanzierebbe in una sorta di leghismo alla catalana, con punte di razzismo e xenofobia. La caverna mediatica di Madrid, alcune delle cui testate sono evoluzione diretta della stampa cara al regime franchista, ha ripetutamente accusato le istituzioni catalane di nazismo, pulizia etnica e repressione contro i castiglianoparlanti. Accuse che hanno un che di surreale se pensiamo che provengono da ambienti un pò nostalgici di quel regime dittatoriale. Orbene, chiunque viva in Catalogna e conosca la sua pluralità, sa perfettamente che si tratta di accuse assolutamente false, costruite mediaticamente e che hanno visibilità solo per questo motivo.
Le dichiarazioni indipendentiste di Mas e la conversione di CiU all’indipendentismo, ammesso che questa sia reale, ha altre ragioni. In primo luogo, come da più parti denunciato, si tratta di puro calcolo politico, diremmo opportunista. Tornata al governo della Generalitat dopo la parentesi del centro-sinistra, CiU si trova a dover governare in piena crisi e lo fa nel modo in cui lo sta facendo ogni partito liberal-democratico d’Europa. Sta approfittando della buona occasione offerta dalla crisi, per cannoneggiare il welfare e foraggiare il settore bancario. In questa maniera, dietro al paravento del paradigma dell’austerità, la liberal-democrazia rampante può finalmente portare a compimento il suo antico sogno di eliminare i servizi pubblici nei settori della sanità, educazione, ricerca scientifica e universitaria, previdenza sociale, ecc., farli decadere in qualità e spingere chi può (o potrebbe) a rivolgersi a strutture private e di élite. Ne consegue che coloro che non possono permettersi di accedere a questi servizi di élite, che sono (siamo) la maggioranza della popolazione, potrà tranquillamente morire di malasanità, restare senza istruzione né pensione né casa ecc. ecc… Il malessere sociale provocato dalla politica di tagli, portata avanti in Catalogna da CiU con l’appoggio del PP e a Madrid dal governo monocolore del PP, sono intervenuti ad aggravare una situazione sociale estremamente grave, con una disoccupazione che in Catalogna arriva al 26% della popolazione. A Barcellona le mobilitazioni popolari contro i tagli e gli sfratti oramai non si contano, e tra queste ben tre scioperi generali e altrettanti di settore. A questo punto entra in gioco l’aumento del sentimento indipendentista a livello popolare, che la dirigenza di CiU crede poter interpretare in funzione e senso conservatore per distrarre l’attenzione da tagli e disoccupazione, ossia dalle sue responsabilità politico-sociali. Esiste però anche un secondo problema che spinge CiU a convocare nuove elezioni. Il catalanismo conservatore ha bisogno di una nuova legittimazione, non solo a livello popolare, ma soprattutto a livello istituzionale. Oramai, la Spagna, sull’orlo del “commissariamento europeo”, ha intrapreso la strada di far pagare il suo deficit alle comunità autonome (le regioni diremmo noi). In questo scenario, l’autonomia catalana corre il rischio di veder sparire poco a poco quelle conquiste democratiche che in termini di devolution era riuscita a conquistare nei precedenti trent’anni, dopo decenni di dura lotta antifranchista. Quindi, con una maggioranza più forte, magari assoluta, CiU potrebbe al tempo stesso far tacere le critiche ai tagli e poter negoziare con Madrid l’obiettivo dell’autonomia fiscale, una delle ultime frontiere della devolution alla catalana.
In ultima analisi, la decisione di ricorrere a un plebiscito per rilegittimarsi è la risposta che CiU ha dato a una doppia sfida: quella rappresentata dai movimenti sociali e quella costituita dall’involuzione ricentralizzatrice che il governo del PP sta portando avanti. Per fare questo CiU sceglie di ricorrere al sentimento indipendentista per far dimenticare i tagli e avere più forza nel negoziato con Madrid. A questo punto, però, entrano in gioco altri due attori con i quali CiU deve fare i conti. Il primo è il nazionalismo spagnolo, il secondo è l’indipendentismo popolare in forte crescita. Sebbene la vulgata mass-mediatica definisca come nazionalismo solo quello delle cosiddette nazioni senza Stato, i più recenti studi sul nazionalismo hanno dimostrato ampiamente (e continuano a dimostrare) che è nazionalismo anche quello invisibile e non detto fomentato dalle istituzioni dello Stato-nazione e difeso dal suo sistema dei partiti. Inoltre, contrariamente a quanto si è abituati a scrivere e pensare in Italia, nazionalismo non è sinonimo di fascismo ma solo difesa della nazione immaginata di appartenenza. Nel caso spagnolo, poi, sono spesso i nazionalismi periferici a veder nascere esperienze nuove, radicalmente antagoniste, anticapitaliste, rivoluzionarie, antirazziste e antifasciste, spesso contro l’offerta politica anchilosata dei partiti spagnoli. Da questo punto di vista, tanto il PP come il PSOE rappresentano esempi di nazionalismo spagnolo, sebbene con modulazioni differenti. Nelle ultime tre decadi di storia democratica il nazionalismo spagnolo e quello catalano hanno percorso strade differenti. Mentre Madrid si preoccupava sempre di più di riassimilare la differenzialità basca, catalana e galiziana, baschi e catalani (i galiziani sono in un’altra interessante fase) hanno percorso il cammino opposto. Nel caso concreto di cui qui ci occupiamo, le forze catalaniste hanno creduto di poter fare opera di didattica nei confronti delle élites spagnole. Basti vedere l’investimento economico che ha fatto la Generalitat nel mantenimento di apposite strutture di propaganda e diffusione proprio a Madrid, per diffondere la cultura catalana tra gli altri spagnoli. Contemporaneamente, però, Madrid non si preoccupava di accogliere e valorizzare questa differenza e socializzarla in tutta la Spagna. In questi anni di vita a Barcellona e di viaggi nel resto della Spagna una delle cose che più mi ha sorpreso è stata la mancanza di conoscenza da parte di madrilegni e spagnoli in generale della realtà basca e catalana. Direi che, più che mancanza di conoscenza, si tratta di profonda distorsione della realtà, fino ad arrivare a fatti e argomentazioni surrealiste che non sto qui a illustrare per motivi di spazio. Ne consegue che possiamo affermare che le élites politiche spagnole non hanno avuto alcun interesse né voglia di socializzare l’idea della diversità affinché non potessero darsi le basi per la costruzione di uno Stato plurinazionale.
Questa situazione ha generato quello che è, a nostro parere, il secondo problema di CiU. Il partito di Mas può esser approdato recentemente a un certo discorso a favore dell’autodeterminazione, magari pro-indipendentista, ma ci arriva buon ultimo e tiratoci malavoglia per la giacca. All’interno del nazionalismo catalano l’opzione indipendentista è sempre stata minoritaria fino a tempi molto recenti. La sua strutturazione avviene nel 1968 con la nascita del Partit Socialista d’Alliberament Nacional (PSAN), legata a doppio filo con un’ipotesi rivoluzionaria di liberazione nazionale di tipo terzomondista e la definizione di una territorialità che concerne tutti i Països Catalans, ossia tutte le terre catalanoparlanti (Catalogna, Valenzia, Baleari, Catalogna francese). Questa ipotesi politica e territoriale, è stata sino a poco tempo fa patrimonio di movimenti di base con poca rappresentanza e continuità politica. Per questioni di spazio e complessità rinviamo la questione dei Països Catalans ad un altro articolo e ci concentreremo sull’auge indipendentista. In un certo senso possiamo affermare che l’attuale ondata indipendentista nasce proprio dal fallimento della linea autonomista fatta da tutto il catalanismo (nazionalismo incluso) durante gli ultimi trent’anni. Presto o tardi gli storici dovranno affrontare questa tema e, probabilmente, troveranno nel fallito processo di riforma della Statuto di Autonomia catalano molte delle ragioni di fondo che oggi stanno alla base del scontro politico tra Barcellona e Madrid. Il 30 settembre del 2005, il Parlamento catalano vota con circa l’80% dei voti, un nuovo testo della Carta de regola l’autonomia catalana all’interno dello Stato spagnolo: votano a favore tutti i partiti catalani allora al governo autonomo (socialisti, Esquerra Republicana de Catalunya-ERC, Iniciativa per Catalunya-ICV, che sarebbe la Rifondazione catalana) più CiU, mentre il PP vota no.
Precedentemente, nella campagna elettorale che l’avrebbe portato alla Presidenza del governo spagnolo, José Luis Rodríguez Zapatero, promette che avrebbe appoggiato e rispettato il testo che i catalani avrebbero approvato a Barcellona. La realtà delle cose fu ben diversa. Il testo dovette passare per le Forche Caudine delle Cortes spagnole, dove fu ampiamente ritagliato in alcune sue importanti parti. Protagonisti dell’accordo del nuovo testo furono il buon Zapatero (eroe per caso e riferimento della sinistra italiana durante alcuni anni) e il futuro “indipendentista” Artur Mas. CiU e socialisti accordarono un secondo testo che, stavolta, arriverebbe al vaglio referendario della cittadinanza, superandolo senza troppa brillantezza né entusiasmo il 18 giugno del 2006. A questo punto, il PP presenta un ricorso d’incostituzionalità presso il Tribunale Costituzionale. In un clima costellato da ridicole scene da basso impero, l’alto tribunale garante della legalità costituzionale impiega quattro anni per dichiarare fuori legge parti sostanziali del testo. All’indomani della sentenza, il 10 luglio 2010, un’oceanica manifestazione precorre le strade di Barcellona. Se la precedente manifestazione, quella del 2006, aveva rivendicato la difesa del testo approvato democraticamente dal parlamento catalano, quel 10 luglio avviene un salto di qualità assolutamente inedito. Gli slogan a favore dell’autonomia vengono sostituiti da quelli a favore dell’autodeterminazione. Parallelamente, si sviluppa, prima nei piccoli centri poi a seguire fino alle grandi città arrivando anche alla capitale, un movimento di consulte popolari a favore dell’autodeterminazione che, più che essere una forma di consulta effettiva, si trasforma in un’enorme strumento pubblicitario a favore dell’opzione indipendentista. A questo punto è necessario fare due considerazioni. La prima, che tutto questo processo è stato accompagnato da continui richiami da parte del nazionalismo spagnolo all’inviolabilità dell’unità della nazione spagnola, usando alla bisogna il testo costituzionale come giustificazione legale, senza mai preoccuparsi dell’effettiva volontà popolare. La seconda, che a grandi linee quelle parti del testo statutario tagliate a due riprese, dal 2005 al 2010, rappresentano oggi la base della rivendicazione indipendentista. Le forze politiche catalaniste cercarono di rinegoziare il patto con la Spagna, sulla base di una maggiore autonomia ma, il PSOE prima e il PP poi, hanno rispedito al mittente la missiva. Le questioni in ballo sono, a grandi linee e scegliendo solo quelle più rappresentative anche simbolicamente: l’autonomia culturale ed educativa totale, l’autonomia fiscale e la presenza in Europa in quelle faccende che possano riguardare direttamente il paese. Su questi e altri punti la Spagna non ha intenzione di cedere competenze, quindi l’opzione indipendentista diventa l’unica via per ottenere queste competenze.
Questo è, a grandi linee, lo scenario che precede queste elezioni catalane. Non è possibile fare alcuna valutazione del voto se non si tengono presenti, almeno, le questioni che abbiamo appena riassunto. Si arriva così alla convocazione di queste elezioni appena celebrate, con un’ulteriore dato simbolico, però profondamente politico. Il 27 settembre scorso il Parlamento vota a favore della celebrazione di una consulta referendaria sull’autodeterminazione: votano a favore CiU, ERC, ICV, la lista di Solidaritat Catalana e un importante dissidente socialista, sommando un’amplia maggioranza assoluta di 84 deputati su 135; i restanti 25 parlamentari socialisti si astengono mentre i 18 del PP e i 3 del partito populista-centralista Ciudadanos (C’s) votano contro. Ci permettiamo di commentare che dal punto di vista della logica strettamente democratica, se la maggioranza dei rappresentanti di un paese o regione o altro, decide qualcosa, è questo qualcosa che dovrebbe contare al di sopra di tutto il resto. È certamente vero che vi sono dei limiti, devono esserci. Un parlamento che decide di aggredire un altro paese o comunità, che avvia pratiche di oppressione e discriminazione, che minaccia con misure economiche inique e ingiuste la sopravvivenza dei suoi cittadini, ecc., perde ovviamente qualsiasi legittimità. Ma non è questo il caso della Catalogna, anche se, bisogna dirlo, le recenti misure di austerità e la loro unidirezionalità degli ultimi due anni, tanto a Barcellona come a Madrid, hanno tutto il sapore del pogrom sociale. Però nessuno si è sognato, purtroppo, di impugnare come criminali i governi di Madrid, Atene, Roma, ecc… A nostro modo di vedere, le Costituzioni servono per incamminare sui binari della formalizzazione dei diritti e doveri la vita dei popoli, ma quando una Costituzione viene usata per limitare la libera decisione della cittadinanza, questa perde di legittimità. Si configura, a nostro modo di vedere, una netta e chiara contraddizione tra legalità e legittimità. E qui veniamo al punto centrale. Oggi in Catalogna e in Euskal Herria, la Costituzione spagnola del 1978 è certamente legale ma sta perdendo legittimità, se non l’ha già persa.
La campagna elettorale che ci siamo lasciati alle spalle ci ha consegnato un panorama ideologico abbastanza chiaro, sebbene in progress e suscettibile di cambiamenti. È stata una campagna elettorale segnata dalla questione nazionale, in entrambi gli schieramenti. Lo schieramento nazionalista spagnolo ha presentato due posizioni. I socialisti catalani sono ritornati all’offerta della riforma federalista che si ventilò brevemente all’epoca di Zapatero. La credibilità di questa ipotesi ha due enormi punti deboli. In primo luogo, l’assenza di consenso con il PP rispetto ad una riforma costituzionale in questo senso; cosa che fa sembrare il progetto socialista l’ennesima boutade elettorale valida per attrarre voti per poi rimetterla immediatamente nel cassetto. In secondo luogo, nelle stesse fila socialiste la questione federalista non sembra incontrare né consensi né entusiasmo. Rispetto alla delegazione catalana del PP, questa si è resa protagonista di una campagna che potremmo definire d’ipertrofia nazionalista. La sempre abbronzata candidata popolare non ha fatto altro che ripetere che bisognava rispettare la Costituzione, impedire la separazione dalla Spagna, fermare con ogni mezzo qualsiasi tentativo di consultare la cittadinanza sulla questione dell’autodeterminazione. In un video di campagna, il PP ha cercato di dimostrare la spagnolità della Catalogna affermando che cognomi come García e nomi come María non possono che essere spagnoli. I nazisti definirono l’identità attraverso la razza, i popolari spagnoli evidentemente lo fanno attraverso l’onomastica e l’araldica. In una linea intermedia tra socialisti e popolari, incontriamo Ciudadanos, che si autodefinisce come il partito delle cittadinanza. Ciò che unisce le persone, gli esseri umani, secondo questa piattaforma civica, il cui leader assomiglia in modo pericoloso a Casini, sarebbe la cittadinanza e quello che unisce gli spagnoli sarebbe la cittadinanza spagnola. Da questo modello escludente e populista, restano esclusi tutti coloro che non hanno una carta d’identità spagnola. Secondo loro, i catalani sono spagnoli per forza anche se non volessero esserlo, mentre gli stranieri (me incluso) non avrebbero accesso ai diritti di cittadinanza per il semplice fatto di non avere la nazionalità spagnola. La cosa più ridicola è che questo discorso viene spacciato (mai termine sarà più azzeccato!) come la quinta essenza del progressismo umanista. Questa piattaforma, che non perde occasione per lanciarsi contro le leggi di discriminazione positiva che garantiscono l’insegnamento pubblico in catalano nelle scuole, è ovviamente contraria alla celebrazione di un referendum. Ciudadanos, come PP e PSOE, dichiara di difendere la democrazia ma non vuole che la popolazione si pronunci; un’evidente contraddizione in termini. Perché, è bene ricordarlo, oggi in Catalogna non si sta discutendo tra chi è a favore e chi contrario all’indipendenza bensì tra coloro che sono favorevoli alla celebrazione di un referendum e coloro che sono contrari a che solamente si possa convocare. Lascio a voi la libertà di considerare da che parte stanno i democratici. A questo bisogna aggiungere le estemporanee ma significative dichiarazioni di militari in pensione che hanno reclamato l’uso dei carri armati per impedire la secessione.
Rispetto allo schieramento favorevole alla celebrazione di un referendum, troviamo certamente un maggiore pluralismo. Innanzitutto CiU, ha costruito una campagna con episodi di imbarazzante autoironia involontaria. Il manifesto di campagna presentava il candidato, Artur Mas, con le braccia aperte nella stessa postura che il Mosè interpretato da Charlton Heston ha consegnato alla storia della cinematografia mondiale. Oltre questo infelice parallelismo, CiU ha presentato queste elezioni come un plebiscito a favore del suo candidato. Questi non ha parlato di questioni sociali è ha continuamente evitato di concretizzare, anche solo dal punto di vista discorsivo, quale fosse il progetto o percorso verso la sovranità della Catalogna. In realtà, è bene ricordarlo, tutti sono caduti nel tranello dialettico ordito da CiU. Tutti hanno finito per parlare d’indipendenza, tranne CiU, e la stampa è caduta, non sappiamo se consapevolmente venduta o ciecamente ignorante, nel tranello. In realtà Mas non ha mai parlato d’indipendenza e, quando incalzato da qualche giornalista sul tema, ha tirato fuori dal cappello il concetto strutture di stato proprie. Questo concetto non è un’invenzione dell’ultimo momento bensì il progetto politico cui il nazionalismo catalano conservatore sta lavorando da anni. Si tratterebbe di una rinegoziazione delle relazioni con Madrid, in cui la Catalogna dovrebbe ottenere quote massime di autonomia, esclusive e blindate nel caso di educazione, finanze e giustizia, restando però all’interno della Spagna e rinnovando l’adesione a questa. Tutto ciò dovrebbe farci riflettere circa la reale volontà da parte delle borghesie nazionali, catalana e basca anche, di costruire uno Stato proprio, quando i loro stessi programmi fanno riferimento in maniera continua a sussidiarietà e strutture multilivello dove, ovviamente, l’ultima parola spetta all’istituzione autonoma e non allo Stato. In un momento in cui le stesse borghesie degli stati-nazione stanno cercando di sbarazzarsi di pesanti e onerose strutture come quelle del welfare, sembrerebbe quantomeno strano che altre borghesie vogliano rientrare in questo gioco. Non sono necessarie grandi doti di astrazione politica per sospettare che CiU stesse giocando col fuoco. Cercare di capitalizzare una manifestazione di massa, di un milione e mezzo di persone a favore dell’indipendenza, per fini diversi se non addirittura opposti, può essere pericoloso. Se poi questo si fa con lo scopo di coprire due anni di tagli allo stato sociale e ottenere un nuovo mandato per continuare sulla stessa linea, la pericolosità è estrema.
È a nostro avviso significativo il fatto che le due principali forze di opposizione a CiU si trovassero proprio all’interno del fronte a favore dell’autodeterminazione: una, critica sul tema dell’indipendenza, l’altra, sulla questione sociale. La prima, ERC, è un partito indiscutibilmente indipendentista, almeno dal 1996, di orientamento social-democratico, assertore deciso della possibilità e urgenza di convocare in maniera autonoma un referendum, contro e nonostante le leggi spagnole. Il cavallo di battaglia di questo partito è la denuncia del deficit fiscale che la Catalogna ha nei confronti di Madrid: se il Parlamento catalano potesse amministrare autonomamente tutte le proprie risorse, non sarebbe necessario tagliare il walfare. Ergo, l’indipendenza sarebbe un beneficio immediato per tutti. La questione del deficit fiscale è una verità matematica difficilmente confutabile ma l’uso che si fa delle risorse è sempre una questione politica. Diremmo quindi che, se è vero che la mancanza di risorse della Generalitat è colpa di Madrid, è invece piena responsabilità di Barcellona il modo in cui queste risorse vengono utilizzate e beneficio di chi sul territorio. La questione non è a mio modo di vedere assimilabile alla vicenda italiana della Lega Nord. E questo per due motivi. In primo luogo, perché in Catalogna non è accompagnata dagli episodi di xenofobia che Borghezio e compagnia ci hanno abituato a vivere. In secondo luogo, perché la struttura istituzionale delle autonomie spagnole, e di quella catalana in particolare, rende la situazione differente. In sintesi, l’autonomia catalana ha delle competenze trasferite dallo Stato ma se questo non trasferisce anche le risorse economiche per soddisfare le esigenze dei cittadini, il collasso è garantito. Questo accade, ad esempio, con la sanità. Oggi la Generalitat (il governo catalano) deve provvedere all’assistenza sanitaria pubblica ma dipende dal finanziamento di Madrid per soddisfarle. Detto in altri termini, Madrid non restituisce a Barcellona ciò che la Catalogna produce come pressione fiscale ma la responsabilità politica del cattivo funzionamento della sanità ricade su governo catalano perché si tratta di una competenza trasferita. Ora, per far comprendere il grado di polemica politica che si è raggiunto recentemente, basterà citare Alfonso Guerra, importante figura del PSOE, che ha dichiarato che denunciare il deficit fiscale significava fare un discorso xenofobo. Le cose sono due: o il signor Guerra (cognome affatto rassicurante) non sa di cosa sta parlando o sta intenzionalmente cercando di seminare odio e disinformazione. Il secondo partito in questione, ICV, che come abbiamo anticipato è la Rifondazione/Federazione della Sinistra catalana, è a favore dell’autodeterminazione, che figurava in maniera esplicita nel suo programma elettorale, accanto alla critica sociale e volontà di presentarsi come la rappresentanza politica dei movimenti sociali. Sono stati appoggiati da Syriza. A questo panorama di aggiunge un’altra piccola forza indipendentista, Solidaritat Catalana per la Independència (SI), che non è altro che un fronte/coalizione di forze, tra cui lo storico PSAN.
Le elezioni di domenica innanzitutto ci hanno consegnato la più alta percentuale di partecipazione della storia recente dell’autonomia catalana, con un 69,56%. CiU ha ottenuto 1.112.341 voti pari al 30,68% e 50 seggi. Con questi numeri il partito del governo uscente perde circa 90.000 voti e 12 deputati. ERC, supera socialisti e popolari e balza come seconda forza politica, passando da 219.173 a 496.292 voti, pari al 13,69%, ottenendo 21 seggi. I socialisti scendono dal 18,38% al 14,44%, con 20 seggi. I popolari guadagnano circa 90.000 voti e con il 13% ottengono 19 deputati. ICV passa da 230.824 a 358.857 voti, pari al 9,90% e 13 deputati. Ciudadanos balza in avanti da 3 a 9 deputati, con 274.925 voti pari al 7,58% dei consensi. La Candidatura d’Unitat Popular-Alternativa d’Esquerres (CUP-AE) irrompe in parlamento con 126.219 voti, pari al 3,48% per un totale di 3 deputati. I 46.608 voti di SI non si convertono in seggi mentre il partito xenofobo regionalista anti-indipendentista, Plataforma per Catalunya, non entra in Parlamento nemmeno stavolta. La prima considerazione da fare è che CiU, vincitrice delle elezioni con larghissimo margine, non è riuscita a convincere l’elettorato, né della necessità dei tagli né delle sue buone intenzioni indipendentiste. Non solo non ottiene la maggioranza assoluta che aveva ripetutamente chiesto in prestito, ma perde ben 12 seggi. Al contrario, gli altri partiti indipendentisti o favorevoli all’autodeterminazione, però variamente contrari alle politiche antisociali di CiU, crescono in maniera evidente, se non spettacolare. Soprattutto nel caso di ERC, questa formazione si trasforma nel più importante partito indipendentista della Catalogna. La somma dei partiti indipendentisti arriva a 74 seggi su 135, mentre quella dei favorevoli all’autodeterminazione e/o consulta supera i valori del precedente parlamento, arrivando a 87, quasi i 2/3 della camera. Secondo una pura e semplice logica democratico-parlamentare, i partiti che difendono e rivendicano l’unità della nazione spagnola sono nettamente minoranza in Catalogna. Tutto quello che si può dire di più, sul fronte nazionalista spagnolo in Catalogna, andrebbe analizzato sul piano dei flussi elettorali all’interno di un campo che è minoranza assoluta. A tale proposito, formuliamo un’ipotesi, certamente provocatrice. Per fare questo dobbiamo abbandonare seggi e percentuali e focalizzare la nostra attenzione sul numero dei voti. Il numero di consensi che ha perso CiU è quasi identico a ciò che ha guadagnato il PP. Questo potrebbe voler dire che una parte di elettori conservatori e non indipendentisti che votano di solito CiU, non ha digerito la svolta indipendentista di Mas e vuole continuare sulla via dei tagli allo stato sociale. Una parte del voto socialista si è dispersa tra opzioni più a sinistra o più catalaniste o più spagnoliste. Da questo punto di vista è significativo, e doveroso, sottolineare che importanti figure del PSOE, come un José Bono per nulla contento del sempre pericoloso richiamo al progetto federalista, hanno partecipato più alla campagna di Ciudadanos che a quella dei socialisti catalani; o che il cosiddetto settore catalanista del PSOE stia lentamente defilandosi dal partito fino ad arrivare all’abbandono, come nel caso di Ernest Maragall che ha fatto appello a votare per formazioni si sinistra favorevoli all’autodeterminazione (ERC, ICV quindi). Detto questo con tutta la cautela del caso, sarebbe davvero un fatto inedito per la Catalogna verificare l’esistenza di vasi comunicanti tra i partiti nazionalisti spagnoli, cosa questa più tipica del voto basco fino ad oggi. In ogni caso, la crescita di Ciudadanos, l’aumento di ERC e ICV e l’irruzione della CUP-AE, rispondono anche all’aumento di partecipazione e alla doppia polarizzazione del voto, sia in senso nazionalista che ideologico.
Lasciamo intenzionalmente per la fine quella che consideriamo essere la maggiore novità, in prospettiva storico-politica, di queste elezioni, il successo elettorale della CUP-AE. Se tutte le altre liste rappresentano una maniera più o meno di destra o di sinistra di gestire la cosa pubblica, cioè di amministrare un marchingegno costruito da altri per interessi ben precisi, la unitat popular si presenta come qualcosa di altro e diverso, tanto sul versante politico-ideologico come su quello identitario-nazionale. Nata come candidatura essenzialmente municipalista negli anni ottanta, la CUP stava dibattendo da tempo circa l’opportunità e utilità della partecipazione alle elezioni autonomiche. Non vi è dubbio che la concomitante crescita dei movimenti sociali contro i tagli e del movimento popolare indipendentista, hanno portato la CUP verso una decisione che solo qualche mese fa non pensava prendere. Questa candidatura che, è bene ricordarlo non è un partito, ha alle spalle una lunghissima pratica di democrazia diretta e partecipativa nei comuni in cui è presente. In alcuni comuni in cui governa, ha avviato l’esperimento della ripubblicizzazione dei cosiddetti beni comuni, municipalizzando l’azienda dell’acqua che era stata in precedenza svenduta ai privati. Il movimento delle consulte popolari a favore dell’autodeterminazione, poi estesosi a tutta la Catalogna, ha avuto origine proprio in un comune governato dalla CUP e per iniziativa dell’amministrazione locale, Arenys de Munt. Il tre deputati ottenuti dalla CUP-AE sono stati il frutto di una campagna elettorale condotta a livello di base, in continuità con le lotte sociali per la sanità pubblica, contro i tagli all’educazione, contro gli sfratti, attraverso anche l’ultimo sciopero generale del 14 novembre. Nonostante una legge elettorale cervellotica che, tra le altre cose condanna all’invisibilità mediatica le liste senza precedente rappresentanza in parlamento, questo è il voto dei movimenti sociali e dell’indipendentismo politico più limpido. L’indipendentismo della CUP si fonda su di un concetto largo e amplio di autodeterminazione, come decisione a 360 gradi su tutte le questioni che riguardano la popolazione, dall’indipendenza nazionale al tipo di organizzazione sociale e istituzionale che la Catalogna indipendente dovrebbe avere. Perché la sinistra indipendentista aggregata attorno al paradigma dell’unità popolare, è l’unica forza in campo che non si limita a chiedere una consulta per costruire un nuovo Stato europeo chiamato Catalogna, ma si preoccupa di che tipo di Stato sarà questa Catalogna. E questo nuovo paese dovrebbe essere, secondo il programma della CUP, uno Stato sovrano più che indipendente, per poter decidere in materia economica, energetica e alimentare; un paese che non si dovrà più sottomettere alle logiche dell’alta finanza, smettendo così di pagare e finanziare il debito della banca; un paese che, attraverso un processo aperto, possa includere tutte le terre della catalanofonia nel processo di liberazione nazionale; un paese in cui la principale preoccupazione siano i tre milioni di poveri, i due milioni di disoccupati, gli 80.000 sfrattati, secondo la logica della suddivisione del lavoro e il ripartimento della ricchezza; un paese in cui i servizi pubblici e di qualità siano prioritari e gratuiti e l’acqua e l’energia al servizio della collettività e non fonte di speculazione. La CUP rappresenta oggi il Cavallo di Troia dell’anticapitalismo all’interno delle istituzioni democratico-borghesi e rappresentative della Catalogna. E si dà il caso che questa formazione sia anche la forza più chiaramente indipendentista di tutto panorama politico catalano. E questo perché il processo di uscita dalla Spagna, è visto come l’occasione per costruire un altro Stato, migliore, basato sulla giustizia sociale e la sovranità popolare, in un momento in cui i parlamenti si sono trasformati in semplici camere amministrative, dove si adottano e modulano decisioni di massima prese altrove. Ecco, se c’è una differenza tra la Catalogna e la Spagna è che quest’ultima, nonostante la crisi, non ha saputo costruire alternative visibili e ha consegnato il governo, e la maggioranza assoluta, alla destra neoliberale, palazzinara, finanziaria e istericamente nazionalista del PP. La strada è lunga, il cammino è segnato, la storia del futuro si sta scrivendo in questi mesi.
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