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Cuori d’acciaio/4. A Terni verso la spallata finale agli Acciai Speciali?

Tutto era da tempo nell’aria e infatti pochi giorni fa è arrivata la conferma da parte del Ceo della ThyssenKrupp, Martina Merz: la ThyssenKrupp è in crisi e i numeri del bilancio presentato parlano chiaro, sono 304 i milioni persi in questo anno fiscale (in Germania i bilanci si chiudono il 30 settembre), contro i 62 milioni di perdita dello scorso anno, e anche se complessivamente le vendite sono leggermente aumentate, fino a 42 miliardi (41,53 nel 2018).

La crisi è forte e rischia di produrre un bagno di sangue in tutti gli stabilimenti europei della multinazionale, soprattutto in Germania, poichè il debito complessivo ammonta a 9 miliardi di euro che possono arrivare a 14, se l’operazione di vendita dei gioielli di famiglia (in primis il comparto elevator) non andasse in porto.

Dopo due fusioni bocciate dall’Antitrust europeo (con la Outokumpu cinque anni fa e con la Tata quest’anno), insieme agli investimenti falliti in America e una crisi dell’acciaio che parte dai semilavorati e arriva fino alle verticalizzazioni (come per l’automotive), il gigante tedesco vacilla e rischia di portarsi dietro 6000 posti di lavoro e un pezzo importante delle acciaierie ternane.

Rispetto ad Acciai Speciali Terni (AST) la Merz è stata chiara, dichiarando che il suo contributo alle entrate è stato significativamente inferiore rispetto a un anno prima, a causa della situazione dei volumi e prezzi sfavorevoli per l’acciaio inossidabile.

Ha anche chiamato in causa la UE asserendo che se le misure di salvaguardia imposte dall’Unione Europea contro le importazioni di acciaio inox dall’Asia non saranno efficaci, i rischi relativi ai prezzi sorgeranno in particolar per AST.

I dazi sulle importazioni di acciaio, messi in campo dalla UE, sono la classica toppa che è peggio del buco perchè in sostanza consentono lingresso gratuito in Europa dell’acciaio extra-ue ma solo fino al raggiungimento di una certa soglia, calcolata in base alle importazioni degli ultimi anni.

Una volta superata la soglia scattano le imposte al 25%. Per non strozzare la potenziale crescita dei flussi commerciali, però, la Commissione ha previsto che il tetto alle importazioni libere cresca a intervalli regolari del 5%. Solo di recente si è deciso di rallentare il ritmo della liberalizzazione al 3%.

Questi dati stanno a significare il peso economico e politico dei verticalizzatori europei che insieme agli accordi commerciali fatti da Germania e Francia con i paesi esportatori non consentono una reale politica di aggressione. Inoltre questi dazi non colpiscono l’import di bramme dai paesi extra-ue e infatti ormai da qualche mese anche AST compra decine di migliaia di tonnellate al mese di bramme da altri produttori, soprattutto indonesiani, ufficialmente per soddisfare richieste di clienti ma sicuramente per “calibrare” gli impianti a freddo su di un nuovo standard.

Si profila quindi una nuova ristrutturazione del sito siderurgico ternano? I rischi ci sono tutti, basta guardare lo stato in cui versa la fabbrica ternana. L’accordo firmato dopo la grande lotta del 2014 non è stato risolutivo e ha solo rimandato il problema dell’area a caldo, che già cinque anni fa era nel mirino della multinazionale allora rappresentata a Terni proprio da Lucia Morselli, ora a guida dell’ex Ilva a Taranto.

Quella vertenza si è chiusa con un accordo che ha permesso più di 400 fuoriuscite volontarie, ha consentito l’entrata di AST nel comparto TK Materials che di fatto ha commissariato il commerciale, ha ridotto la capacità fusoria ad un milione di tonnellate l’anno (poco più della produzione di un forno su due, che infatti ha portato alla riduzione della turnazione nell’area a caldo), ha accorpato le controllate e ha prodotto investimenti fatti solo in parte, se non quello di portare a Terni la famigerata linea5 di Torino.

Oggi siamo in una situazione in cui l’area a caldo produce meno di un milione di tonnellate di fuso, le ex controllate (la divisione Fucine, il Tubificio, il Centro di Finitura e i servizi telematici di Aspasiel) sono in forte stallo, non solo per la crisi dei rispettivi comparti ma anche per scelte strategiche discutibili, come ad esempio per il Tubificio che lavora soprattutto per l’automotive.

Si è chiusa inoltre Titania, che lavorava l’acciaio al titanio (il più tecnologico in commercio e con un alto valore aggiunto), il commerciale non è adeguato (perchè TK Materials non impone ai verticalizzatori di comprare acciaio solo dai produttori della TK), la crisi dell’intero settore ha fatto cadere gli ordinativi e questo ha portato alla firma di un accordo, il settembre scorso, sulla cassa integrazione per 700 operai (a rotazione) fino a fine anno.

Per far comprendere la precarietà in cui versa il sito, il nuovo piano industriale (di soli due anni) firmato al Mise lo scorso giugno parla essenzialmente, al netto delle rassicurazioni sulla strategicità del sito, di investimenti per soli 60 milioni di euro (in pratica le manutenzioni ordinarie) e di esuberi nel livello impiegatizio.

Quello che emerge però con forza è che dalla vertenza del 2014 i rapporti di forza in fabbrica sono completamente cambiati. Questo ha portato, oltre ad una gestione molte volte autoritaria, anche ad una nuova strategia nella definizione dell’organizzazione del lavoro, che anziché mettere in campo una campagna di assunzioni mirate, tenta di sdoganare il concetto di flessibilità interna con la polivalenza e la flessibilità lavorativa da un’area ad un’altra in base ai volumi.

L’AST è anche al centro di polemiche riguardo l’inquinamento in atmosfera e in falda, come del resto tutti gli impianti industriali che insistono su di un territorio da molti anni.

Solo nel biennio 2017/2018 sono stati immessi in atmosfera 652,2 Kg di cromo, 89,1 kg di nichel, 1826,6 Kg di ossidi di azoto e 659.710 tonnellate di CO2 e anche a Terni il conflitto ambiente/lavoro ha spaccato completamente l’intera comunità.

Il sito è soggetto alle prescrizioni AIA sulle emissioni e sul conferimento delle scorie in discarica e scadranno, previo rinnovo, a marzo del 2020. Per il trattamento delle scorie si è raggiunto un accordo con la multinazionale finlandese Tapojarvi, che utilizza un metodo speciale per inertizzare i residui della fusione.

Ci troviamo quindi di fronte ad un insieme di fattori potenzialmente pregiudicanti la sopravvivenza dell’intero sito ternano: la crisi dell’acciaio, l’utilizzo di bramme estere, la questione ambientale, la concorrenza di altri verticalizzatori (soprattutto nel settore automotive), nel giro di pochi mesi possono far sprofondare l’AST in una crisi che, senza una reale volontà politica del governo e delle istituzioni, potrà portare ad una ristrutturazione tale da cambiare per sempre il volto della fabbrica.

Non è un caso che già nel recente passato, quando ufficialmente il sito non era più strategico per la ThyssenKrupp, si fossero affacciate cordate italiane capeggiate da banche e da Marcegaglia da una parte e Arvedi dall’altra.

La Terni, era sopravvissuta nel 1953 al piano Sinigaglia grazie ad una imponente lotta di tutta la cittadinanza, protagonista della ricostruzione post bellica del paese, l’azienda che nel 1960 permise a Jaques Piccard di raggiungere il fondo della Fossa delle Marianne.

Nel 1994 fu venduta dall’IRI, con una operazione puramente speculativa, ad una cordata italo-tedesca formata da Falck, Riva, Agarini e ThyssenKrupp, le cui azioni furono completamente cedute un anno dopo alla multinazionale tedesca.

Da allora la fabbrica ha perduto produzioni strategiche per il sito e per l’intero paese, come la produzione del lamierino magnetico che riforniva la quasi totalità del fabbisogno italiano.

L’AST è divenuta progressivamente un semplice produttore nazionale, ha perso di importanza e nel medio termine rischia di essere ridimensionata o addirittura spezzettata.

La generazione di ragazzi entrati in fabbrica alla fine degli anni ’90, che ha già vissuto sulla propria pelle due grandi lotte, quella del 2004 contro la chiusura del magnetico e quella del 2014 contro i licenziamenti e la chiusura dell’area a caldo (con le cariche della polizia contro gli operai prima alla stazione di Terni e poi in piazza Indipendenza a Roma, ndr) , saprà eventualmente fronteggiare un nuovo attacco speculativo che potrebbe stavolta dare la spallata finale?

Qual è il compito dei corpi intermedi in questa fase e in prospettiva, se non quello di ricostruire quella coscienza di classe che sappia riconnettere la fabbrica e i lavoratori al territorio e alla intera comunità ternana?

Questa connessione oggi passa soprattutto attraverso la battaglia per gli investimenti ambientali e per l’ambientalizzazione delle produzioni, che è parte centrale della battaglia più grande per la nazionalizzazione di AST.

Sfatiamo il mito dell’autoregolamentazione del mercato e dell’iniziativa privata come soluzione, oggi serve una nuova gestione pubblica delle produzioni che sappia pianificare le strategie produttive (facendo tornare anche produzioni che servono al paese, come l’acciaio magnetico), in un contesto di salvaguardia ambientale e della salute dei lavoratori e dei cittadini, non solo per Terni.

*operaio Ast e delegato sindacale Usb

Le altre puntate:

1/Il delitto dell’Italsider di Bagnoli

2/I fantasmi delle Ferriere di Trieste

3/Anche a Piombino, come a Taranto, arrivarono gli indiani

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