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Cos’è successo veramente il 7 ottobre del 2023?

Questa data segnerà nella Storia dell’umanità uno spartiacque imprescindibile. Il ricercatore, esperto di politica internazionale Roberto Iannuzzi ha appena pubblicato l’esito di una sua approfondita inchiesta sul 7 ottobre, edito dalla Fazi Editore. Il libro si intitola ” Il 7 ottobre tra verità e propaganda. L’attacco di Hamas e i punti oscuri della narrazione israeliana”.

Il 7 ottobre il mondo si è svegliato e ha riscoperto che c’è un popolo che da più di 75 anni subisce uno sterminio programmato, una eliminazione etnica, fisica e culturale, un’occupazione violenta in una prigione a cielo aperto? Non è successo. Perché? Perché la pianificazione della propaganda lo ha impedito.

Una propaganda intrisa di falsità, di notizie atroci mai verificate e subito smentite, diffuse da un’organizzazione privata ingaggiata dal governo israeliano, che “stranamente” non ha utilizzato i reparti dedicati del proprio esercito, e da misteriosi personaggi come Shari Mendes, un’architetta americana, senza alcuna credenziale medica o forense, che serviva nell’unità rabbinica delle IDF.

Dall’attacco di Hamas, ogni giorno, ogni istante, ci sentiamo ripetere che Israele ha “esagerato nella reazione “, uccidendo come animali più di 40.000 persone inermi, donne e bambini, medici, volontari, operatori delle ong, distrutto ospedali e scuole anche dell’ONU: reazione alle “terribili, indicibili, atrocità dei terroristi di Hamas”.

Si è parlato di stupri come arma di guerra, di 40 bambini decapitati, di bambini bruciati nei forni, di mutilazioni, persino di una donna incinta sventrata. Tutte queste notizie non trovano riscontro e Roberto Iannuzzi analizza come fonti proprio la stampa israeliana e quella statunitense.
Nessun complottismo, quindi, ma una necessaria disamina per cercare di ristabilire la verità storica su prove documentali e distinguere la gramigna della propaganda horror costruita a tavolino, atta a “giustificare” il genocidio.

 I punti fondamentali che il libro analizza sono:

– il ruolo dell’intelligence israeliana: non poteva non sapere, perché già da un anno aveva il piano di Hamas, di 40 pagine, nei minimi dettagli. Non poteva non sapere perché la zona occupata è la più controllata del mondo…

– cosa è successo veramente il 7 ottobre? Chi sapeva del rave? In quali punti  e come esattamente è avvenuto l’attacco? Chi ha ucciso chi? Perché non sono state eseguite autopsie?

Poiché ancora oggi chiunque parli di Palestina, denunciando un genocidio atroce in diretta streaming per la prima volta nella Storia, viene accusato di antisemitismo e deve comunque premettere “condanno Hamas”, dando per scontate e assodate le narrazioni filo-sioniste, è coraggioso cercare di fare luce su quello che è stato veramente il 7 ottobre.

È importante tentare di porsi dubbi, cercare prove, verificare i riscontri.
Ed è proprio questo che il libro ci propone: uscire dalla narrazione acritica e analizzare la realtà documentale.
Ringraziando Roberto Iannuzzi per questo mirabile esempio di giornalismo d’inchiesta, gli chiediamo anche quali siano secondo lui i punti salienti della sua analisi e perché è così importante.

D: Tu affronti anche la storia di Hamas, ci parli di Gaza e della Cisgiordania: anche qui, quali sono i miti negativi da sfatare?

R: “Beh, innanzitutto è interessante ripercorrere un po’ la storia di Hamas, i cui uomini sono stati invariabilmente descritti come mostri disumani. Risalendo alle origini di questo movimento, si scopre che nasce da un’organizzazione, Al-Mujamma’ al-Islami, che era addirittura apolitica. Si trattava infatti di una rete che svolgeva attività sociali e caritatevoli, e lasciava a gruppi come il laico Fatah guidato da Yasser Arafat il compito di opporsi all’occupazione israeliana.

La trasformazione avviene durante la prima Intifada, a partire dalla fine del 1987, quando il movimento aderisce alla rivolta contro Israele. Ma anche l’adesione alla lotta armata conosce fasi differenti, dagli attacchi rivolti esclusivamente contro obiettivi militari, al terrorismo anche suicida contro obiettivi civili, all’adesione nuovamente a una forma di protesta pacifica durante la “Marcia del Ritorno” del 2018 lungo la recinzione di Gaza. Anche in quest’ultimo caso, però, l’esercito israeliano reagì con inaudita violenza, lasciando sul terreno 214 palestinesi, e soprattutto provocando oltre 36.000 feriti, molti dei quali subirono danni permanenti e amputazioni causate dalle pallottole a espansione utilizzate da Israele.

Vale poi la pena ricordare che sia l’intelligence che i governi israeliani hanno in realtà appoggiato l’ascesa di Hamas, perché era un utile contrappeso a Fatah, frammentava il fronte palestinese, e sollevava Israele dall’onere di negoziare, adducendo la scusa che il fronte palestinese era diviso, e che dunque non c’era un partner con cui poter concordare la nascita di uno Stato palestinese.

Del resto, basta dare un’occhiata alla Cisgiordania, dove a governare non è Hamas ma l’Autorità Nazionale Palestinese del presidente Abu Mazen, per rendersi conto che l’oppressione israeliana non dipende dalla presenza del movimento islamico palestinese. Proprio nei mesi precedenti il 7 ottobre, in Cisgiordania si era registrato un grave inasprimento delle condizioni di vita dei palestinesi a causa delle dure misure imposte dal governo Netanyahu, delle incursioni armate delle forze israeliane, della violenza perpetrata dai coloni. Anche Gaza ribolliva di malcontento. La situazione in Israele e nei territori palestinesi occupati non era affatto pacifica prima del 7 ottobre. Era solo stata dimenticata.”

D: Netanyahu è veramente in difficoltà?

R: “Sia la mozione sudafricana alla Corte Internazionale di Giustizia, sia la richiesta di un mandato d’arresto per Netanyahu da parte del procuratore della Corte Penale Internazionale, macchiano gravemente la reputazione del premier israeliano. Fin quando egli gode della protezione americana, egli può sentirsi relativamente al sicuro, ma il suo vero problema è che malgrado l’immane distruzione provocata a Gaza, egli non è riuscito ad annientare il suo avversario, Hamas.

D: Perché nessuno sa fermare il suo piano di distruzione?

R: “Gli unici che potrebbero fermarlo sono gli americani. Basterebbe che Washington bloccasse il flusso ininterrotto di armi che ha permesso alla macchina bellica israeliana di funzionare in tutti questi mesi. Ma Biden dipende dai finanziamenti della lobby israeliana negli USA per la sua campagna presidenziale. Ha dimostrato più e più volte di non essere in grado di esercitare alcuna pressione reale su Netanyahu. Intanto però il danno d’immagine per l’America, e per lui in particolare, è gravissimo, in particolare nel mondo non occidentale. Ma negli stessi Stati Uniti Biden rischia di giocarsi la rielezione, anche per questo motivo.”

D: Perché anche in occidente, nonostante manifestazioni oceaniche e occupazioni accademiche, è scattata la persecuzione di chi cerca di solidarizzare col popolo palestinese?

R: “Qui in Occidente abbiamo un grave problema, che si è manifestato non solo nel caso del 7 ottobre, ma anche con la crisi ucraina, e in precedenza con le varie guerre mediorientali, dalla Siria, alla Libia, all’Iraq. I mezzi d’informazione “mainstream” impongono una narrazione fittizia, che solitamente è quella che fa comodo ai nostri governi, la quale impedisce una corretta lettura di ciò che realmente sta avvenendo.

Chiunque si oppone viene demonizzato e accusato di “collusioni” col nemico di turno, dalla Russia a Hamas. Sulla base di queste narrazioni distorte, tuttavia, vengono prese decisioni politiche disastrose e controproducenti. Per questo il tema della narrazione, e della ricerca della verità, è così centrale nel mio libro. Il 7 ottobre è un caso paradigmatico, ma non è l’unico.

Fino a quando verrà imposta una narrazione manipolata dei conflitti e delle crisi nelle quali ci dibattiamo, conflitti e crisi non faranno che aggravarsi. Il primo passo per invertire la rotta è uscire dalle narrazioni fittizie nelle quali siamo sprofondati, e cercare di ristabilire la verità.”

D: Sulla base della tua conoscenza delle questioni mediorientali, quale sarà, a tuo parere, l’evoluzione della “questione palestinese”, anche nel quadro attuale di evoluzione del mondo multipolare e delle prossime elezioni presidenziali statunitensi?

R: “Purtroppo in questo momento una soluzione appare lontanissima. Sia Israele che gli USA si trovano in una impasse strategica. In Israele c’è una leadership non solo politica, ma anche militare e di intelligence, completamente delegittimata dal “fallimento” del 7 ottobre.
Se la guerra finisse, arriverebbe la resa dei conti interna. Prolungare il conflitto allontana questo momento, e accontenta le frange più estreme del governo che vorrebbero liquidare una volta per tutte la questione palestinese.

Ma la realtà sul terreno sta diventando via via più insostenibile: il crescente fardello economico imposto dallo sforzo bellico, la sempre più accesa condanna internazionale, mentre Hamas nonostante tutto è ancora lì. E questa paralisi è aggravata dal dissidio fra Casa Bianca e governo Netanyahu sugli scenari post conflitto a Gaza. Gli USA vorrebbero riportare l’amministrazione dell’ANP anche nella Striscia, ma Netanyahu si oppone perché non vuole la riunificazione di Gaza e Cisgiordania sotto un unico governo palestinese.

Gli israeliani sono contrari a qualsiasi prospettiva di Stato palestinese, e gli stessi americani che a parole la sostengono, nel loro piano trapelato recentemente sulla stampa israeliana propongono solo una ripresa dei negoziati, senza alcuna garanzia sull’esito finale. Una soluzione inaccettabile per i regimi arabi che dovrebbero contribuire alla ricostruzione di Gaza, i quali non possono giustificarla di fronte alle rispettive opinioni pubbliche.

Nel frattempo permane il rischio di un allargamento del conflitto, soprattutto alla luce della continua escalation fra Israele e Hezbollah sul confine libanese. La situazione è potenzialmente esplosiva, con un’amministrazione USA debole, impegnata su troppi fronti, dall’Europa al Pacifico, e distratta dalla battaglia presidenziale di novembre, una sfida a sua volta dall’esito estremamente incerto. Come scrivo alla fine del libro, siamo davvero in acque inesplorate.”

*da L’Antidiplomatico

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