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Bologna. Indagare l’università per trasformare la città

L’Alma Mater è la città del sapere e della formazione, una componente fondamentale della vita bolognese da moltissimi secoli; in questo senso, l’università è cresciuta con Bologna, assorbendone le linee evolutive e dando linfa allo stesso sviluppo cittadino. La trasformazione che negli ultimi vent’anni ha colpito Bologna, che  è politica, economica e urbanistica, sembra riflettersi anche sulla vita di questa sua comunità, distinta ma correlata; e come per il capoluogo emiliano, i cambiamenti in corso sono tanto una parte della trasformazione strutturale del capitale quanto delle peculiarità cittadine. Il processo di produzione della ricchezza sul territorio sta passando dal profitto dei “distretti manifatturieri” alla valorizzazione della rendita del suolo, disegnando nella realtà una città metropolitana terziaria. Il modello emiliano di tradizione socialista e comunista è definitivamente finito, e in città non rimangono neanche i rapporti di equilibrio che lo contraddistinsero. Oggi siamo entrati definitivamente in una nuova fase, in cui i soggetti interessati alla modificazione urbana allungano le mani sulla città che sarà.

Le ultime riforme nazionali del sistema universitario, cancellando molti dei diritti conquistati negli anni ’70, hanno teso ad inserire la concorrenza anche nel settore della formazione, per poterne aumentare l’efficienza: in questo contesto, l’Alma Mater ha fatto la sua scelta, decidendo di concorrere per la “fascia alta” delle università.

Seguendo le linee generali del mondo universitario e della vita degli studenti si riscontra di fatto l’esistenza di politiche e tendenze chiaramente classiste, riscontrabili anche -e questo è scandaloso- nei dati pubblicati dall’Università stessa e dal Ministero competente. Le cifre riferite al decennio 1997-2008, prima dello scoppio della crisi economica mondiale e dunque in un contesto relativamente pacificato, indicano l’aumento vertiginoso dei costi sostenuti per l’affitto (+50%), per gli spostamenti (+338%) e per l’iscrizione ai corsi (raddoppiati o peggio), a fronte di una notevole diminuzione del numero di iscritti.

Il mondo universitario è stravolto, proprio come quello bolognese. La privatizzazione dei diversi servizi ha reso assolutamente insoddisfacente questo settore (basti guardare la mensa universitaria, affidata alla Concerta s.p.a., insufficiente per il numero d’iscritti e nientemeno la più cara d’Italia) e queste stesse privatizzazioni hanno prodotto una nuova fascia di lavoratori precari e flessibili che ruotano attorno all’università. Se questo non bastasse, anche all’interno dell’università stessa troviamo un degno rappresentante del binomio precarietà-flessibilità: il tirocinio, una condizione lavorativa che non si struttura come un vero e proprio contratto di lavoro, non avendo dunque nessuna tutela.

Se le assunzioni con contratto atipico sono sempre in agguato, la struttura stessa dell’università bolognese si vede spinta verso una decisa aziendalizzazione, in linea con quanto sta accadendo a tutto il sistema formativo italiano. Un’università che chiude il bilancio in attivo è quella che “produce” molti laureati con buona formazione e ha pochi “sprechi di lavorazione”, ovvero abbandoni dello studio; seguendo la tendenza che sembra aver caratterizzato la storia – o piuttosto il declino – dell’amministrazione di Bologna, essere in attivo significa ora “riempire le casse” dell’azienda.

È stata creata una forte rete di relazioni tra l’Alma Mater e i diversi bacini produttivi e terziari del territorio metropolitano bolognese, più di 5000 convenzioni con aziende e istituzioni pubbliche e private che, con la scusa di facilitare l’ingresso nel mondo del lavoro, sottomettono la formazione della conoscenza alle esigenze economiche – del mercato e dell’università, a rimetterci è solo la cultura… Ma anche considerando il fatto che la ricerca scientifica risenta inevitabilmente dei rapporti sociali tra classi, e che la Cultura è in realtà sempre quella della classe dominante, sembra evidente come in questi anni sia lo stesso ideale del Sapere ad assumere connotati manageriali sempre più evidenti. Poco contano i proclami del rettore o la firma della Magna Charta del 1988, in cui si riaffermava l’autonomia totale dell’università ed il legame inscindibile tra didattica e ricerca rifiutando i limiti imposti dalla politica.

Fuori da ciò che appare strettamente universitario, la situazione non è certo più rosea. I dati che gli studiistituzionali riescono a cogliere non solo non sono per nulla positivi (abbiamo visto gli spropositati aumenti dei costi sostenuti dagli studenti), ma soprattutto queste ricerche non riescono ad intercettare l’enorme sviluppo dell’economia illegale o semilegale. Il caso dei contratti d’affitto irregolari è un cliché per chi vive a Bologna da qualche anno, avendo tra l’altro la consapevolezza che lo sviluppo urbano della città è sempre stato caratterizzato da una strettissima relazione tra rendita abitativa e studenti universitari.

In questo decadente quadro della condizione universitaria, si inserisce poi il PROGETTO URBANISTICO pensato dal capitale per la nostra città. La forte battaglia contro il degrado della zona universitaria, il marcato aumento della repressione e i progetti del Piano Strutturale Comunale (2007) e del Piano Strategico Metropolitano (2011) (in particolare i poli universitari di Bertalia-Lazzaretto e Navile) sono il tentativo di estromettere gli studenti dal centro della città, riservata alla borghesia cittadina e alle funzioni direzionali. Il PSM, infatti, che si definisce “un processo collegiale di più soggetti pubblici e privati, teso alla costruzione di una visione del futuro del nostro territorio, e mirato al suo posizionamento sulla scena regionale, nazionale e internazionale”, è sostanzialmente un organo populista, padronale e privo di una progettualità che tenga in conto la vita delle persone.

Lo studente, ormai visto solo come consumatore di sapere e servizi, non può più vivere Bologna: sembra che al massimo venga lasciata la possibilità di prender posto in uno degli scompartimenti assegnati, classi dirigenti da una parte, classi a basso reddito dall’altra. In un’area metropolitana non c’è posto per una libera formazione della conoscenza (e della coscienza), ogni individuo è selezionato alla base, in virtù della classe sociale d’appartenenza.

L’aziendalizzazione dell’università e la nuova dimensione metropolitana pensata per il capoluogo emiliano portano inevitabilmente al superamento della concezione che vedeva una città, quella universitaria, dentro un’altra città, più complessa e articolata, che è Bologna.

In questi giorni a Bologna la Rete dei Comunisti lancia un’inchiesta cittadina che vuole partire dall’università-industria che la centralizzazione europea ci impone, per poi essere però più ampia, allargarsi a tutto l’universo cittadino, rompere quel muro che ancora separa due mondi che sono in realtà uno solo. Per questo crediamo che lo zoccolo duro di opposizione nell’università debba reintegrarsi in quello operante nel sistema-città complessivo, portando le proprie lotte all’interno di una lettura comune e generale.

Le nuove forme di relazione tra diversi settori sociali si stanno costruendo in questi anni, e forse ne possiamo avere un’idea guardando ai progetti urbanistici che si vanno sviluppando. L’inchiesta comune vuole essere un momento di contatto/raccordo/coordinamento dei molti movimenti sociali d’opposizione urbani e metropolitani, riuniti su alcuni quesiti che tutti quotidianamente ci poniamo.

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