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Il “modello americano” è a pezzi, parola di Fmi

Se la direttrice del Fondo monetario internazionale (Fmi), baricentro del Washington Consensus, decide che il “modello americano” perde i pezzi, è da buttare, rovesciare da capo a piedi, è certamente una notizia importante.

Dunque i media italiani non ne parlano. Tranne lo specialista in economia, IlSole24Ore, che come organo di Confindustria deve pur sempre dare agli imprenditori un quadro veristico della situazione globale, così che possano prendere decisioni capitalisticamente sensate (che non significa “buone” e tanto meno “progressive”…).

Taglio basso”, in fondo a una pagina interna, come si fa per le curiosità non decisive. Hai visto mai che si scatena il panico e la rincorsa a “fare come dice il Fmi”.

Naturalmente, la navigata Christine Lagarde si premura di usare un linguaggio accorto e mieloso, dispensando complimenti per “la più lunga espansione della storia registrata” (omette di ricordare che fa seguito al più grande crollo dal 1929 in poi), così come “la disoccupazione è a livelli non visti dalla fine degli anni ’60” (anche qui: facendo finta che non esistano i 96 milioni di cittadini Usa che non si iscrivono neanche più agli uffici di collocamento, che porterebbero il tasso di disoccupazione reale vicino al 40$). Eccetera (“l’attività economica aumenterà del 2,6% quest’anno e dell’1,9% nel 2020”).

Esauriti i convenevoli, però, si entra nel baratro dei difetti sistemici, non “congiunturali”, di un sistema che batte in testa e che per questo vede la Cina ormai in corsia di sorpasso.

Gli indicatori economici, dice il report del Fmi, sono tutti buoni o almeno discreti. “Purtroppo” gli indicatori sociali sono un disastro. Non è soprendente, per un marxista (è una delle contraddizioni fondamenti del capitalismo: crescita della ricchezza prodotta e aumento della povertà), ma certo è un dettaglio importante se visto persino dalla Lagarde.

L’aspettativa di vita media è diminuita negli ultimi anni, la polarizzazione del reddito e della ricchezza è aumentata, la mobilità sociale si è costantemente erosa, l’istruzione e gli esiti sanitari sono subottimali, e mentre il tasso di povertà è in calo, rimane più alto che in altre economie avanzate.

C’è da ricordare che le statistiche ufficiali vengono stilate con criteri alquanto discutibili (per esempio: gli “scoraggiati” non lavorano mai, ma non vengono classificati come “disoccupati”, riducendo così enormemente il tasso relativo su cui si va a strologare), ma comunque qualcosa esce fuori lo stesso. Il numero dei suicidi, quello di morti per abuso di droghe o il record di detenuti; e soprattutto il blocco dell’”ascensore sociale”.

Chi nasce povero non ha più alcuna speranza di veder migliorare la propria condizione nel corso della vita. Ed anche chi nasce “ceto medio” è molto più probabile che scenda agli inferi invece che salire in paradiso.

Colpa della condizione salariale, certo (il reddito della famiglia mediana è cresciuto del 2% dalla fine degli anni 90, mentre il pil pro capite è aumentato del 23%), ma in primo luogo del sistema dell’istruzione – tarato su tasse crescenti e quindi selettivo su base di censo – che obbliga chi vuol fare l’università, senza avere un famiglia ricca, a partire già indebitato a vita.

Noi diremmo che libertà di impresa e costrizione sociale sono due facce della stessa medaglia, che si muovono in modo inversamente proporzionale. E dunque che la soluzione è piuttosto drastica, se si vuole eliminare il costante peggioramento delle condizioni di vita della stragrande maggioranza della popolazione.

Il Fmi non è così rivoluzionario, quindi si limita a dare alcuni consigli “riformisti”, che suonano però addirittura “eversivi” in un ambiente culturalmente degradato come quello italiano: “istituire un congedo familiare retribuito, espandere l’effettivo credito d’imposta sul reddito guadagnato e aiutare le famiglie dei lavoratori con l’assistenza ai bambini e agli anziani. Tutto ciò fornirebbe un’ancora di salvezza alle famiglie e contribuirebbe a sostenere la mobilità sociale, rendendo più facile per loro entrare nella forza lavoro e perseguire una carriera appagante.

Si arriva addirittura a consigliare l’aumento del salario minimo (quello di un barista è di appena 2.70 dollari l’ora, poco più di 2 euro)! Non per improvvisa crisi moral-religiosa (in quell’istituto sono vaccinati da sempre contro ogni tipo di compassione), ma perché queste ed altre misure simili «aiuteranno a rafforzare il capitale umano, aumentare la partecipazione alla forza lavoro, spingere la produttività, sostenere la domanda aggregata e aumentare la crescita di medio termine».

Resta però sempre lo stesso guardiano dell’ortodossia neoliberista, senza neanche rendersi conto della contraddittorietà dei suoi rilievi.

Dopo aver consigliato la classica “ricetta keynesiana”, infatti, riprende la propria litania sul “debito pubblico eccessivo” (quello Usa è al 107%, roba che non li farebbero entrare nella UE). Con preoccupazioni per eventuali choc finanziari imprevisti: “un improvviso inasprimento delle condizioni finanziarie potrebbe interagire negativamente con gli elevati livelli di debito pubblico e societario e creare un circuito di feedback che peserebbe anche sull’attività reale e sulla creazione di posti di lavoro. Questo è qualcosa a cui fare attenzione. Un simile cambiamento delle condizioni finanziarie avrebbe anche ricadute negative negative per le società, i sovrani e le istituzioni finanziarie di altri paesi, in particolare quelli con un significativo indebitamento o necessità di rollover in dollari statunitensi.

Il ruolo mondiale della moneta statunitense è insomma ormai un problema sistemico, non solo yankee. Fin qui era servita meravigliosamente a scaricare sul mondo i problemi del capitale Usa e i costi dell’american way of life; ora può rovesciarsi nel suo contrario.

Comunque la si giri, dunque, il vecchio ordine neoliberista non regge più. Ed anche il suo campione, il modello di riferimento indiscutibile, fa vedere crepe vistosissime.

Un esempio? Sembra una curiosità per nerd, ma è invece un rivelatore importante. Google – dopo aver accettato per prima l’ordine di Trump, “rompere i rapporti con Huawei” – ora sta chiedendo alla Casa Bianca di ripensarci. Il colosso cinese, obbligato a questo punto a sostituire il sistema operativo Android con un sistema alternativo “fatto in casa” (su cui stava lavorando comunque da anni) potrebbe a quel punto “mettere a rischio la sicurezza degli Stati Uniti”. Il contrario esatto di quanto aveva sostenuto Trump per chiederne il bando…

Chi controlla il sistema operativo controlla molto, se non tutto, dell’evoluzione tecnologica. Rinunciare al quasi-monopolio è un suicidio.

Ed è la fotografia del punto in cui è arrivata la crisi del sistema United States…

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