Allora, la situazione nei rapporti economici internazionali è questa: la Germania esporta in Cina per oltre 86 miliardi di dollari l’anno, e importa per quasi 94. Gli Stati Uniti di Trump stanno negoziando, sempre con i cinesi, una tregua sui dazi e sugli scambi che vale 1.250 miliardi, due terzi del Pil italiano.
Ma entrambi questi paesi guardano malissimo la firma dell’”accordo quadro” dell’Italia per la Via della Seta, che dovrebbe essere formalizzato il 22 di questo mese, quando arriverà in Italia lo stesso Xi Jinping.
Strano, ma non incomprensibile. La Cina è attualmente l’unico motore di crescita globale con un’idea razionale e programmata. Chi vuol risolvere o attenuare i molti problemi accumulati in oltre dieci anni di crisi economica in tutto il globo “occidentalizzato”, è obbligato a migliorare i rapporti con Pechino. Ma, naturalmente, questa necessità mette “in competizione” tra loro partner pluridecennali, uniti in alleanze politiche e militari (Ue e Nato, per dirne un paio) ma divisi come interessi economici e breve-medio periodo.
“La visita di Xi Jinping sarà prossima in questo mese, stiamo lavorando anche per sottoscrivere un Memorandum of Understanding”. Lo ha affermato lo stesso presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, aggiungendo che “ovviamente è un accordo quadro: non significa che il giorno dopo siamo vincolati ad alcunché, ma ci consentirà di poter dialogare nell’ambito di questo progetto”.
I singoli progetti di cooperazione, insomma, sono tutti ancora da definire, ma intanto ci si attrezza per cominciare a discuterne con efficacia.
D’altro canto, persino Conte si rende conto che “La Via della Seta è un importante progetto di connettività infrastrutturale che propone una grande disponibilità da parte della Cina a coltivare uno scambio commerciale e non solo. Ritengo che, con tutte le cautele necessarie, questa possa essere un’opportunità, una chance per il nostro Paese. E’ un’opportunità per il nostro sistema Paese e anche per l’Europa in generale”.
E qui cominciano i distinguo. La Germania è da poco il principale terminale ferroviario per le merci provenienti dalla Cina – 11.000 Km che vanno da Duisburg a Chongquing – e non gradisce che si duplichi via mare, perché questo le sottrarrebbe parte del traffico atteso.
Stesso discorso per gli Stati Uniti, con in più le preoccupazioni per possibili modificazioni del quadro strategico (sanno meglio di tutti che il crescere dei rapporti economici obbliga, alla lunga, a migliorare anche quelli politici e geostrategici). Tanti affari, insomma, costringono a essere amici…
Quello che riesce difficile da capire, invece, è l’ostilità della stampa mainstream italiana.
Anche dal punto di vista strettamente capitalistico, infatti, un ampliamento degli interscambi con la Cina – con relativo incremento delle esportazioni e arrivo di capitali molto consistenti – dovrebbe essere nell’interesse dell’imprenditoria “nazionale”, strangolata dalle misure di austerità, dalla concorrenza sleale infraeuropea (facilitata dall’euro e dai trattati europei, contrariamente alle favole raccontate prima), dall’essere ridotta in gran parte a contoterzista delle filiere tedesche e dunque particolarmente esposta alle fluttuazioni negative di quel modello fondato sulle esportazioni.
La questione attraversa la stessa maggioranza di governo, come e forse più del Tav, con i Cinque Stelle entusiasti sostenitori dell’ingresso nella Belt and Road Initiative e la Lega fondamentalmente irritata. Non è nemmeno in questo caso difficile da capire: porti e altre infrastrutture del Mezzogiorno riceverebbe nuovo impulso da diventare terminali di traffici consistenti (e dunque il M5S potrebbe beneficiarne), mentre Salvini e Giorgetti sono le marionette politiche della media industria del Nordest, ossia del “contoterzismo dipendente aggravato” nei confronti della Germania.
Per capirci di più, bisogna tener conto sia degli interessi Usa che delle “indicazioni” provenienti da Bruxelles. Con la firma dell’accordo quadro, infatti, l’Italia diventa il secondo paese europeo – dopo la Grecia – a entrare nel reticolo della Via della Seta; ma, soprattutto, sarebbe il primo del G7 a farlo. Il Consiglio europeo di ottobre ha addirittua bocciato la Via della Seta contrapponendole invece un futuro “progetto infrastrutturale europeo per collegare Europa e Asia” (a che servirebbe, se ce n’è già uno?). Tanto da delegare ad un portavoce Ue l’incarico di avvertire che «né la Ue né nessuno Stato membro può ottenere efficacemente i suoi obiettivi con la Cina senza piena unità». Statt’accuort, Roma!
Al riguardo, bisogna sottolineare la ruvidità dell’ironia della Storia. La Grecia ha venduto ai cinesi il porto del Pireo per poter fare fronte agli “obblighi europei”, ossia ridurre drasticamente la spesa pubblica, privatizzare le proprietà pubbliche anche strategiche, ecc. A beneficiarne è stata anche la Germania, le cui società hanno per esempio acquistato a prezzi stracciati tutti i principali aeroporti ellenici. I cinesi, più attenti ai volumi commerciali, si sono presi lo storico porto che guarda all’Asia. A occhio, hanno fatto l’affare migliore…
Ora, facendo due più due, capite perché la stampa italiana – anche quella sedicente “nazionalista” – rema contro un accordo che chiunque sottoscriverebbe (non ad occhi chiusi, certo…)?
P.s. Vedi anche Via della Seta. Gli interessi al posto delle chiacchiere
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