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Tir in manovra tra i diritti

da “il manifesto” del 18 agosto 2011

Francesco Piccioni
LA RAPINA. «Raddoppieremo gli stipendi». Cosa si nasconde dietro la trovata leghista
L’ultima idea Bossi-Tremonti: prendersi pure una parte del Tfr

 

Quando si vede un banchetto con tre carte sopra, ognuno sa – meno gli ingenui e i superfurbi – che lì c’è anche un truffatore. Quanto questo governo annuncia miracoli economici, anche.
L’ultima trovata pubblicitaria appartiene a Umberto Bossi, preoccupato di perdere definitivamente l’appoggio di parte dei lavoratori dipendenti del Nord (un’avvisaglia si è già vista con le amministrative): «Abbiamo una sorpresa che permetterà di raddoppiare gli stipendi». Detto da chi gli stipendi (presenti e futuri) li sta sfasciando a colpi di tagli a welfare e servizi sociali, non fa nemmeno ridere.
Andiamo a vedere nel dettaglio l’annuncio-truffa del leghista che annaspa. L’idea è semplice: rimettiamo il tfr (trattamento di fine rapporto) in busta paga. Due conti facili facili: per il tfr viene accantonato circa il 7% dello stipendio (la retribuzione annua divisa per il 13,5%) e quindi non si raddoppierebbe nulla; al massimo tra i 70 e i 140 euro in più al mese, oppure una «quattordicesima» per chi non ce l’ha (la maggioranza dei dipendenti, tutti i precari, ecc). Soldi «pochi, maledetti e subito», da spendere di corsa per arrivare un po’ più vicino alla fine del mese (la «crisi della quarta settimana» è da tempo slittata verso la terza). Meglio di un pugno in faccia, certo, ma non ci verrebbe «regalato» niente: il tfr sono soldi nostri, «risparmio forzato».
L’invenzione – ha ricordato persino Bossi – è merito del fascismo che, dopo la crisi del ’29, «per paura di rivolte, quando molte fabbriche chiudevano, fece in modo di far avere soldi ai lavoratori che perdevano il posto». Anche ora le fabbriche chiudono. Solo che Bossi e Tremonti sono addirittura meno svegli dei fascisti storici e quindi, in piena crisi, pensano di toglierlo.
In secondo luogo. Come verrebbe tassato questo (eventuale) «salario tornato disponibile»? Finché rimane custodito in azienda o all’Inps, infatti, subisce una tassazione distinta tra una parte fissa e una sulla rivalutazione mensile/annua (1,5% annuo fisso, più il 75% dell’incremento dell’indice dei prezzi Istat). Se subisse invece il prelievo ordinario in busta paga, magari maggiorato a causa del fiscal drag, ci sarebbe una perdita secca anche sensibile. Insomma: con una mano viene data subito un cifra netta minore di quella che attualmente finisce nel tfr, con l’altra viene fatto scomparire un istituto che – in tempi di crisi – funziona da ammortizzatore sociale, mentre in tempi normali permetteva di agire sulla mobilità sociale (acquisto di casa, avvio di attività per i figli, ecc) e sull’espansione dei consumi. Un modo di «far cassa» mentre si fa finta di «dare» qualcosa.
In terzo luogo. Per molti il tfr è già stato dirottato verso i fondi pensione per costruire la famosa «seconda gamba» previdenziale, visto che quella pubblica veniva ridotta all’osso da un’orgia di «riforme delle pensioni». Si abolisce questa possibilità? Si mantiene il diritto – c’è un contratto con i fondi – di usufruire di quanto maturato con questa «seconda gamba»? O si chiede indietro l’intera cifra già versata, ovviamente con la rivalutazione «garantita dai mercati» (si era detta persino questa idiozia, allora…)? E i fondi, sono d’accordo? Cosa vorrebbero in cambio?
Quarto. Per le imprese sotto i 50 dipendenti (oltre il 90% del totale) si tratta di una mazzata. Quei soldi, ora, vengono usati dall’azienda fin quando il lavoratore non va in pensione. Con cosa possono sostituire questa «liquidità» improvvisamente prosciugata? Non a caso da Confindustria la proposta è stata accolta col più gelido dei silenzi (difficile presentarla come una «misura per la crescita»), in attesa di lumi da parte di fonti un po’ più attenbili dell’Umberto padano.
Le ipotesi al vaglio per «compensare» le imprese sono al momento tutte molto fumose (credito agevolato, intervento della Cassa depositi e prestiti, ecc). Ma non c’è dubbio che, alla fine, una soluzione vantaggiosa per imprese e fondi pensione potrebbe esser trovata. Tanto si tratta di decidere di cosa fare di soldi altrui. Ossia nostri.
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Umberto Romagnoli

L’ingordigia di Sacconi si mangia l’articolo 18

Sarà stato, come dicono, per animosità ideologica; ma è certo che c’entrano anche ingordigia e cinismo. Ad ogni modo, conta soltanto che la straordinaria opportunità di far fuori in un colpo solo contratto nazionale di lavoro e l’art. 18 il ministro Maurizio Sacconi non se l’è fatta scappare. Anche se in questa maniera ha finito per rovinare il suo giocattolo preferito: lo «statuto dei lavori» per varare il quale nel novembre dell’anno passato aveva deciso di chiedere al Parlamento l’autorizzazione ad emanare decreti legislativi, previa identificazione di «un nucleo di diritti universali e indisponibili» e, conseguentemente, della «rimanente area di tutele» rimodulabili dalla contrattazione collettiva.

Poi, le cose sono precipitate e si è voluto bruciare i tempi al punto di considerare superflua la legge-delega. Come se la contrattazione collettiva potesse essere abilitata dal legislatore a fare tutto (o quasi) da sola. E non già la contrattazione sindacale a livello nazionale – il cui ruolo, anzi, il governo vorrebbe svuotare, con buona pace delle parti sociali che, sia pure con l’usuale ambiguità, hanno recentemente espresso un parere opposto – bensì la contrattazione «di prossimità», come il ministro definisce (chissà perché) l’attività negoziale delle rappresentanze sindacali aziendali. Sennonché, l’infatuazione del ministro per l’autonomia collettiva privato-contrattuale non può certo giustificarne la scelta di equiparare le trattative concluse per soddisfare interessi privati al confronto parlamentare che precede una delega legislativa e ne traccia i binari.
Quindi, l’inaudita gravità delle disposizioni in materia sindacale e del lavoro contenute nel decreto anti-crisi consiste anzitutto nella licenza di violare le più elementari regole di una democrazia costituzionale, esautorando il Parlamento a beneficio (anche qui) dei soliti noti. Nel dopo-crisi, infatti, il diritto del lavoro sarà ciò che risulterà dalla sommatoria di nuclei o segmenti regolativi a misura delle esigenze delle singole aziende, con la conseguenza che il principio costituzionalmente rilevante dell’eguaglianza dignitosa dei trattamenti economico-normativi cederà il posto al festival delle diseguaglianze.

La lesione ha proporzioni colossali. Al suo cospetto sa soltanto di eccentricità – che in un altro frangente avrebbe suscitato ilarità – la norma del decreto-manovra che attribuisce ai contratti aziendali in deroga anteriori all’accordo interconfederale del 28 giugno quell’efficacia vincolante per tutto il personale di cui il contratto nazionale è tuttora sprovvisto, anche se fosse approvato «con votazione a maggioranza dei lavoratori» (come la Cgil chiede spesso invano e come è successo negli stabilimenti italiani della Fiat nei mesi scorsi su richiesta dell’impresa). L’eccezionalità della previsione esigerebbe un discorso che ci porterebbe lontano. Qui ed ora, ci si può limitare a guardare cosa c’è dietro il singolare enunciato normativo. Dietro c’è la sfrontatezza di un governo che, disponendo di una maggioranza parlamentare compattamente orientata a certificare che Ruby è una nipote di Mubarak, ritiene di poterla sollecitare a trasformare in un atto avente forza di legge un contratto tra privati come quello di Pomigliano, dove è cominciata la vergognosa vicenda che ha traumatizzato il mondo del lavoro in questi mesi.
Stavolta, insomma, la spudoratezza ha superato il limite della tollerabilità. È come se il governo avesse concesso a sindacati e imprese la licenza di derogare praticamente all’intera normativa esistente in materia di lavoro – o, per usare il linguaggio allusivo prediletto dal ministro Sacconi, introdurvi «specifiche intese modificative» – e si fosse messo alla finestra per vedere come andrà a finire. Fa un certo effetto vedere l’entusiasmo con cui la stessa persona che considera l’eutanasia un esecrabile delitto sponsorizza il suicidio assistito di un settore cruciale dell’ordinamento.

Il ministro ha ragione a dire che il decreto-manovra non abroga l’art. 18 che ormai è diventato la norma-simbolo del diritto del lavoro italiano e, al tempo stesso, la causa della paranoia del ministro almeno quanto lo è la magistratura per il premier. Anzi, nel testo del documento il termine «licenziamento» non compare nemmeno. Si preferisce usare una prosa professorale e, per individuare la materia negoziabile, si preferisce parlare di «conseguenze del recesso».
Tuttavia, il ministro non può dire – come invece ha detto durante la conferenza stampa del 13 agosto – che l’art.18 è rimasto intatto. Optando per la sua derogabilità a opera della contrattazione collettiva in un contesto dilaniato dalla crisi dove l’unità d’azione sindacale da poco recuperata non ha un futuro di cui fidarsi, in realtà il governo ha spianato il terreno per la demolizione della norma statutaria. Quindi, ha trasmesso un messaggio di politica del diritto di questo tenore: la protezione legale dell’interesse del lavoratore è rinunciabile o, comunque, modificabile, se è questo che chiedono le imprese e le controparti acconsentono.
Declassato nella gerarchia degli interessi meritevoli della tutela dello Stato, l’interesse del lavoratore alla continuità del rapporto è restituibile al potere unilaterale dell’impresa e alla logica del mercato. Il che non può piacere neanche a Bruxelles. Lassù, il minimo che potranno dire è che il nostro governo è stato più realista del re. Da anni, infatti, le istituzioni comunitarie conducono una zelante campagna propagandistica a favore di una riduzione delle tutele «nel» rapporto di lavoro in cambio di tutele «fuori», che anche da noi sono carenti. I giuristi dell’UE la chiamano flexisecurity. Che è un ossimoro, perché ambisce a segnalare la possibilità di uno scambio presuntivamente virtuoso tra qualche protezione in più fruibile dal lavoratore alla ricerca del lavoro che ha perduto, o stenta a trovare, e la diminuita sicurezza dell’occupazione per effetto dell’accresciuta flessibilità in uscita.

Di questo nel decreto-legge non c’è traccia. Ovviamente. Pertanto, visto come stanno andando le cose, in qualche azienda potrebbe succedere che la ri-regolazione delle «conseguenze del recesso» auspicata dal decreto per rilanciare (si fa per dire) lo sviluppo finisca per modellarsi sulla disciplina pattizia introdotta all’inizio degli anni ’50 nell’industria, secondo la quale il licenziato poteva attivare un collegio arbitrale – del tipo di quelli incoraggiati dal «collegato lavoro» ideato dallo staff del ministero competente e diventato legge di recente – con la prospettiva di ottenere, nella migliore delle ipotesi, un modico risarcimento. Può darsi che un’eventualità del genere rientri nell’orizzonte di senso in cui si muove il governo, ma non ci vuol molto a capire che comporterebbe un arretramento della civiltà (non solo giuridica) del lavoro che abbiamo conosciuto. Come dire che la lunga e lenta marcia di avvicinamento del diritto del lavoro vivente ai principi della costituzione non solo si è arrestato. Ha anche invertito la direzione: Mauritio consule, ossia durante il consolato sacconiano, il licenziamento potrebbe tornare ad essere la capitis deminutio d’una volta.

Nella ricostruzione che un giorno si farà di questa fase della cultura politica la specola linguistica non potrà essere trascurata, se si vorrà formulare una diagnosi esatta della patologia che colpiva la parola. La parola era malata perché il significato posseduto nel suo campo semantico originario era stravolto. Infatti, come la «restaurazione» dell’autorità dello Stato venne spacciata in periodo fascista come il portato di una «rivoluzione», così nell’età berlusconiana il riformismo ha subito una torsione capace di farne il paravento di una politica reazionaria. Questa malattia della parola, peraltro, non era insorta all’improvviso. Era figlia dell’atteggiamento gregario che la sinistra aveva tenuto nell’arco di troppi anni verso la cultura dominante, soprattutto in materia di lavoro.

 

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Stefano De Rosa
 Ma esiste davvero la lettera di Bce?

Il contenuto della manovra del 12 agosto è ormai conosciuto: l’onere dei 45,5 miliardi di sacrifici spalmati nel biennio 2012-2013, per raggiungere il famigerato pareggio di bilancio, graverà direttamente o indirettamente sulle tasche dei cittadini. Al di là della complessa articolazione del decreto e delle pesanti ricadute sociali – immediate e differite – che esso produrrà, quelle che seguono intendono essere brevi considerazioni critiche sulla genesi di un provvedimento senza precedenti.
La manovra con ogni evidenza era preparata nei dettagli già da molti mesi, ma si è approfittato del generale Agosto per pianificare il blitz politico-istituzionale. Il vero capolavoro è stato rappresentato dalla concomitante (ed artefatta) turbolenza dei mercati borsistici internazionali. Sull’onda di un panico mediatico abilmente cavalcato, è intervenuta come un deus-ex-machina la fantomatica lettera confidenziale della Banca centrale europea che chiedeva pesanti tagli ai conti pubblici italiani.
Ora, se tale missiva fosse stata davvero confidenziale non sarebbe dovuta neanche essere menzionata. Il fatto, invece, che sia stata ripetutamente richiamata dagli esponenti governativi a giustificazione della durezza ed impopolarità della manovra-bis alimenta un sospetto: che la lettera della Bce, in realtà, non sia mai esistita, o, meglio, che sia esistita solo idealmente negli accordi segreti e rigorosamente verbali tra le gerarchie monetarie di Francoforte e il governo italiano.
La Bce, in sostanza, sottoscrive massicce emissioni di Btp italiani, ne sostiene il prezzo, abbassa i tassi e lo spread con i bund tedeschi ed incassa congrue cedole. In cambio, Eurotower offre un formidabile scudo per così dire politico-burocratico dietro al quale il governo italiano può comodamente ripararsi senza dover rispondere in termini di consenso elettorale di scelte socio-politiche ed economico-finanziarie che rasentano la rivolta popolare, facendo ingoiare ai ceti medio-bassi, soprattutto ai lavoratori dipendenti con carichi familiari, condizioni vessatorie. Non un ricatto, dunque, ma una conveniente simbiosi. Una simbiosi rivelatrice, tuttavia, della fine del corretto funzionamento del sistema politico quale motore propulsivo di organizzazione sociale e della definitiva soggezione della politica non tanto alle leggi dell’economia, quanto ai diktat della tecno-burocrazia.
La medesima deriva del rapporto responsabilità-consenso, evidenziata dalla vicenda della manovra e della lettera fantasma, sembra aver coinvolto anche il mondo sindacale. Non da oggi, infatti, molte sigle si sono mostrate particolarmente inclini ad appropriarsi della tesi della controparte.
Nel decreto, i principi che per carattere duraturo e valenza ideologica preoccupano maggiormente sono rappresentati dal recepimento del «metodo Marchionne», che ratifica gli accordi illegittimi di Pomigliano e Mirafiori e dall’adozione dell’Accordo interconfederale del 28 giugno 2011, che all’art. 7 permette il concreto aggiramento all’interno degli accordi aziendali non solo delle norme dei contratti nazionali, ma perfino delle tutele dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, sovvertendo la gerarchia delle fonti normative.
Al proposito, non si può non rilevare l’imbarazzante posizione della Cgil che, sull’onda dell’allarme socio-giuridico, ora invoca giustamente lo sciopero generale, ma la cui attitudine di oca del Campidoglio mal si concilia con la firma apposta in calce al citato accordo di giugno – ove si uniformò alla rincorsa al ribasso dei diritti del mondo del lavoro con l’alibi, anche in questo caso, dalla crisi – e con il suo sostanziale avallo ad una controrivoluzione copernicana che rischia (anzi sta già dimostrando) di cancellare decenni di conquiste sociali.

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da Il Sole 24 Ore

Capitali, ipotesi di uno «scudo-bis»

di Eugenio Bruno

ROMA. L’idea di un prelievo aggiuntivo sui fondi scudati è già sul viale del tramonto. Alle perplessità fin qui implicite del ministro dell’Economia Giulio Tremonti si sono aggiunte quelle esplicite di uno dei suoi sottosegretari, Alberto Giorgetti (Pdl), che l’ha giudicata «tecnicamente difficile». Al massimo si potrebbe pensare a una riedizione della ‘sanatoria’ di due anni fa. Anche se sembrano ancora Iva e pensioni le vie più gettonate per reperire le risorse necessarie a smussare alcuni spigoli (ad esempio contributo di solidarietà e stretta sugli enti locali) della manovra-bis, che ha iniziato ieri nell’emiciclo semisederto di Palazzo Madama la sua avventura parlamentare.

L’iter vero e proprio comincerà solo martedì 23 quando il provvedimento sarà all’esame delle commissioni Affari costituzionali e Bilancio del Senato. Per ora si è solo provveduto a incardinare il disegno di legge di conversione del Dl 98. L’approdo in aula è previsto per il 5 settembre e difficilmente si potranno bruciare le tappe come confermato dal presidente della Bilancio, Antonio Azzollini (Pdl). La prima settimana dovrebbe essere dedicata alla relazione, ai pareri delle altre commissioni e alla discussione generale mentre solo in quella successiva si passerebbe all’esame degli emendamenti. Che si annunciano copiosi.
Uno dei settori più gettonati nelle ultime ore resta lo scudo fiscale.

L’ipotesi caldeggiata da alcuni parlamentari pidiellini di introdurre una sovrattassa dell’1-2% sui capitali regolarizzati o rimpatriati a cavallo tra l’autunno del 2009 e la primavera dell’anno successivo sembra lasciare il passo a una riedizione dello scudo (il quarto in 10 anni) magari con un’aliquota superiore a quella usata all’epoca (5% di partenza che è poi salito al 6 e al 7% con la riapertura dei termini).

Per ora si tratta solo di una traccia seguita all’interno della maggioranza. Ma la misura potrebbe avere un suo appeal e non solo per il rischio di essere scoperti implicito nell’introduzione di una Tobin tax su scala europea. Un recente paper della Banca d’Italia quantificava i capitali italiani detenuti all’estero nel 2008 e fissava in 140 miliardi una stima «plausibile» degli stessi. Sottraendo i 104,5 rientrati tra il 15 settembre 2009 e il 30 aprile 2010 ne resterebbero comunque 35 potenzialmente ‘aggredibili’, al netto peraltro delle eventuali rivalutazioni di cui nel frattempo potrebbero avere goduto. Già replicare il 7% previsto per i ritardatari di un anno fa potrebbe teoricamente portare 2,4 miliardi nelle casse dello Stato.

Contemporaneamente sembra perdere quota la scelta di colpire con una sovrattassa chi ha già scudato una volta. L’idea di un prelievo aggiuntivo dell’1-2% circolata nei giorni scorsi viene definita «irrisoria» anche da chi, all’interno della maggioranza, ne condivide lo spirito come Osvaldo Napoli (Pdl). Ancora più critico il responsabile economico del Pd, Stefano Fassina, che ha rilanciato l’idea originaria del suo partito: imposizione del 15% su tutti i capitali emersi così da incamerare 15 miliardi di nuovo gettito. A frenare ogni entusiasmo ci pensa il sottosegretario Giorgetti che definisce questa ipotesi «tecnicamente molto difficile» e «difficilmente applicabile», anche per l’anonimato garantito dal condono.

Allo stato attuale restano comunque l’aumento di un punto dell’Iva e un mini-innalzamento dell’età pensionabile. Sul primo punto la soluzione più alla portata sembra sempre quella di portare l’aliquota ordinaria dal 20 al 21% che garantirebbe circa 6 miliardi; sul secondo si lavora ad anticipare dal 2013 al 2012 il raggiungimento di quota «97» (intesa come somma di età anagrafica e contributi versati) per il conseguimento delle pensioni di anzianità che assicurerebbe altri 400 milioni.

Ferma restando la contrarietà della Lega, ribadita ieri da Roberto Calderoli, l’impressione è che su entrambi i punti si concentreranno tanto gli emendamenti quanto quelli dei centristi. Specie se una parte delle risorse recuperate saranno dirottate a cancellare il contributo di solidarietà o a rimodularne gli effetti in base al nucleo familiare. Altro campo di intervento potrebbe essere la stretta sugli enti locali. Contro cui hanno nuovamente tuonato il presidente dell’Upi, Giuseppe Castiglione, e i sindaci del Piemonte che lunedì prossimo saranno in piazza contro la manovra-bis.

 

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Tfr, in gioco 13 miliardi l’anno

di Davide Colombo

ROMA. L’anno scorso il Tfr accantonato nelle aziende, comprensivo della rivalutazione dello stock accumulato, ha sfiorato i 13 miliardi.

È da questa cifra che bisogna partire per capire di che cosa stiamo parlando quando parliamo di ipotesi – come quelle evocate in questi giorni da ministri della Lega – di superamento di questo storico istituto contrattuale per versarne il corrispettivo mensile (il 7% dello stipendio lordo) direttamente nelle buste paga dei lavoratori.

Già perché gli altri ‘flussi annui’ del Tfr hanno da tempo preso un’altra destinazione che sarebbe oggi difficile invertire. Oltre cinque milioni di lavoratori (circa il 23% della forza lavoro) ha infatti optato per il trasferimento del proprio Tfr alla previdenza complementare. Sono i fondi pensione negoziali, i fondi pensione aperti, i vecchi fondi e i vari piani individuali previdenziali, cui l’anno scorso, secondo i dati della Covip, sono affluiti 5,1 miliardi. Altri 5,7 miliardi, sempre secondo la Covip, sono invece arrivati al fondo di Tesoreria gestito dall’Inps, dove viene raccolto il Tfr maturato dai lavoratori di imprese con più di 49 dipendenti che hanno optato per mantenere il Tfr anzichéarlo ai fondi.

Infine resta un «residuo» di Tfr maturato di poche migliaia di lavoratori (41mila dal 2008 a oggi) che non hanno fatto alcuna scelta di destinazione del proprio «salario differito» e che lavorano in aziende che non aderiscono contrattualmente ad alcun fondo complementare; in questo caso il flusso finisce al FondInps.

In attesa di dettagli sulla «sorpresa», come l’ha chiamata Umberto Bossi, che potrebbe regalare una 14esima mensilità a chi oggi non ce l’ha, si deve dunque guardare ai 13 miliardi di «Tfr maturato annuo» che resta nelle imprese, soprattutto quelle minori, per le quali l’eventuale sottrazione di liquidità dovrebbe trovare qualche compensazione. Anche perché sull’altra destinazione delle liquidazioni, vale a dire quella previdenziale, il Governo ha un posizione chiarissima, scolpita da ultimo nelle proposte al Libro Verde sulle pensioni della Commissione Ue. Per garantire prestazioni adeguate alle future generazioni bisogna spingere sul secondo pilastro, la previdenza integrativa. E se il ministro Maurizio Sacconi non ha mai nascosto la sua volontà di incoraggiare nuove adesioni ai fondi, il presidente della Covip, Antonio Finocchiaro, insiste per una riforma della fiscalità sui fondi pensione, con il passaggio della tassazione dal maturato al realizzato, come accaduto per i fondi comuni, proprio per incentivare la scelta dei lavoratori più riluttanti.

Ieri sull’ipotesi di una «operazione Tfr» in arrivo, sono arrivati segnali molto freddi dalla maggioranza. «Prima vediamo la proposta concreta e poi la valutiamo», ha detto il sottosegretario all’Economia Alberto Giorgetti (Pdl), «ma ogni proposta deve avere una copertura certa e i saldi non devono cambiare». Di ipotesi «del tutto inopportuna» ha parlato invece Giuliano Cazzola (Pdl) perché il Tfr «è destinato a cose importanti, come la previdenza complementare, oppure l’acquisto della casa o spese sanitarie, e non per avere quattro soldi di più in busta paga, che poi vengono soggetti anche alla progressività dell’aliquota Irpef». Infine la stroncatura senza appelli del senatore del Fli, Mario Baldassarri. «Il Tfr in busta? Se si fa – ha dichiarato al Sole 24Ore – lo si deve fare anche per il pubblico impiego, dove gli stipendi sono bloccati fino al 2013. Equivale a un aumento secco della massa salariale del 7%, quasi 20 miliardi. Come dire, cancelliamo la correzione alla manovra».

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Solidarietà a effetti variabili

di Marco Piazza


Il contributo di solidarietà non avrà lo stesso peso per tutti. E di conseguenza il nuovo prelievo, introdotto dalla manovra di Ferragosto – articolo 2 del decreto legge 138/2011 – e pari al 5% sulle fasce di reddito superiori a 90mila euro e al 10% su quelle al di sopra dei 150mila euro – avrà anche un forte impatto sulla scelta del tipo di società. I soci di società di persone, infatti, dovranno pagare di più rispetto a quelli delle società di capitale. E più aumentano i redditi, più il vantaggio di questi ultimi diventa sensibile. A pesare sarà, soprattutto, il fatto che il dividendo concorre al reddito nella misura del 49,72 per cento.

Ai fini del calcolo del contributo le società di capitali, in sostanza, presentano almeno quattro vantaggi rispetto alle società di persone:
– per i soci con partecipazione al capitale non superiore al 25% e diritti di voto non superiori al 20% (non qualificati), il dividendo è in ogni caso soggetto all’imposta ‘secca’ del 20% e quindi è insensibile al contributo di solidarietà;
– lo stesso accade per i soci qualificati, se il socio non ha percepito utili nel 2011 e non ne distribuirà nel 2012 e 2013;
– in ogni caso la base imponibile soggetta al contributo di solidarietà per il socio qualificato che abbia percepito il dividendo è costituita solo dal 49,72% dell’utile e non dal 100 per cento;
– quest’ultimo vantaggio rigurda anche i soci che abbiano optato per l’applicazione dell’aliquota marginale del 48% sui redditi eccedenti 75mila euro.

Mentre mille euro di utili prodotti da una società di persone sono tassati per trasparenza in capo al socio con l’aliquota Irpef progressiva e, se dovuto, con il contributo di solidarietà, gli stessi mille euro prodotti da una società di capitali sono prima tassati in capo alla società con l’Ires al 27,5% e poi – nell’ammontare netto distribuito (725 euro) – concorrono a formare la base imponibile Irpef (ed eventualmente del contributo di solidarietà) del socio, ma solo nella misura del 49,72 per cento.

Quindi, il socio di una società di persone a cui sia imputabile un reddito di 250mila euro costanti sconterà complessivamente, nel periodo 2011-2014, circa 425mila euro di imposte (senza tener conto dell’effetto dell’Irap e delle addizionali e tenendo conto della deducibilità del contributo di solidarietà), mentre il socio di una società di capitali che abbia percepito, in forma di dividendo, l’intero reddito netto prodotto dalla società di propria competenza (poco più di 181mila euro all’anno, pari a 250mila euro, meno la corrispondente Ires del 27,5%) sconterà, nello stesso periodo, 128mila euro di Irpef e sarà pressoché esonerato dal contributo di solidarietà (avendo un imponibile, in assenza di altri redditi, di poco superiore a 90mila euro).

Ovviamente, per fare un confronto a termini omogenei occorre considerare anche l’Ires che la società avrà pagato nel periodo considerato, pari a circa 275mila euro (68.750 euro per 4 anni). Il vantaggio complessivo resta, comunque di circa 22mila euro per l’intero periodo.

Più aumentano i redditi, più il vantaggio diventa sensibile, soprattuttto fino al livello di reddito in cui può scattare l’opzione per l’aliquota del 48% sull’ultimo scaglione (livello che, tenendo conto dei benefici della deducibilità del contributo di solidarietà, dovrebbe attestarsi intorno ai 441 mila euro). A questo livello, la società di capitale consente di risparmiare 2,7 punti percentuali in media all’anno. Resta comunque un soglia di reddito del socio al di sotto della quale la società di capitale è comunque non conveniente a causa del fatto che la somma dell’Ires e del ‘conguaglio Irpef’ sul dividendo supera l’Irpef che il socio pagherebbe sul reddito della società di persone imputatogli per trasparenza. Questa soglia si colloca in corrispondenza di un reddito del socio di poco meno di 130mila euro.

Ma la vera opportunità offerta dalla società di capitali consiste nella possibilità di dosare il dividendo distribuito riducendolo al di sotto del livello di 181mila euro che fa scattare il contributo di solidarietà; nella speranza che, a partire dal 2014, le casse dello Stato non ne abbiano più bisogno.

A questo proposito va però ricordato che – mentre la scelta della società di non distribuire gli utili non dovrebbe essere sindacabile da parte del fisco – la scelta del socio di non incassare i dividendi deliberati dalla società è già stata oggetto di un giudizio di sfavore da parte della Cassazione (sentenza 10030 del 29 aprile 2009). A parere della Cassazione, qualora i soci di una società commerciale non incassino i dividendi, questo comportamento può essere assunto, in via presuntiva, alla stregua di un finanziamento a favore della società dal quale presumere, conseguentemente, un reddito di capitale. Da notare che i giudici sono giunti a questa conclusione senza fare ricorso all’usuale rinvio alla giurisprudenza sull’abuso del diritto.

 

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Supertassa retroattiva, uno schiaffo

di Guido Gentili


Si parla tanto di costituzionalizzare il principio del pareggio di bilancio con la riscrittura dell’articolo 81 della Carta. E si ri-parla (il primo annuncio è del giugno 2010, ma tutto era poi rimasto nei cassetti) di riformare l’articolo 41 sull’iniziativa economica. Ma se si procedesse anche alla riformulazione – in modo da garantire meglio i cittadini contribuenti- dell’articolo 53 della Costituzione, quello che stabilisce l’obbligo generale di concorrere alla spesa pubblica in ragione della capacità contributiva?

Il perché è presto detto. Il ‘contributo di solidarietà’ di Ferragosto che colpisce – senza distinguo per carichi familiari- chi dichiara un reddito complessivo a partire dai 90 mila euro l’anno è di fatto retroattivo. Si applica infatti per tre anni (due aveva detto il premier Silvio Berlusconi il quale ha poi precisato che il consiglio dei ministri aveva votato per due e che lui era stato ingannato!) già con riferimento al 2011. In deroga esplicita all’articolo 3 della legge 212 del 2000 (votata allora in perfetto assetto bipartisan), più nota come lo ‘Statuto del contribuente’, con la quale si stabilisce che le disposizioni tributarie non debbano avere effetto retroattivo.

Che lo ‘Statuto del contribuente’ nato, trent’anni dopo quello dei lavoratori, per regolare i rapporti tra cittadini e la pubblica amministrazione secondo principi di buona fede e leale collaborazione, sia stata una conquista nessuno lo nega, come avvalorato spesso dalla più autorevole giurisprudenza. Ma è anche un fatto che le sue violazioni (il Sole 24 Ore ne ha contate circa 400 in dieci anni) hanno travolto ogni barriera normativa.

Bastavano, e bastano, due parole -‘in deroga’- ed il gioco è fatto. Con tanti saluti al principio sacrosanto della irretroattività fissato dallo Statuto del contribuente, pur sempre una legge ordinaria che altrettanto ordinariamente è stata aggirata dal Parlamento, dai governi di ogni colore e dalla stessa amministrazione.

Memorabile la definizione data da un alto dirigente dell’Agenzia delle Entrate: più che un insieme di «norme cogenti» lo Statuto è un «humus culturale entro cui agire con più o meno sensibilità a seconda dei casi».
Anche la super-Irpef di Ferragosto da 3,8 miliardi che preme soprattutto su una platea ristretta di lavoratori dipendenti che le tasse le pagano già tutte, è naturalmente ‘in deroga’ ed è dettata, sta scritto nel decreto del

Governo, dalla «eccezionalità» della situazione economica internazionale e tenuto conto degli obiettivi concordati in sede europea.

Sì, ma si può mettere nel piatto tutto il 2011 considerando anche il fatto che ancora il 13 aprile scorso il ministro Giulio Tremonti assicurava che l’Italia non aveva di fronte «emergenze o urgenze», che soffermarsi su un 2011 pesante era frutto di una «visione pessimistica» e che erano escluse «lacrime e sangue»? Quanti conti familiari rischiano ora di andare in rosso o in tilt anche a motivo di una manovra che – annunciata a metà agosto – ‘reclama’ non solo per il presente ed il futuro (come è possibile) ma anche per il passato (come non dovrebbe essere possibile)? Non a caso il decreto attuativo del Tesoro dovrà entro il 30 settembre fornire tutti i chiarimenti necessari.

Il Parlamento tutto, il Governo e la maggioranza hanno di che riflettere. Per l’oggi e per il domani, se davvero si vuole riportare sui binari della correttezza il rapporto tra i cittadini-contribuenti e lo Stato. E la riformulazione dell’articolo 53 della Costituzione, stabilendo il principio delle irretroattività (sul modello della sfera penale), servirebbe in prospettiva a rendere meno ordinarie e molto più forti (col rango costituzionale) le norme già previste dallo Statuto del contribuente.

Del resto (oltre al progetto in questa direzione già presentato dal presidente dei commercialisti Claudio Siciliotti) basta scorrere gli atti parlamentari. Al Senato, ad esempio, c’è una proposta dell’Idv che aggiunge un solo comma all’articolo 53: «La legge tributaria non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo». Alla Camera, primo firmatario il presidente della Commissione Finanze Gianfranco Conte, un progetto del Pdl stabilisce anch’esso il divieto della retroattività come garanzia necessaria per la certezza dei diritti e dei doveri fiscali. Nei rapporti tra i cittadini e il fisco, vi è scritto tra l’altro, «la possibilità di prevedere quanto dell’entrata annua di una famiglia, di un’attività o di un’impresa dovrà essere destinanto all’adempimento dell’obbligo tributario, consente di programmare ordinatamente le spese, senza soggiacere a mutamenti imprevisti che possono pregiudicare l’adempimento degli adempimenti assunti o il conseguimento dei risultati attesi».

La proposta è del 2008, all’inizio della corrente legislatura, e in tre anni ha fatto un solo passo, quello dell’assegnazione alla Commissione Affari costituzionali. Sono citati il grande statista Francesco Saverio Nitti («in materia tributaria niente più nuoce della instabilità»), le ‘Prediche inutili’ di Luigi Einaudi ed il colosso del pensiero economico Adam Smith che nel 1776 spiegava le quattro regole fondamentali della tassazione: giustizia, certezza, comodità, economicità. Nell’estate 2011, in Italia, poco ci manca che debbano ancora essere scoperte.

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Dai frondisti azzurri ai forzisti di Miccichè: ecco il lungo esercito di chi ha lanciato l’assalto alla manovra

di Celestina Dominelli  


C’è chi come l’ex ministro, Antonio Martino, arriva addirittura a minacciare una marcia contro la manovra, sul modello di quella anti-fisco che si svolse a Torino il 23 novembre di 25 anni fa. «Se il governo la fa passare così com’è – confessa in una intervista al Messaggero l’esponente del Pdl tra i fondatori di Forza Italia – l’anniversario della manifestazione del 1986 lo organizzeremo a Roma e ci saranno mezzo milione di persone in piazza». Per ora in Parlamento la fronda pidiellina conta già venti adepti, come ha rivelato ieri il più vulcanico del gruppo, il deputato Giorgio Stracquadanio.

La fronda azzurra all’attacco del decreto
Volti noti (oltre a Martino ci sono anche il sottosegretario Guido Crosetto, il primo ad aver aperto il fuoco contro il dl, lo stilista Santo Versace e la combattiva Isabella Bertolini) o semplici peones pronti a incontrare il segretario del Pdl, Angelino Alfano, per illustrare le proprie controproposte. Guai però a pensare che si fermi qui l’esercito dei contestatori della manovra aggiuntiva (leggi l’Abc).

Perché ormai non passa giorno senza che l’elenco dei malpancisti includa nuovi sostenitori. Certo non tutti usano i toni di Martino, ma sono in molti a chiedere correttivi. A cominciare dal governatore Roberto Formigoni che non risparmia bacchettate ai suoi. «La casa brucia e non c’è tempo da perdere. Ma abbiamo scelto una strada lontanissima dalla ragione politica del partito. Tasse e tagli ai trasferimenti: i nostri elettori potrebbero essere portati a dire che la sinistra avrebbe fatto lo stesso».

Anche i governatori sul piede di guerra
Eccolo qui il nodo delle critiche che fa storcere il naso a molti: l’idea che il Pdl sia percepito d’ora in poi come il partito delle tasse. Così si scopre ce anche un altro forzista della prima ora, l’ex presidente del Senato, Marcello Pera, è pronto a sconfessare in aula il decreto aggiuntivo di correzione dei conti. Per non dire poi degli altri governatori pidiellini che condividono i rimbrotti di Formigoni: da Stefano Caldoro (Campania), che spera in una correzione capace di ridare ossigeno agli enti locali, a Renzo Tondo (Friuli Venezia Giulia) che paventa uno stop al versamento dei 370 milioni previsti dal patto per il federalismo fiscale (siglato con il ministero dell’Economia) se non saranno introdotte delle modifiche.

I sindaci contro i tagli e la cancellazione di Comuni e province
Senza contare che i governatori non sono gli unici sul piede di guerra perché è numerosa la pattuglia degli amministratori locali fedeli al premier che protestano contro la cancellazione di comuni e province. A partire dalla Liguria dove il sindaco pidiellino di Sanremo, Maurizio Zoccarato, guida un folto gruppo di colleghi che hanno bollato come «pura idiozia» l’abolizione di tutte le province liguri con l’eccezione di Genova. Contromossa: investire della questione l’ex ministro Claudio Scajola, ras berlusconiano in Liguria, con l’obiettivo di cambiare le carte in tavola. Auspicio coltivato, su e giù per la penisola, da chi spera che la geografia non venga stravolta e che i nuovi tagli alle casse degli enti locali non trovino poi seguito. Pena le barricate un po’ ovunque: da Roma (dove Gianni Alemanno promette battaglia) a Verona o a Varese con i sindaci leghisti Flavio Tosi e Attilio Fontana ipercritici sulla manovra.

Le perplessità dei ministri e i mal di pancia degli uomini di Miccichè
Il provvedimento poi non trova grandi proseliti nemmeno tra i ministri del Pdl. Giancarlo Galan, ministro della Cultura e noto per la sua schiettezza, non fa mistero delle sue perplessità. E chiede di cancellare la norma che prevede la soppressione degli enti pubblici non economici con meno di 70 dipendenti e che definisce, senza troppi giri di parole, «del tutto inutile, illogica e grossolana».

Per non parlare poi dell’ira di Stefania Prestigiacomo, titolare dell’Ambiente, che bolla l’abolizione della tracciabilità dei rifiuti (il famoso Sistri) come «un regalo alle ecomafie». Roberto Calderoli ha risposto che «l’istituto delle dimissioni è sempre valido» per chi «all’esterno della Lega, anche i ministri» contesti le scelte contenute nel decreto. Ma l’arrabbiatura della Prestigiacomo ha trovato una sponda nei forzisti di Gianfranco Miccichè (legato a lei da antica amicizia) che chiedono il ripristino del Sistri e promettono battaglia in Aula. Silvio Berlusconi ostenta tranquillità. «Quando chiederemo la disciplina di partito, il risultato sarà quello dell’unanimità». Ma, a giudicare dal lungo stuolo dei contestatori, il percorso del dl non sarà una passeggiata.

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