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Impoverimento generale e intensità dello sfruttamento

Anche in Cgil si sono accorti che i salari dei lavoratori italiani si sono molto ridotti. Per un sindacato degno di questo nome ci sarebbero molti modi di denunciare il problema (scioperi, manifestazioni, lotte in varie forme, ecc). Invece sceglie la via comoda dello “studio” commissionato alla Fondazione Di Vittorio (grande sindacalista che, se fosse in vita, prenderebbe l’attuale Cgil a calci nel didietro) e rilanciata timidamente da Repubblica.

L’analisi prende in considerazione solo gli ultimi sette anni e prova a mettere a confronto le dinamiche salariali di altri paesi. La “spiegazione” di questa progressiva erosione, da parte della Cgil, è straordinariamente monca. Sostanzialmente vengono colpevolizzati i contratti “pirata” (part time e lavori discontinui), “dimenticando che sono stati formati con l’accordo della stessa Cgil; e la “carenza di personale qualificato” che, semmai, avrebbe dovuto favorire l’innalzamento dei salari là dove questa carenza viene riscontrata.

Il contributo di Franco Astengo, che qui riportiamo, prova a irrobustire l’argomentazione.

Ma anche in questo caso ci sembra doveroso sottolineare come, quando si raffrontano dinamiche salariali di paesi diversi che però condividono le stesse politiche macroeconomiche e la stessa moneta (austerity ed euro, insomma), è assolutamente prendere in esame soprattutto queste variabili ormai fuori dal controllo dei governi nazionali e quindi, a maggior ragione, della stessa contrattazione tra le parti sociali. In proposito, per chi vuol capire meglio, consigliamo la lettura del recentissimo studio del Centre for European Policy, think tank formato dal gotha del liberismo tedesco, che dà invece conto degli effetti devastanti (assolutamente positivi per loro, devastanti per i paesi mediterranei) dell’introduzione dell’euro.

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Questa la notizia di ieri (da Repubblica Online)

I salari hanno perso mille euro di potere d’acquisto negli ultimi sette anni. L’allarme viene da un rapporto della Fondazione Di Vittorio, think tank della Cgil, che mette a confronto le retribuzioni medie dei lavoratori dipendenti italiani con quelle del passato e le paragona a quelle degli altri grandi Paesi europei.

Il risultato è sconfortante: in Italia gli stipendi si sono ristretti mentre all’estero, in particolare in Germania e Francia, sono saliti. Il rapporto della Fondazione Di Vittorio elenca i dati delle retribuzioni lorde (vanno tolte tasse e contributi), utilizzando le più recenti rilevazioni Ocse, dal 2001 al 2017. Risultato: in Italia nell’intero periodo c’è stata una sostanziale “stazionarietà” dei salari, mentre dal 2010 al 2017 si è verificata una perdita di 1.059 euro, circa il 3,5 per cento.

L’analisi è circostanziata e basata sui salari reali, cioè aumentando “virtualmente” le retribuzioni di allora come se i prezzi del 2010 fossero stati gli stessi di oggi, il confronto è cioè fatto a “prezzi costanti”: ebbene se nel 2010 la retribuzione media in Italia era di 30.272 euro nel 2017 è scesa a quota 29.214. Possiamo comprare 1.000 euro di beni e servizi in meno.

Diversamente è andata in Germania e in Francia. Il lavoratore dipendente tedesco nel 2010 godeva già in media di una retribuzione lorda più alta di quello italiano, collocandosi a quota 35.621 e nel 2017 è salito di ben 3.825 euro quota 39.446 euro. Anche il lavoratore francese nel 2010 guadagnava di più del nostro – era a quota 35.724 – e nel 2017 porta a casa il 5,3 per cento in più collocandosi a 37.622 euro.

Economie diverse, impatti diversi della crisi, politiche salariali diverse, ma sostanzialmente il gap c’è. Quali le ragioni? In parte i contratti di lavoro, in parte la presenza dei cosiddetti contratti “pirata” che tengono i salari sotto al minimo, ma l’analisi della Fondazione Di Vittorio, realizzata da Lorenzo Birindelli, punta l’indice soprattutto sul part time e i lavori discontinui, che la metodologia Ocse include nella rilevazione sommandoli e riconducendoli “virtualmente” a prestazioni full time: ebbene le nostre retribuzioni per i lavoratori a tempo parziale sono più basse della media dell’Eurozona, da noi valgono il 70,1 cento del full time in Europa l’83,6 per cento.

Si aggiunge un’altra ragione che rimanda alla carenza di capitale umano nel nostro Paese: cala la quota di dirigenti e di professioni tecniche. In sostanza in Italia si è ridotta la presenza delle alte qualifiche (7 punti percentuali in meno in questo ultimo ventennio) mentre sono aumentate di 2 punti percentuali le basse qualifiche.”.

SINTESI DI COMMENTO PER PUNTI CERCANDO DI ANALIZZARE QUALCHE ALTRO ELEMENTO OLTRE A QUELLI GIA’ INDICATI:

1)    L’Italia paga, prima di tutto, il mancato aggancio della sua industria ai processi più avanzati d’innovazione tecnologica. Anzi si sono persi settori nevralgici in quella dimensione dove pure, si pensi all’elettronica, ci si era collocati all’avanguardia. Determinante sotto quest’aspetto la defaillance progressiva dell’Università con la conseguente “fuga dei cervelli” a livello strategico. Un fattore questo della progressiva incapacità dell’Università italiana di fornire un contributo all’evoluzione tecnologica del Paese assolutamente decisivo per leggere correttamente la crisi;

2)    Si segnalano ancora due elementi tra loro intrecciati: la progressiva obsolescenza delle principali infrastrutture, in particolare le ferrovie ma anche autostrade e porti e un utilizzo del suolo avvenuto soltanto in funzione speculativa, in molti casi scambiando la deindustrializzazione con la speculazione edilizia e incidendo moltissimo sulla fragilità strutturale del territorio. Un discorso di programmazione affatto diverso, beninteso, dal semplicistico “sblocco delle grandi opere”.

3)    Da non dimenticare l’elevato tasso di disoccupazione (10,5% superato, nell’area UE, percentualmente soltanto da Spagna e Grecia) e la crescita di disuguaglianza, non soltanto sul piano economico, tra le diverse aree del Paese ben oltre l’atavico divario tra Nord e Sud.

4)    Le politiche tipo job act hanno indotto altri processi di impoverimento generale così come l’attuale governo si sta muovendo in direzione osticamente contraria, recuperando il “peggio” degli anni passati: dall’assistenzialismo, alla subordinazione delle scelte al clientelismo elettorale arrivato, proprio in occasione delle elezioni del 4 marzo 2018, a codificare su scala di massa il “voto di scambio”,come pure era già avvenuto su scala numericamente più modesta negli anni scorsi:ricordando “meno tasse per Totti” e il solito “milione di posti di lavoro”. Ma forse, da questo punto di vista, ci trovavamo ancor in una fase artigianale che la proclamazione del “reddito di cittadinanza” ha codificato.

5)    E’ evidente come, in questo quadro, debba essere aperta una discussione di fondo sui trattati europei e sui loro esiti concreti sull’economia. La radicalità nei termini di questa discussione dovrebbe rappresentare “oggetto del contendere”nelle prossime elezioni per il Parlamento Europeo. Non pare però che emergano soggetti in grado di svolgere adeguatamente questa funzione. La radicale messa in discussione dei trattati europei dovrebbe essere collegata con un altro elemento decisivo: quello della necessità di esprimere una rappresentanza politica verso gli strati sociali colpiti dall’allargamento della frattura che un tempo consideravamo come “principale” e che oggi investe una complessità di situazioni sociali colpite soprattutto dell’accresciuta intensità dello sfruttamento.

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