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Nato. Settanta anni che cominciano a logorarla, da dentro

Si stanno celebrando in questi giorni i Settanta anni dalla fondazione della Nato, l’apparato politico-militare nato intorno al Trattato del Nord Atlantico, voluto dagli Stati Uniti per contrastare l’Unione Sovietica e “imbrigliare” i paesi europei dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale.

La cerimonia ha visto la presenza dei soli ministri degli Esteri dei paesi aderenti. Quella tra i capi di stato dovrebbe svolgersi in estate.

La Nato, come ricordava Brzezinski, per gli Stati Uniti resta uno strumento fondamentale di politica militare ma anche di interferenza negli affari europei. Affari europei che solo qualche anno fa un grande vecchio dell’establishment statunitense come Kissinger lamentava che “L’Europa deve resistere alla tentazione di distinguersi. La critica della cultura e del sistema politico americano è stata il principale argomento degli oppositori europei alla NATO negli anni ’50. La cosa insolita, ora, è che i governi di paesi chiave non stanno facendo nulla per frenare questa tendenza, anzi arrivano a provocarla”.

Ma quella classe dirigente non esiste più, né a Wahington né nell’Unione Europea. Oggi prevale una classe dominante mediocre e arrogante, senza visioni strategiche e frastornata dai rapidi cambiamenti nei rapporti di forza mondiali che ne stanno riscrivendo le gerarchie.

La Nato, una camera di compensazione tra gli interessi Usa e quelli delle potenze europee, e nella quale per sessanta anni gli Stati Uniti sono stati il primus inter pares, è attraversata da crescenti contrasti interni e dalla riluttanza dell’amministrazione Trump – mitigata da orientamenti diversi dentro il Congresso – nel continuare ad usarla per condizionare le relazioni con i partner europei con i quali stanno prevalendo i fattori di divaricazione piuttosto che quelli di concertazione.

Il fattore di crisi più recente della Nato è la decisione della Turchia di dotarsi del sistema antimissile russo S 300. L’accordo è stato siglato mercoledi e gli Usa l’hanno presa male, malissimo, hanno fermato la consegna di componenti per gli F-35 alla Turchia come ritorsione per la determinazione di Ankara nel procedere all’acquisto del sistema missilistico russo.

Ma un fattore di crisi piuttosto emblematico della tendenza alla crisi interna della Nato ci riporta indietro di undici anni, quando nel 2008 la Georgia si era sentita talmente forte e sostenuta dagli Stati Uniti da muovere guerra contro le due piccole repubbliche della Ossezia e dell’Abkhazia legate a Mosca. L’entrata in campo delle forze armate russe portò alla sconfitta della Georgia, la quale temendo per il suo futuro invocò l’art.5 della Nato chiedendo alle potenze Nato di intervenire al suo fianco. Gli Usa si dissero disponibili, ma le potenze europee opposero un secco rifiuto evidenziando quella crisi della Nato diventata più leggibile negli anni successivi.

Il che ci porta a guardare con interesse un’altra intervista di Kissinger nel pieno della guerra infinita scatenata dagli Usa in Afghanistan nel 2001, e ancora una volta Kissinger profetizzava sui contrasti tra Stati Uniti e partner europei: “quando l’Unione Europea agisce come soggetto unico negli affari mondiali, molto spesso, e sarei tentato di dire sempre, agisce in opposizione agli Stati Uniti…questo sarebbe un errore capace di portare ad una frattura tra le due sponde dell’Atlantico in un mondo sempre più pieno di problemi”.

Potremmo continuare a lungo una disamina dei fattori che fanno propendere per un logoramento della Nato, a settanta anni dalla sua nascita, piuttosto che su un suo mantenimento o rinnovamento. Gli Stati Uniti dovrebbero accettare di non essere più i “primi tra pari” nella Nato, ma per gli Usa nel quale domina l’ideologia dell’’America first”, questo non appare al momento accettabile.

Abbiamo quindi scelto di far parlare alcuni think thank italiani vicini o strettamente integrati con la Nato e gli apparati euroatlantici. In questi giorni molti di loro hanno scritto saggi, documenti e articoli sull’anniversario della Nato ma, al di là delle frasi di prammatica sulla utilità e l’insostituibilità del loro “datore di lavoro”, in alcune parti delle loro elaborazioni sono costretti a rivelare anche gli elementi di crisi della Nato. Buona lettura.

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Istituto Affari Internazionali (Iai)

“Sono proprio le divisioni interne all’Alleanza le più grandi sfide non solo alla sua sopravvivenza, ma alla pace, sicurezza e stabilità nel e del Occidente. Divisioni tra Stati Uniti ed Europa sul programma nucleare iraniano e sul commercio internazionale, e tra gli europei sulla strategia nei confronti della Russia e della Cina. C’è solo una minaccia peggiore di un Occidente diviso, ed è un Occidente che non crede più in sé stesso, nei suoi valori – incluso l’ordine liberale internazionale che ha costruito – e nella necessità di difenderli anche con la forza. L’amministrazione Trump è in un certo senso il sintomo più grave di questa sfiducia dell’elettorato americano, che pure serpeggia in maniera diversa nei Paesi europei rispetto all’Ue più che alla Nato….

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Istituto di Studi di Politica Internazionale (Ispi)

“In particolare, sono tre le questioni che sembrano mettere sotto pressione la coesione interna tra i membri NATO: il ruolo degli Stati Uniti ai tempi dell’ ”America first”, le divergenze tra i membri più esposti alle minacce provenienti dal fianco est dell’Alleanza (la Russia) e quelli più esposti invece alle nuove minacce provenienti dal fronte sud (traffici illeciti, terrorismo), e infine il ruolo sempre più ambiguo giocato dalla Turchia all’interno dell’Alleanza.

Per quanto riguarda l’incertezza sollevata dall’attuale postura statunitense nei confronti dell’Alleanza, essa è strettamente connessa alla fase di incertezza che attraversa in questo momento le relazioni transatlantiche stesse. La preferenza del presidente Trump per un approccio unilaterale e transazionale alle relazioni internazionali – che lo ha portato ad esempio a ritirare gli Usa dall’accordo di Parigi sul clima e da quello sul nucleare iraniano – ha sollevato timori tra gli alleati circa il fatto che Trump potesse effettivamente dare seguito alla minaccia di ritirare gli Usa dalla NATO in quanto giudicata troppo costosa e poco conveniente per gli interessi statunitensi. Se a rassicurare gli alleati è intervenuto il Congresso – che lo scorso gennaio ha approvato 357 a 22 un atto che reitera il sostegno Usa alla NATO e che impedisce che fondi federali vengano utilizzati per abbandonare l’organizzazione – permane comunque un senso di smarrimento che contribuisce a convogliare all’esterno l’immagine di un’Alleanza non più così coesa, e di un paese, gli Usa, pronti a mettere in dubbio la possibilità di intervenire effettivamente a sostegno degli alleati qualora questi fossero effettivamente minacciati. La retorica molto aspra di Trump nei confronti dell’Alleanza diverge in qualche modo dalla realtà dei fatti. Infatti, dall’inizio dell’amministrazione Trump, gli Usa hanno aumentato la loro presenza militare in Europa: il budget dedicato alla “European Deterrence Initiative” è quasi raddoppiato, passando dai 3,4 miliardi di dollari del 2017 ai 6,5 del 2019. Tuttavia, l’Europa non può non prendere atto di una tendenza in atto ormai da diversi anni all’interno del dibattito politico statunitense, solo portata all’estremo – e su un piano retorico più aspro – da Trump: la percezione di dedicare troppe risorse ad alleati che avrebbero la possibilità di fare di più per la propria difesa, mentre altrove sorgono attori – come la Cina – che rappresentano la vera sfida per gli Usa del futuro.

Ulteriore faglia interna all’alleanza è quella che vede da una parte i paesi dell’est – i Baltici e la Polonia – e i paesi del Sud. Per i primi è ancora la Russia a rappresentare la principale minaccia alla propria sicurezza e integrità territoriale. Una percezione, questa, che si è rafforzata dopo gli eventi in Ucraina e Crimea del 2014, e che è alimentata dall’attuale clima di reciproco sospetto nelle relazioni tra l’Occidente e la Russia in seguito al caso Skripal e allo spinoso dossier dell’interferenza russa nelle elezioni presidenziali americane del 2016. Per i secondi, la minaccia principale è invece rappresentata dalle ricadute negative delle situazioni di instabilità e conflitto nel Medio Oriente e nel Nord Africa, ovvero l’aumento della pressione migratoria, l’incremento della minaccia terroristica, così come la minaccia rappresentata da traffici illeciti di altra natura – narcotraffico e traffico di esseri umani – che proliferano in contesti di frammentazione delle strutture statuali. Va da sé che le risposte a questi due tipi di minacce – la Russia da una parte e attori non statuali dall’altra – sono diverse, e pertanto è richiesta una riflessione circa quali strumenti predisporre per rispondere in modo efficace a entrambi i tipi di minaccia.

Infine, la trasformazione del ruolo della Turchia nell’Alleanza, che va di pari passo con la trasformazione impressa dal presidente Recep Erdogan alla politica estera e di difesa del paese, attraverso una postura sempre più assertiva. L’intervento militare diretto di Ankara nel conflitto siriano allo scopo di contrastare la presenza curda lungo i suoi confini meridionali – percepita come una minaccia alla sicurezza nazionale – ha sollevato timori di uno scontro con Washington, alleata invece delle forze curde nella lotta allo Stato islamico; questo elemento, insieme alla possibilità ventilata da Erdogan negli scorsi mesi di acquistare missili S-400 dalla Russia, ha ulteriormente contribuito al deterioramento della fiducia reciproca all’interno dell’Alleanza. Se da una parte la Turchia continua a guardare alla NATO come un’alleanza indispensabile per la propria sicurezza, dall’altra Erdogan è arrivato negli scorsi mesi a mettere in discussione la permanenza della Turchia nell’Alleanza se Trump non avesse rimosso le sanzioni imposte nell’agosto 2018 ai ministri della Giustizia e degli Interni turchi in seguito alla detenzione in Turchia del pastore Brunsen. Il caso si è risolto nel novembre scorso, ma le relazioni tra Ankara e Washington rimangono tese, con evidenti ripercussioni sull’Alleanza”.

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Foreign Policy

“L’Alleanza atlantica, istituita per contenere l’Unione sovietica nel secondo dopoguerra, ha cominciato a morire alla fine della Guerra fredda”, ha scritto su Foreign Policy l’analista James Traub. “Quel che l’ha tenuta in vita negli ultimi tre decenni è stata non tanto una necessità strategica quanto una convergenza di valori: i valori dell’ordine liberale post bellico. Ora l’azionista di maggioranza dell’alleanza, gli Stati Uniti, hanno perso interesse in quei valori. L’alleanza era già un cadavere, ma Donald Trump ha piantato l’ultimo chiodo che ne chiude la bara quando ha deciso di ritirarsi dall’accordo sul nucleare con l’Iran. Cosa succederà adesso?”

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