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Il caso di Giuseppe Uva diventa un documentario

 

Il processo per cercare di far luce sul caso è ancora in corso, con una guerra di perizie e controperizie che si annuncia ancora lungo. Adesso, Adriano Chiarelli, 31 anni, assistente alla regia di Paolo Sorrentino e Matteo Garrone, sceneggiatore e autore del libro Malapolizia (Newton Compton Editore, 288 pp, 9.50 euro) sulle morti causate dagli uomini in divisa, sta lavorando a un documentario per raccontare la storia di Giuseppe Uva e portare a galla una verità scomoda per quanto assurda, una di quelle vicende in cui la banalità del male si mischia con la nebbia dei tribunali senza soluzione di continuità.

 

Tra tanti casi di ‘Malapolizia’, come li chiami tu, usciti fuori negli ultimi anni, come mai l’idea di concentrarsi proprio sul caso di Giuseppe Uva?

 

“I motivi sono diversi.  L’aspetto più importante è l’estrema complessità di questo caso, che presenta elementi molto interessanti da raccontare in un documentario. Le presunte colpe delle forze dell’ordine, ammesso che esistano, restano tutte da dimostrare. Per questa ragione, tutta la storia di Giuseppe Uva si sviluppa su due livelli: uno giudiziale e uno extra-giudiziale. In aula si discute di colpe mediche che, alla luce delle ultime udienze, sembrano non sussistere.  A livello extragiudiziale si parla di tutt’altro: si parla di quelle tre ore che Uva ha trascorso in caserma e che a oggi non sono ancora state né ricostruite, né chiarite. è su questo che Lucia Uva e le sorelle, costituitesi parti civili, insistono da quattro anni. È in quelle tre ore in caserma che va ricercata l’origine di tutto ciò che finora è stato accertato. Perché Giuseppe aveva tutte quelle tumefazioni? Perché il suo cuore ha ceduto per una “tempesta emotiva”? La domanda a cui si cerca incessantemente una risposta è sempre la stessa: cos’è successo nella caserma dei carabinieri di Via Saffi? Persino i periti del giudice ripropongono nella loro perizia questa domanda. Dicono più volte: per capire tutto c’è bisogno di indagare su quell’arco di tempo che Giuseppe Uva ha trascorso nelle mani delle forze dell’ordine. Un altro motivo per il quale ho scelto di raccontare il caso di Giuseppe Uva, è stato il desiderio di proseguire la strada intrapresa con il libro Malapolizia. Il caso Uva farà scuola come il caso Aldrovandi, perché come quest’ultimo presenta in una sola volta tutte quelle caratteristiche di devianza e corruttela istituzionale. È questo ciò contro cui ci battiamo, non le forze dell’ordine in toto. Noi cerchiamo di portare avanti solo dei principi di legalità, allo stesso modo di coloro che si schierano contro le mafie, contro la corruzione, contro gli abusi sociali di ogni genere. E infine, l’avevo promesso a Lucia Uva e ai suoi familiari, e così è stato. Parlando di loro, si fa giustizia a tutte le vittime della violenza di Stato”.

 

Hai avuto problemi per trovare una produzione per il documentario?

 

“Sì, decisamente. Nel senso che non ho trovato un produttore vero che abbia investito denaro proprio. Il motivo è la paura di esporsi troppo nei confronti delle istituzioni. C’è un tabù inviolabile che si fa molta fatica a infrangere: non c’è ancora la percezione, nell’opinione pubblica, che anche lo Stato e i suoi rappresentanti possano sbagliare.  E di grosso anche. Pertanto ci sono stati alcuni produttori che all’ultimo momento si sono tirati indietro o sono addirittura scomparsi, dopo che avevo loro strappato un mezzo “sì”. Il documentario è autoprodotto.  Ho investito denaro mio e altri fondi reperiti da privati “illuminati”, quelli che un tempo si sarebbero chiamati mecenati. Determinanti sono stati anche i ragazzi di Bergamo dell’associazione Pacì Paciana, molto sensibili a queste tematiche. E ho avuto un cospicuo aiuto dalla produzione Soulmovie di Roma, che ha creduto nel progetto e ci ha messo a disposizione attrezzature di primissimo livello, che garantiranno al documentario un elevato standard  qualitativo. Insomma, ho messo in piedi una forma anomala di co-produzione, nuova ma molto valida”.

 

Parlaci della realizzazione del documentario. Quando dovrebbe uscire? Con chi stai lavorando?

 

“Restando in tabella di marcia, il docu-film dovrebbe essere pronto per settembre. Il 23 marzo chiuderemo la prima tranche di riprese, iniziate l’8 febbraio.  Torneremo a Varese per la sentenza del 23 aprile e per un’altra quindicina di giorni di ricerche e riprese. Quei giorni saranno topici, perché in base alla sentenza avremo nuovi sviluppi e nuovi aspetti da raccontare. Per la lavorazione del documentario ho optato per una troupe  necessariamente  leggera. Siamo in quattro a lavorare al documentario: Francesco Menghini, affermato regista televisivo con il quale ho stabilito una solida e duratura partnership creativa; Alberto Mazzanti come tecnico del suono, perché in un lavoro del genere il suono è fondamentale; Laura Pesino, giornalista, nonché mia compagna, che ha collaborato alle ricerche e collaborerà alla stesura dei testi. Le musiche sono state realizzate dai Black Horses”.

 

Che idea ti sei fatto delle indagini sulla morte Uva?

 

“Il punto è che le indagini vere non sono state ancora fatte. Restano da ricostruire le fasi dell’arresto di Giuseppe Uva; arresto che, tra l’altro risulterebbe irregolare, considerato che per disturbo della quiete pubblica è previsto al massimo una sanzione pecuniaria. Resta da ascoltare il testimone chiave Alberto Biggiogero, arrestato insieme a Giuseppe Uva, che ha da offrire molti spunti interessanti per una verità ben diversa da quella che si racconta in tribunale. Resta da chiarire il ruolo ricoperto dalle forze dell’ordine, due carabinieri e sei poliziotti che, a oggi, hanno fornito solo relazioni di servizio perfettamente identiche l’una all’altra e che parlano di atti di autolesionismo e di un atteggiamento ostile da parte di Uva. Ciò che emerge dalle mie ricerche sul campo è qualcosa che va ancora oltre le verità ufficiali. A Varese ci sono molte persone in grado di dire come sono andate realmente le cose. Ma c’è ancora molta paura e molta omertà. Si tratta di persone che nessuno ha mai avuto interesse ad ascoltare, e che potrebbero fornire elementi di indagine e di riflessione del tutto inesplorati, in grado di dare un forte scossone alla verità ufficiale. Nel documentario racconterò tutto, anche – perché no – nella speranza di dare un nuovo impulso alla soluzione del caso. E per cominciare, non dimentichiamoci che nell’udienza del 19 marzo è stato chiarito che i medici di psichiatria non hanno colpe. Se loro non hanno alcuna responsabilità, di chi è la colpa? È da questa domanda che deve ripartire tutto”.

 

Come mai, secondo te, queste storie di abusi, veri o presunti, compiuti da uomini in divisa trovano così poco spazio sui vari media?

 

“Come ho accennato prima, c’è l’idea che il personale in divisa non commetta mai errori e che ogni azione, anche violenta e fuori norma, sia comunque giustificata dal ruolo che ricopre. Se vogliamo contribuire a ripristinare un senso di legalità diffusa, bisogna cominciare a comprendere che la legalità parte proprio da chi la rappresenta: dalle forze dell’ordine quindi, ma anche dalla magistratura che, come sappiamo, in molti di questi casi non ha avuto remore nel distorcere la verità. Una volta compreso questo, ci sarà la libertà di raccontare sui media gli abusi di potere alla stregua degli altri crimini comuni. Per noi le forze dell’ordine corrotte o violente, non hanno più dignità dei mafiosi o dei politici che intascano tangenti. La radice è la stessa: l’illegalità, con l’aggravante di indossare la divisa e di rappresentare la legge. Non esiste paradosso più evidente di questo in Italia, ma è un tabù che prima o poi verrà infranto”.

*Eilmensile 20 marzo 2012 

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