Tutta va bene, madama la marchesa… A patto di stare a sentire soltanto i Tg o leggere gli editoriali di Repubblica. Se invece si prova a guardare ai dati e agli accordi internazionali, il quadro per l’Italietta renziana e post-elezioni si rovescia completamente.
Partiamo dalle sirene ufficiali. Stamattina il Fmi, nel suo Regional Economic Outlook per l’Europa, conferma la ripresa dell’Italia: quest’anno chiuderà a +1,5%. Del resto l’accelerazione italiana avviene in un contesto positivo, di crescita rafforzata in Europa e nell’Eurozona (che però è molto sueriore: 2,4% nel 2017, in rialzo rispetto al +1,7% del 2016, per poi rallentare al +2,1%). Ma il rallentamento nella crescita arriverà subito dopo: il pil italiano è previsto in crescita dell’1,1% nel 2018 e appena dello 0,9% nel 2019. Non ne vengono naturalmente spiegate le ragioni, ma sono intuibilmente connesse alla scarsa produttività dei settori in cui questa crescita avviene (tramite lavoro semi-gratuito, precario, poco qualificato, part time, ecc), con scarsissimi investimenti e alta intensità di lavoro.
Almeno un effetto temporaneamente positivo ci sarebbe: le stime del Fmi per la disoccupazione dicono che calerà all’11,4% nel 2017, ma naturalmente l’istituto di Washington non vede differenza tra lavori stabili ben retribuiti e lavoretti precari pagati un tozzo di pane. E sappiamo dall’Istat che l’occupazione che cresce è fatti di contratti a termine, quando va bene...
Le raccomandazioni del Fmi concernono come sempre il debito pubblico da ridure, specie ora che c’è una congiuntura moderatamente positiva. Quest’anno è atteso al 133%, ma dovrebbe scendere al 131,4% nel 2018 e al 128,8% nel 2019. Vero è che non siamo gli unici in condizioni pessime (l’elenco del Fmi comprende anche Belgio, Francia, Portogallo, Spagna e Regno Unito), ma diversi analisti ricordano che – senza la recente modifica dei criteri di calcolo, che hanno introdotto anche “l’economia sommersa”, insomma droga, prostituzione, ecc – oggi staremmo al 155%. E naturalmente la Grecia ha sperimentato la “cura” della Troika quando è arrivata a toccare il 140%. Insomma, siamo in una zona comunque pericolosa che dovrebbe escludere ottimismi…
Ma siamo in vista delle elezioni. I partiti di governo e quelli del centrodestra sono accomunati dallo stesso interesse tattico: nessun allarmismo sul prossimo futuro, al massimo un po’ di polemichetta sul “abbiamo fatto miracoli” contrapposto al “non avete fatto le cose giuste”.
Da questo interesse comune discende una legge di stabilità – in discussione in Parlamento – considerata “leggera”, ovvero concentrata su poche tasse subito e molte rinviate a “dopo”, un numero non esagerato (ma egualmente doloroso) di tagli alla spesa pubblica, numeri flessibili e non traumetici.
Su questo c’è il consenso pieno dell’Unione Europea, certificato da numerose dichiarazioni ufficiali da parte degli stessi “controllori”. Nessuno a Bruxelles sente infatti bisogno di un altro paese sotto incertezza politica in vista delle elezioni. Tanto quel che ci sarà da fare “dopo” è già stato stabilito e tutti i “concorrenti” alla poltrona di Palazzo Chigi lo sanno bene. Anzi, sanno tutti che per la Ue si deve andare a votare il prima possibile dopo l’approvazione della legge di stabilità (che ha come scadenza Natale, al massimo Capodanno), proprio perché le “misure vere” – a partire da una “manovra correttiva” durissima dovranno essere varate il prima possibile.
Il punto su cui la Germania – più ancora della Ue – non è disposta a transigere è infatti il taglio drastico del debito pubblico, altrimenti non è pensabile che l’Italia possa stare nella prima fascia della “Ue a due velocità”. Formalmente, per una “ragione nobile”: portarsi dietro un problema di queste dimensioni sarebbe una zavorra che rischia di far naufragare subito una zattera d’emergenza.
Ai fini pratici, per una ragione assai meno ammissibile, articolata – spiega Scenari Economici – in almeno tre obiettivi: “appropriarsi degli attivi italici fatti di aziende e risparmio privato, rendere di fatto l’Italia una colonia che acquista i prodotti eurotedeschi e soprattutto abbattere il principale alleato USA non anglosassone in Europa, ricordando che ormai Berlino ha sfidato apertamente Washington volendosi sostituire agli americani al comando del Vecchio Continente”.
In effetti l’Italia ha parecchi asset ancora interessanti, un sacco di risparmio affidato a banche pericolanti e una stolida servilità agli Usa (tollerabile fino alla caduta del Muro, ma progressivamente sempre meno compatibile con la costruzione di un soggetto imperialista “europeo”). Dunque la correzione sistemica che questo paese deve subire è di grandi dimensioni, dolorosa ovviamente per il mondo del lavoro – che ha già subito un rovesciamento totale delle condizioni di vita, perdendo tutte le conquiste ottenute tra la fine degli anni ‘60 e la fine dei ‘70 – ma anche per la classe media propriamente detta.
Del resto, racimolare 400 miliardi – questa la cifra che circola tra gli analisti – richiede un allargamento sostanziale della platea dei “tosabili”. Non a caso, entro questa prospettiva, la famosa tassa patrimoniale – sempre considerata, non del tutto a torto, come una “tassa di sinistra” se orientata a riequilibrare il prelievo fiscale tra le diverse classi sociali – diventa una possibilità concreta. Ma pensata e agita da Bruxelles, o meglio da Berlino, e dunque non certo a fini di redistribuzione della ricchezza all’interno del paese.
Diamo ancora la parola a Scenari Economici:
l’EU è stata chiara, o le leggi lacrime e sangue l’Italia se le fa da sola o arriva la troika. E per “aiutare” il prossimo governo a prendere le decisioni “giuste” post elezione – o magari anche appena prima, per indirizzare il voto – è già pronta una crisi del debito italiano per il 2018, tipo crisi dello spread versione 2011, crisi comunque sempre utile per far svalutare l’euro contro il dollaro ossia per aiutare gli esportatori tedeschi
Ok, ma tale imposta sarà almeno risolutiva?
Assolutamente no, sarà la prima di una discreta serie, diciamo che gli italiani devono mettere in conto imposte patrimoniali dichiarate o sotto mentite spoglie volute dall’Europa per circa 1000 miliardi nei prossimi 5-10 anni restando nell’euro. Si perché tale provvedimento “patrimoniale” – se attuato – bloccherà i consumi ossia peggiorerà la crisi imponendo ulteriori e continui correttivi fiscali, ossia comporterà altri provvedimenti straordinari a maggior ragione vista la contingenza globale assai critica fatta di borse ai massimi con multipli insostenibili e nel bel mezzo di una guerra commerciale con gli USA, oltre a tassi inevitabilmente destinati a salire a termine. Per tale ragione la versione Capaldo è la più gettonata, perché sposterebbe negli anni l’incasso mettendo per altro a garanzia asset reali, ossia le ipoteche sulle case degli italiani. A tale scopo il governo ha già previsto la cartolarizzazione delle imposte future per il tramite di un pool di banche internazionali che anticiperanno i flussi di cassa ed a cui resteranno in pancia le ipoteche dei cittadini. L’incredibile miglioramento del rating italiano da parte di S&P ottobre scorso, promozione assolutamente ingiustificata, deriva appunto dalla richiesta di Roma di scontare il meno possibile i flussi di tassazione futuri da parte delle banche in tale scenario. E per fare questo bisognava abbassare lo spread, cosa puntualmente avvenuta. Faccio presente che nell’ipotesi sopra citata, a termine, gli italiani di fatto saranno a forte rischio di perdita della proprie abitazioni, che verranno messe a garanzia a favore delle banche internazionali per le imposte future che i cittadini dovranno pagare a termine, a maggior ragione se NON ci sarà crescita economica in Italia, scontato con una patrimoniale che toglierà qualsiasi residuo di ottimismo dal mercato interno. Abbiamo già visto le “prove tecniche di cartolarizzazione” delle cartelle esattoriali dei cittadini alcune settimane fa con il provvedimento ritirato in extremis del governo: tutto fatto ad arte per introdurlo col botto al prossimo giro, oggi si voleva solo preparare la platea”.
Non è menzionato, ma si sa benissimo quale sia il trattato che ha incardinato questo meccanismo: il Fiscal Compact. Venti anni di riduzione del debito pubblico, nella misura del 5% annuo, per arrivare vivi – o preferibilmente morti – all’”appuntamento con la storia”. Quale storia non si sa, in fondo è solo una promessa…
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