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Cuori d’acciaio/1. Il delitto dell’Italsider a Bagnoli

Quanto tempo rimane all’ex Ilva di Taranto? Con questo articolo iniziamo una sorta di viaggio nella siderurgia nel nostro paese.

E’ un settore industriale che nel 2018 ha fatturato 62,4 miliardi di euro (6,3 miliardi in più rispetto al 2017), completamente in mano ai privati, energivoro, inquinante, eppure ancora fondamentale per il sistema produttivo del paese. Sull’acciaio e i prodotti siderurgici si basano ancora tantissime cose che servono e si utilizzano ogni giorno.

Vogliamo cominciare la nostra inchiesta da quello che possiamo definire come “Il delitto di Bagnoli”.

Per smontare l’Italsider di Bagnoli (ex Ilva anche in quel caso) ci hanno messo dieci anni. Di quella che Ermanno Rea nel suo libro “La dismissione” descrive come “fumifera città rossa” è rimasta un’area immensa, parzialmente bonificata. E si trattava di “due milioni di metri quadrati di territorio, con un volume di impianti pari a cinque milioni e mezzo di metri cubi, un tetro gigante che vomitava a mare venti milioni di litri all’ora di veleni.. e forse altrettanti ne lanciava verso l’aria”.

L’Italsider di Bagnoli era un tetro gigante ma tecnologicamente era all’avanguardia. Un articolo de La Repubblica del 12 ottobre 1984 scrive testualmente: “Ristrutturato all’ 80 per cento, con una spesa che sfiora i mille miliardi, lo stabilimento siderurgico di Bagnoli è ora uno dei più moderni d’ Europa. La lunga e drammatica vertenza che lo ha fermato per diciotto mesi ha determinato un taglio agli organici che sono scesi da seimila a 3750 dipendenti (350 lavorano nelle ditte collegate). Ma ha conservato una alta quota di produttività. Il milione di tonnellate di oggi può diventare, a partire dall’ 86, il doppio”.

Ma solo sei anni dopo, il 20 ottobre 1990, con l’ultima colata, viene spenta “l’area a caldo” del centro siderurgico, uno dei più grandi d’Europa, la cui costruzione era cominciata nel 1906.

L’Italsider di Bagnoli, così come quella di Taranto e Genova erano di proprietà di una società pubblica: la Finsider. La Finsider era stata costituita nel 1961, e si basava su quattro centri siderurgici a ciclo integrale: l’Ilva di Piombino, Bagnoli, Cornigliano, Taranto ed altri stabilimenti minori con produzioni settoriali: Marghera, S. Giovanni Valdarno, Trieste, Lovere, Novi Ligure, Savona. Erano della Finsider anche le Acciaierie di Terni e Terninoss, Dalmine (Dalmine, Costa Volpino, Massa e Torre Annunziata), Breda (acquisita nel 1959).

Con il rottame di ferro l’Italsider di Bagnoli produceva acciaio di qualità. Vecchi vagoni, elettrodomestici, scocche di auto, venivano fusi e riciclati come acciaio, una anticipazione di quella che oggi viene definita economia circolare.

I governi dei primi anni Ottanta, come abbiamo visto, avevano speso ben mille miliardi di lire (quasi cinque miliardi di euro oggi) per ristrutturarla introducendo un nuovo treno di laminazione. Ma nel 1985 il treno viene fermato e partì la cassa integrazione per quasi quattromila operai.

L’accordo siglato in quel contesto tra sindacati, governo e Finsider fu oggetto di un durissimo scontro tra operai e sindacati dell’Italsider di Bagnoli, si trattava di uno dei settori operai più combattivi e competenti dell’intero ciclo produttivo che si siano visti in questo paese. In qualche modo avevano intuito che il futuro dello stabilimento era stato messo sotto ipoteca. Per depotenziare le proteste operaie furono offerte ai lavoratori condizioni di uscita dal lavoro molto vantaggiose in termini economici e di servizi.

La direzione dell’Italsider di Bagnoli (allora pubblica) decise di cominciare a ridurne la capacità produttiva  a causa delle quote acciaio imposte dall’allora Comunità Economica Europea e alle quali i governi Dc/Psi si chinarono ossequiosi come quelli di adesso. Nel 1985 la Commissione Europea, tramite il commissario Etienne Davignon, chiese e ottenne dall’Italia di tagliare 5,8 milioni di tonnellate di produzione di acciaio in cambio di aiuti comunitari su altri capitoli. E su questo avvenne un vero e proprio inganno da parte delle istituzioni europee. Come riporta inconsapevolmente La Repubblica dell’ottobre 1984: “La Finsider attende i 5200 miliardi della Cee. Bagnoli ne avrà una parte, ma con una contropartita precisa: quella di rendere inattivo uno dei due forni di alimentazione del treno a “bande larghe”. Questo forno non dovrà essere riattivato prima dell’ aprile ‘ 87”.

Con il pretesto dell’andamento del mercato dei prodotti siderurgici (allora negativo in Europa ma positivo in Italia) e della riduzione della capacità produttiva su base europea, l’Italsider di Bagnoli venne in realtà sacrificata in nome delle buone relazioni tra Italia e Comunità Europea.

L’altoforno di Bagnoli effettuò la sua ultima colata il 20 ottobre 1989, poi venne venduto ad una società indiana. Il moderno treno di laminazione, introdotto da pochi anni, venne ceduto dopo appena cinque anni di attività ad una società cinese. Furono svenduti per una ventina di miliardi di lire (10 milioni di euro oggi) – dopo averne spesi mille per la ristrutturazione – a industrie cinesi e indiane che ne smontarono tutto quello potevano per poi riassemblarlo in Cina e in India, oggi diventate decisive nel  mercato mondiale dei prodotti siderurgici.

Nel 1977 all’Italsider di Bagnoli ci lavoravano 7.911 operai (più del triplo con l’indotto), nel 1986 ne erano rimasti 4.174, poi più nessuno.

A ricordarci i desolanti esiti di questo processo di deindustrializzazione e subalternità è un romanzo. La memoria corta della politica, degli economisti e dei sindacati complici ha invece rimosso tutto.

E’ invece perfettamente intellegibile il comportamento servile della politica verso le multinazionali (vedi il sostegno di Lega e Pd allo scudo penale per l’ArcelorMittal), la cannibalizzazione industriale del paese (definita eufemisticamente deindustrializzazione) e verso i diktat europei.

Se il “delitto” all’Italsider di Bagnoli la vide smantellata in ossequio alle quote acciaio imposte dalla Comunità Europea, oggi lo smantellamento dell’Ilva sulla base della logica di mercato sarebbe una svendita agli interessi delle multinazionali sulle quote di mercato dei prodotti siderurgici dell’Ilva sul mercato interno del nostro paese. La vicenda dell’ex Ilva di Taranto e le caratteristiche del mercato dei prodotti siderurgici ci raccontano di tutto questo. Se si vuole scrivere un’altra storia occorre fare esattamente il contrario di quanto si accettò di fare con l’Italsider di Bagnoli. Allora lo Stato si deresponsabilizzò totalmente dopo aver buttato miliardi di euro e svenduto lo stabilimento. Con l’Ilva occorre costringerlo a fare il contrario. Alla prossima puntata.

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