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Aumenti salariali: anche Landini sta con le imprese

Se in un paese il presidente di un importante ente pubblico, per di più nominato (forse per distrazione…) da un governo “gialloverde”, è “più a sinistra” del segretario generale della Cgil, allora per i lavoratori butta veramente male.

Il tema è quello degli aumenti salariali, scomparsi da tre decenni da ogni rinnovo contrattuale. In obbedienza alle politiche di austerità dell’Unione Europea, tutti i governi in quest’arco di tempo hanno costantemente regalato risorse alle imprese, fino a dissolvere qualsiasi tutela per il lavoro salariato (dall’abolizione dell’art. 18 ai contrattini precari di ogni tipo). Si chiama deflazione salariale e rispondeva a un modello produttivo mercantilista, ossia fondato sulle esportazioni.

L’idea era quella, tipica dell’era della globalizzazione, di vendere all’estero prodotti “competitivi” per i prezzi bassi; e ovviamente il costo del lavoro è l’unica variabile che si possa abbassare in un mercato comune, dove tutti gli altri prezzi (energia, materie prime, componenti, ecc) sono internazionali, ossia uguali per tutti.

Dopo 30 anni di questa politica salariale, la rottura della globalizzazione e la crisi dell’Occidente hanno fatto capire anche agli avvoltoi di Berlino e Bruxelles che senza una domanda interna l’economia si ferma. Le esportazioni infatti diminuiscono (un po’ per la crisi, un po’ per la guerra dei dazi, un po’ perché i salari bassi hanno spinto le imprese a risparmiare su ricerca e innovazione, ecc), e se non puoi neanche vendere all’interno della tua area perché la massa della popolazione guadagna troppo poco per lanciarsi in consumi (primari o voluttuari), allora bisogna ricominciare a mettere un po’ di soldi nelle tasche di chi lavora. 

Su questo sono ormai quasi tutti d’accordo. Il problema nasce con la domanda: chi deve rinunciare a una quota di risorse per dare qualcosa ai lavoratori?

Le imprese non ci pensano proprio, anzi, vorrebbero salari ancora più bassi, nonostante la quota dei profitti sia aumentata nel corso degli anni in misura spropositata (e infatti sono cresciuti gli investimenti finanziari, a riprova che “i soldi ci sono”). I sindacati complici (CgilCislUil) non osano neppure chiedere aumenti, per non rovinare “il dialogo” che ha portato loro grandi benefici (enti bilaterali, formazione, fondi pensione di categoria, ecc).

E quindi ecco la grande idea: gli aumenti vanno dati con i soldi dello Stato! Che a dire questo sia un ex direttore di Corriere della Sera e de IlSole24Ore, come Ferruccio De Bortoli, è assolutamente logico. Che lo dica dunque anche Confindustria, pure. Che condivida questa idea l’ex combattivo segretario della Fiom, ora moderato dalla conquista della segreteria Cgil, Maurizio Landini, è invece una bestemmia.

Gli aumenti salariali in busta paga con i soldi dello Stato si ottengono con la decontribuzione (riduzione dei contributi previdenziali, ossia per le  pensioni attuali e future), oppure con la riduzione delle tasse a carico delle imprese. In entrambi i casi lo Stato rinuncia ad incassare una quota e quei soldi vanno in tasca ai lavoratori.

Le imprese (i padroni) non cacciano un euro. Anzi, i più estremisti tra loro vorrebbero addirittura una quota di quei soldi cui lo Stato rinuncia… L’attuale presidente dell’Inps, Pasquale Tridico, di solida formazione keynesiana, niente affatto “estremista”, spiega perché questa idea è sbagliata. Sia dal punto di vista dello Stato (se incassa meno, potrà spendere ancora meno per sanità, scuole, università, ricerca, pensioni, ambiente, ecc), sia da quello dei lavoratori (se lo Stato cancella alcuni servizi dovranno pagarseli da soli, scucendo molto più di quel che incassano con la decontribuzione), sia dal punto di vista dell’economia (se lo Stato  investe meno, in un mondo dove le imprese riducono  a loro volta gli investimenti, ildeclino economico diventa un crollo).

A voi l’intervista rilasciata a Carlo Di Foggia, de Il Fatto QUotidiano.

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Pasquale Tridico, economista, è oggi presidente dell’Inps dopo essere stato consulente di Luigi Di Maio al ministero del Lavoro: in questi giorni potrebbe ritrovarsi a lavorare con un nuovo governo.

L’esecutivo sta nascendo da una trattativa tra Pd e M5S: i dem hanno duramente criticato il Reddito di cittadinanza e il decreto Dignità. Teme che queste due misure saranno messe in discussione?

Sarebbe un errore. L’economista Marco Leonardi, ex consigliere di Gentiloni, ha spiegato di recente che ‘sulle politiche del lavoro non c’è dubbio che il M5S ha maggiori affinità col Pd che con la Lega’. Sono d’accordo. Una misura di contrasto della povertà era presente nei programmi elettorali di entrambi e il Pd ha promosso il Rei, che ha un impatto economico molto inferiore al Reddito di cittadinanza e senza politiche attive del lavoro, ma andava nella stessa direzione. Non andrebbe modificato questo assetto che ha richiesto notevoli sforzi e produrrà un incremento di reddito, occupazione e consumi. Quanto al decreto Dignità, il problema di ridurre la durata dei contratti a termine era stato già sollevato nella scorsa legislatura da diversi esponenti del Pd.

Sono passati 5 mesi dall’avvio del Reddito di cittadinanza: 950 mila nuclei familiari, circa 2,5 milioni di persone, hanno visto accolta la domanda, ma i poveri assoluti secondo Istat sono 5 milioni. Perché questa distanza?

Nella relazione tecnica i nuclei interessati erano 1,2 milioni, 950 mila in mesi è un ottimo risultato e salirà ancora. Va considerata anche la differenza tra i redditi dichiarati e quelli percepiti realmente: si dichiara meno per evitare tasse e questo incide anche sulle stime della povertà. Le rilevazioni Istat, poi, sono basate sulla spesa per area geografica e tipologia di comune e non sono comparabili con la platea dei potenziali beneficiari del Rdc. Detto questo, nel 2019 ci attendiamo un forte calo dei poveri assoluti.

Una domanda su 4 è stata respinta, una cifra elevata. La critica, da sinistra, è di aver trasformato una misura anti-povertà in un sussidio di disoccupazione con troppi paletti, che escludono anche molti stranieri.

Anche il Rei aveva diversi ‘paletti’ e più stringenti. Si possono ridurre i requisiti economici, ma servono più soldi. Si possono migliorare anche gli aspetti legati all’Isee, che guarda ai redditi passati, poco al presente e per niente al futuro. Il Reddito di cittadinanza non è però un sussidio di disoccupazione: è un reddito minimo, dove i beneficiari possono essere anche lavoratori. Per quanto riguarda gli stranieri, si è deciso di obbligare quelli non comunitari a produrre una complessa documentazione su reddito e patrimonio: da aprile, l’Inps ha sospeso l’esame di tutte le domande presentate da non comunitari, perché manca il decreto ministeriale che fissa i criteri per l’esonero. Credo, comunque, che la posizione degli stranieri regolarmente soggiornanti debba essere equiparata a quella dei cittadini comunitari: la decisione spetta alla politica, ma è un orientamento suggerito dalla Corte di Giustizia europea.

Un percettore su 4 è considerato idoneo al lavoro, ma le politiche attive non sono ancora partite, lo faranno forse a settembre: in ritardo e con le banche dati che non dialogano fra loro…

Le politiche attive del lavoro sono di competenza delle Regioni e di Anpal, non spetta all’Inps intervenire. Le risorse stanziate però sono ingenti, è una grande occasione da sfruttare.

Perché alcuni percettori lo stanno restituendo?

Le rinunce sono appena un migliaio, lo 0,1%, al momento il fenomeno è molto marginale. Non è, peraltro, da escludere che sia legato alla volontà di non assumere gli obblighi imposti ai percettori o che non si vogliano far emergere situazioni di lavoro nero.

L’Inps ha passato alla Gdf 600 mila nominativi per i controlli. Su 4500 effettuati finora quasi 3 mila sono risultati irregolari. La Lega ha parlato di una quota del 70%, è corretto?

Non è corretto. Tutte le posizioni potenzialmente potranno essere verificate, ma solitamente la Finanza agisce su segnalazioni o indici di anomalia. Per come i casi da controllare sono selezionati è possibile raggiungere elevate percentuali di irregolarità, ma questo è fisiologico: dimostra la bontà dei sistemi di controllo e dei campioni selezionati, ma non dice assolutamente nulla sulle irregolarità rispetto al totale dei beneficiari.

Il decreto Dignità, a cui ha lavorato prima di approdare all’Inps, ha centrato i suoi obiettivi?

Dire di sì: i dati Inps indicano un incremento del 62% delle trasformazioni da tempo determinato a tempo indeterminato rispetto al 2018. E i dati pubblicati ieri dall’Inps evidenziano un vero boom di rapporti a tempo indeterminato negli ultimi 6 mesi.

Finora solo 164 mila domande per Quota 100 e solo un’uscita su tre viene rimpiazzata nel privato. La misura è stata fortemente voluta dalla Lega, il nuovo governo potrebbe abolirla?

Intanto nel settore pubblico c’è un rimpiazzo al 100% e questo permette di svecchiare la P.A., che ha superato l’età media di 50 anni. Il privato, invece, sconta la congiuntura sfavorevole. Nel 2019, Quota 100 ha avuto un tiraggio di circa il 50%, con un risparmio di 1,5 miliardi sul 2019 e 3 stimati nel 2020. Si interromperà da sola fra 3 anni: è una opzione e in quanto tale va lasciata. Tra 3 anni si porrà il problema di rivedere il sistema per garantire soprattutto a chi ha avuto o ha carriere instabili, una pensione adeguata dopo un numero congruo di anni, che potrebbe essere 41.

Il Pd può convergere sulla proposta di salario minimo dei 5 Stelle? Su cos’altro possono convergere?

Penso di sì, pure nel programma del Pd c’era una proposta di salario minimo. È un argine contro lo sfruttamento e la disuguaglianza. Prima bastava la contrattazione a garantire salari adeguati. Oggi molti fenomeni – dalla globalizzazione alla ‘aziendalizzazione dei contratti’ – l’hanno resa spesso uno strumento di concorrenza sleale e non un vincolo allo sfruttamento e alla deflazione salariale.

Sul Fatto l’economista Sergio Cesaratto ha auspicato che la politica economica del nuovo governo non sia all’insegna dell’austerità. È d’accordo?

Sono d’accordo. La politica monetaria espansiva evita il baratro ma non determina crescita, l’abbiamo visto con il Quantitative easing. La politica monetaria è ‘ancella’ della politica fiscale e degli investimenti pubblici. Le politiche deflative degli ultimi due-tre decenni hanno creato disuguaglianza, salari stagnanti e una spesa pubblica troppo contenuta. Questa tendenza può e deve essere invertita con una politica economica coraggiosa.

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1 Commento


  • Enrico

    Ma non vedo il.passo in cui parla degli aumenti salariali a carico dello stato.

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