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Chi ha giustiziato Mussolini? Il Colonnello Valerio, uno e trino: Audisio, Lampredi, Moretti

Con il diffondersi della notizia dell’arresto di Mussolini il 27 aprile, era giunto al comando del CLNAI un telegramma degli Alleati con la richiesta di consegnare loro “tutti i membri di governo della RSI“, duce incluso, citando la corrispondente clausola 29 dell’armistizio di Cassibile, siglato da Eisenhower e Badoglio nel settembre 1943.

Ma molte cose erano successe, nel frattempo, in quei venti mesi: i vertici del CLNAI avevano ora intenzioni differenti, in quanto era chiaro che gli Alleati non intendevano rispettare minimamente l’indipendenza giudiziaria dell’Italia, che aveva tutti i diritti di giudicare e condannare i criminali fascisti, senza delegare il proprio potere giudiziario a nessuno; ed era il CLNAI, durante la transizione, la sola autorità legale e legittima.

Erano quindi da applicarsi a tutti gli effetti i Decreti del CLNAI del 25 aprile 1945.

  • Proclama del CLNAI (25/4/45). «Il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia, oggi 25 aprile, in nome del popolo e dei volontari della libertà e delegato del solo governo legale italiano, ha assunto i poteri di governo. (…) Sono istituiti i Tribunali di Guerra in ogni Provincia dal Comando di zona del Corpo Volontari della Libertà designato dal Comando stesso che presiede, da un magistrato in servizio attivo o a riposo designato dal Comitato di Liberazione Nazionale provinciale e da un Commissario di guerra addetto al Comando di Zona e da due semplici partigiani nominati dal Comando di Zona. I Tribunali di guerra hanno competenza a giudicare dei reati contemplati dal presente decreto: essi siedono in permanenza e le loro sentenze sono emanate in nome del popolo italiano ed eseguibili immediatamente.»

  • Decreto del CLNAI (25/4/45) per l’amministrazione della giustizia. Art.5: “I membri del governo fascista e i gerarchi fascisti colpevoli di aver contribuito alla soppressione delle garanzie costituzionali, d’aver distrutto le libertà popolari, creato il regime fascista, compromesso e tradito le sorti del paese e di averlo condotto all’attuale catastrofe, sono puniti con la pena di morte e, nei casi meno gravi con l’ergastolo”.

Mussolini, i gerarchi e i ministri in fuga con lui erano già stati, perciò, condannati a morte. I Tribunali di Guerra vennero istituiti per processare e giudicare i fascisti colpevoli di crimini di guerra, ma – per Mussolini e gli altri grandi criminali – non erano necessari: l’Articolo 5 del Decreto per l’amministrazione della giustizia costituiva giudizio di colpevolezza e sentenza, direttamente emanate dal Comitato Insurrezionale del CLNAI in qualità di Tribunale di guerra.

Non restava che eseguire la sentenza, contro l’attuazione della quale agivano gli Alleati e inizialmente anche Cadorna e i vertici del CVL.

Ci soffermiamo qui su questo punto, in modo da ben chiarirlo: l’Italia non aveva – per diverse ragioni – maturità, indipendenza e struttura giudiziaria tali da poter tenere, per Mussolini, un “processo regolare”; non ce n’erano le condizioni, né il clima politico.

Cedere la palla agli Alleati non era neppur questo possibile; contro i criminali di guerra fascisti non vi fu alcun equivalente dei processi di Norimberga: quello che fece, in termini di giustizia verso i fascisti, l’Italia lo fece per proprio conto.

Gli unici ad avvantaggiarsi per un eventuale processo-fiume a Mussolini, celebrato in Italia, sarebbero stati, oltre al duce stesso, i giornali italiani: immense tirature garantite, riportanti anche le immancabili e faconde dichiarazioni dell’imputato, con l’opinione pubblica divisa fra innocentisti e colpevolisti come fra Coppi e Bartali, manifestazioni pro e contro Benito sfocianti inevitabilmente in scontri di piazza, lettere dal carcere “dell’illustre detenutoai suoi sostenitori, Rachele che mostra i figli piccoli che vogliono abbracciare papà, Edda che lo perdona di aver lasciato fucilare Ciano e chiede clemenza.

Questo scenario da incubo si sarebbe concluso con una sentenza di condanna alla reclusione, magari anche pesante, probabilmente l’ergastolo: vanificata però dalla elezione a furor di popolo neofascista nelle liste del MSI con una valanga di preferenze, MSI che avrebbe avuto un successo elettorale assai maggiore di quanto ebbe in realtà nel 1948; liberazione dell’onorevole Mussolini grazie all’immunità parlamentare, suo trionfale ritorno nelle aule “sorde e grige” che nel 1922 aveva minacciato di trasformare in un “bivacco di manipoli”.

L’onorevole Mussolini che siede in Parlamento, come Parri, Pertini, Longo, Einaudi, De Gasperi; l’onorevole Mussolini che chiede e ottiene la parola in Parlamento; Benito che si fa fotografare, mento in fuori, vicino allo scranno di Giacomo Matteotti; Mussolini che riceve i voti del MSI alle elezioni da Presidente della Repubblica.

Mussolini – abilissimo a far la vittima – che ostenta le minacce di morte ricevute e che ad un certo punto fugge per concludere la sua vita, pancia al sole, in Spagna, con l’asilo politico del suo sodale Francisco Franco.

Questi, in poche e sentite frasi, sarebbero stati gli esiti del “processo regolare” al duce. La determinazione ed il coraggio di pochi uomini del CLNAI – per fortuna dell’Italia – ci hanno risparmiato almeno questo scempio.

Walter Audisio si trova nel primo pomeriggio del 28 aprile a Dongo, con la sua squadra di partigiani, incaricato dal Comitato insurrezionale del CLNAI a Milano di eseguire la sentenza di condanna a morte di Mussolini e dei gerarchi. Ha perduto tutta la mattina per vincere le resistenze delle autorità locali, e in attesa di un camion per il trasporto.

Lampredi è ora a Dongo, il camion è stato reperito ed è a disposizione. Non fidandosi ancora completamente di lui, Audisio chiede al Comandante Pedro di andare a prelevare i gerarchi prigionieri a Germasino, in modo da riunirli tutti a Dongo, in vista del loro trasporto.

A quel punto Pedro conosce già la sorte che li attende, ma obbedisce pur disapprovando agli ordini di un ufficiale superiore (Valerio), munito di un lasciapassare firmato personalmente da Cadorna. Alle 15:15 – allontanatosi Pedro verso Germasino – Valerio rompe gli indugi e parte da Dongo in auto, in direzione di Bonzanigo, dove il duce è prigioniero. P

er essere più veloce e meno intercettabile, non si fa seguire neppure dalla sua esigua squadra, che lascia di presidio a Dongo, ma solo da Lampredi e da Michele Moretti “Pietro” della 52a Brigata, che conosceva i carcerieri ed il luogo, essendoci già stato la notte prima insieme a Pedro e Neri.

Senza Michele Moretti, Audisio e Lampredi non avrebbero mai potuto individuare dove fossero stati nascosti Mussolini e la Petacci. Al trasporto provvede l’autista Giovanni Battista Geninazza, che si trovava a Dongo e disponeva di un’automobile “del suo principale”: Valerio requisisce auto ed autista, il quale comunque non ci pensa due volte a portare a Bonzanigo i tre Comandanti partigiani, intuendo che potrà partecipare a qualcosa di importante.

Vi sono versioni contrastanti su come andò, da quel punto in avanti, ma sono dettagli che si inseriscono in un quadro abbastanza chiaro; nella sostanza, gli esecutori giungono a casa De Maria, sempre sorvegliata dai partigiani Sandrino e Lino, prelevano Mussolini e la Petacci, raccontando loro di essere venuti a liberarli, per ottenere collaborazione dal duce nel trasferimento; li caricano sull’auto e li portano nel luogo precedentemente scelto per l’esecuzione, poco distante: un vialetto, via XXIV Maggio a Giulino di Mezzegra, in posizione riparata davanti alla cancellata di una villa, Villa Belmonte.

I tre Comandanti fanno scendere i prigionieri, poi Geninazza sposta la macchina a poca distanza. Moretti e Lampredi sono inviati da Audisio a bloccare la strada nelle due direzioni. A Mussolini viene fatto cenno di dirigersi verso il cancello. Valerio pronuncia la sentenza:

Per ordine del Comando Generale del Corpo Volontari della Libertà sono incaricato di rendere giustizia al popolo italiano1

Mussolini e Petacci, paralizzati dallo stupore, sono in piedi contro il muretto, sulla sinistra per chi guarda il cancello. Audisio tenta di procedere all’esecuzione, ma il suo mitra si inceppa; Lampredi si avvicina, estrae la sua pistola, ma anche da questa il colpo non parte; Audisio chiama allora Moretti che, di corsa, sopraggiunge con il suo mitra.

Con tale arma il “colonnello Valerio” – Audisio, oppure Lampredi o Moretti, secondo altre versioni – scarica una raffica mortale su Mussolini. La Petacci non si muove dal suo fianco: dopo lo stupore iniziale, si riscuote dopo il fallito primo tentativo di Audisio, urla e piange, supplica di lasciarlo stare, e nonostante i solleciti a spostarsi, cerca di frapporsi fra i partigiani e il duce: vuol seguirlo fino all’ultimo istante e sacrificarsi per lui. Muore colpita dalla raffica (versione ufficiale), oppure viene abbattuta appena un attimo prima, in modo da poter procedere all’esecuzione senza disturbi.

Quali siano state le ultime parole del duce (un improbabile murattiano “sparate al petto” per la delizia dei neofascisti, o altro, o nulla) non ha grande importanza. Viene poi inferto un colpo di grazia al cuore di Mussolini, con la pistola, da Lampredi. Sono le ore 16.10 del 28 aprile 1945.

Figura 1 – La pistola Beretta di Lampredi, che inferse a Mussolini il colpo di grazia, 28 aprile 1945. (Museo della Fine della Guerra Dongo (museofineguerradongo.it)
Figura 2 – Walter Audisio era armato di un mitra Thompson calibro 45 ACP, che si inceppò al momento dell’esecuzione di Mussolini, e che non risulterà esser stato utilizzato al momento della sua riconsegna al commissario politico della divisione partigiana dell’Oltrepò, Alberto Maria Cavallotti. Qui vediamo un esemplare dello stesso mitra Thompson utilizzato durante la campagna d’Italia e conservato presso il Museo della Linea dei Goti di Montegridolfo (RN). https://bbcc.ibc.regione.emilia-romagna.it/pater/loadcard.do?id_card=204140

Alcune versioni danno come esecutore materiale Lampredi, altre ancora più probabilmente Moretti, che era l’unico partigiano combattente sui luoghi, mentre Audisio e Lampredi operavano con ruoli dirigenziali presso i vertici del CVL a Milano. Sono dettagli difficili da appurare, e alla fine di secondaria importanza. Fatto sta che:

Figura 3 – Mitra francese MAS38 di Michele Moretti, l’arma che sparò a Benito Mussolini. L’arma si trova sorprendentemente in un museo in Albania, il Museo Storico Nazionale di Tirana. https://it.wikipedia.org/wiki/File:Mitra_francese_MAS_38_di_Michele_Moretti,_che_spar%C3%B2_a_Benito_Mussolini.JPG

I referti autoptici confermano che i proiettili che colpirono Mussolini da vivo, incluso quello ritenuto mortale, partirono – a quell’ora (fra le 16:00 e le 16:30) – effettivamente da queste due armi: il mitra di Moretti (Figura 3) e la pistola di Lampredi (Figura 1). Sono due armi partigiane, azionate da partigiani: tanto ci basta.

Da più parti si sostenne poi che Audisio – figura abbastanza secondaria nel Partito Comunista fino ad allora – prese, su indicazione di Longo e Sereni, sulle sue spalle il merito (ma anche il peso) di diventare “il partigiano che aveva giustiziato Mussolini“, in quanto Lampredi aveva un ruolo pubblico più noto nel Partito e non era opportuno attribuirgli l’uccisione dei due, in previsione di quanto sarebbe successo negli anni a venire.

Audisio, infatti, si prese anche la responsabilità dell’esecuzione dei gerarchi, di lì a due ore: per questi fatti (durante i quali vennero giustiziati i più alti gerarchi fascisti della RSI, molti criminali di guerra ed assassini, un profittatore e spia, ed un aviere repubblichino incolpevole), Audisio andò anche incontro, nel dopoguerra, ad un processo.

Michele Moretti, anch’egli del Partito Comunista, si contraddistinse sempre per una certa discrezione sull’accaduto, in osservanza probabilmente ai dettami del Partito, che tesero ad accreditare una sola “versione ufficiale”.

Il relativo mistero sugli ultimi istanti di vita di Mussolini generò, nei decenni successivi, una ridda di versioni alternative: non è compito di quest’opera analizzarle tutte, in quanto non fanno parte della Storia di quei giorni, ma della “storia della storia”.

Vi sono ad esempio delle ricostruzioni che datano la morte di Mussolini al mattino, la più documentata delle quali resta secondo noi quella del giornalista, di parte neofascista, Giorgio Pisanò, autore di una inchiesta notevole, molto dettagliata e di prima mano, condotta nell’arco di decenni di lavoro giornalistico; molti altri, della sua parte politica, non hanno svolto alcuna ricerca, ma soltanto messo insieme delle dicerie, dei ritagli e dei pezzi di internet, utilizzando come collante le loro perversioni ideologiche, per arrivare ad opere che risultano utili più che altro per analizzare la psicologia neofascista o revisionista (un’opera esclusivamente dedicata alla “Dongologia” revisionista sarebbe necessaria).

Tornando a lavori comunque degni di attenzione, anche se giungono a conclusioni in parte errate, le ricostruzioni che datano la morte di Mussolini al mattino contrastano con molti dati di fatto, soprattutto i migliori referti autoptici: i più affidabili e recenti sono ad opera del dott. Baima Bollone, il più autorevole medico legale italiano, che riesaminò completamente i referti redatti a suo tempo dal prof. Cattabeni in occasione dell’autopsia del 30 aprile, le prove fotografiche ed altre evidenze, utilizzando tecniche forensi molto avanzate, disponibili nel 2015 e non 70 anni prima.

I referti datano la morte di Mussolini a non prima delle ore 16:00 del 28 aprile; inoltre, l’argomento principale a sostegno di una morte “prima di pranzo”, cioè al mattino, ovvero la mancanza di residui di cibo nello stomaco del duce, viene smontata dalla stessa fonte, venendo spiegata essere compatibile con le sue caratteristiche fisiologiche: seguiva una dieta con cibi che gli permettevano di alleviare le sue sofferenze gastriche (ulcera), svuotando lo stomaco in un paio d’ore al massimo.

“Valerio”, il partigiano che giustiziò Mussolini, era uno dei tre: Audisio (esecutore ufficiale), Lampredi (colpo di grazia) e Moretti (che, secondo noi, sparò personalmente la raffica. Ci ha convinti una lettera di cui parleremo fra poco).

Non era – come sostenuto da alcune ricostruzioni – Luigi Longo “Gallo”, dirigente del CVL e futuro segretario del Partito Comunista, che nel primissimo pomeriggio del 28 partecipava all’ingresso dei partigiani di Cino Moscatelli a Milano, come testimoniano fotografie, filmati, testimonianze (vedi più avanti, Figure 4).

Figura 4 (a). Ventotto aprile 1945, ore 13:00, Milano, zona Sempione. Guidate da Vincenzo Moscatelli (il leggendario Cino), entrano in Milano le brigate valsesiane. Sono accolte in viale Certosa da Luigi Longo, Pietro Secchia (commissario politico delle Brigate Garibaldi), Pietro Vergani e Alessandro Vaia. Da corso Sempione la colonna prosegue per via Farini, via Stelvio, la stazione Centrale, viale Brianza. Il racconto, con le riprese storiche di quel giorno, è reperibile in diversi filmati, fra i quali segnaliamo l’eccezionale documentario di Gianni Bisiach “Mille papaveri rossi. Resistenza” https://www.youtube.com/watch?v=nYlSGXSheN4&t=8s Moscatelli tiene un improvvisato comizio in Piazza Duomo, qui riportato in una foto (Figura 43 (a), si veda il dettaglio nelle fonti iconografiche): Cino ha il cappello da alpino, sotto più in primo piano e il capo leggermente chino in quell’istante, ecco Luigi Longo. La cronaca della giornata è anche reperibile nell’opera: P. Secchia – C. Moscatelli, Il Monte Rosa è sceso a Milano, Einaudi, Torino 1958. Opera nella quale è reperibile la fotografia, Figura 43 (b), dei Comandanti partigiani che quel giorno (28 aprile), smontati dai mezzi, si dirigono in Piazza Duomo per il Comizio. Nella fotografia, da sinistra a destra: Aldo Aniasi, Jan Taglioretti, Moscatelli, Secchia, Longo, che stringe la mano al partigiano Andrea Cascella.
Figura 4 (b). Figura 4 (a). Ventotto aprile 1945, ore 13:00, Milano, zona Sempione. Guidate da Vincenzo Moscatelli (il leggendario Cino), entrano in Milano le brigate valsesiane. Sono accolte in viale Certosa da Luigi Longo, Pietro Secchia (commissario politico delle Brigate Garibaldi), Pietro Vergani e Alessandro Vaia. Da corso Sempione la colonna prosegue per via Farini, via Stelvio, la stazione Centrale, viale Brianza. Il racconto, con le riprese storiche di quel giorno, è reperibile in diversi filmati, fra i quali segnaliamo l’eccezionale documentario di Gianni Bisiach “Mille papaveri rossi. Resistenza” https://www.youtube.com/watch?v=nYlSGXSheN4&t=8s
Figura 4 (c). Milano, 6 maggio 1945. Parata della Liberazione. In prima fila, da sinistra, Argenton, Stucchi, Parri, Cadorna, Longo, Mattei. In seconda fila a sinistra si riconosce Ilio Barontini.

Mussolini non venne “giustiziato due volte”, una vera al mattino e una finta al pomeriggio. La “pista inglese”, con un supposto ruolo dei servizi segreti nell’uccisione, non ha mai trovato riscontri certi. Sappiamo che gli Alleati inviarono, in quelle ore decisive, agenti per cercare di battere sul tempo i partigiani: nessuno riuscì nella missione, furono gli inglesi e gli americani ad essere battuti sul tempo.

Mussolini non venne catturato da loro, ma dai partigiani di Pedro, e venne giustiziato con i proiettili di due armi partigiane, il mitra di Moretti e la pistola di Lampredi. Il Neri e Bill erano a Dongo e non parteciparono all’esecuzione. Sic est.

 

Il primo resoconto dell’esecuzione, ancora anonimo, apparve sulla prima pagina de l’Unità già il 1° maggio 1945 (Figura 5). Una ricostruzione più completa, questa volta firmata da Audisio, apparve in cinque puntate sulla stessa “Unità” del 25-26-27-28-29 marzo 1947. Il memoriale completo di Audisio uscì nel 1975, purtroppo postumo.

Al di là dei particolari nel suo racconto, è certo che senza la ostinata e spiccia determinazione di Audisio ad eseguire la sentenza, a vincere le resistenze locali, causate in parte da quelle ai vertici del CVL, e soprattutto a far presto, battendo sul tempo gli Alleati che stavano per prendere militarmente sotto controllo la zona, Mussolini sarebbe stato sottratto ai partigiani e consegnato agli Alleati.

Visto il poco o nulla che scontarono anche alti gerarchi superstiti, responsabili diretti o indiretti di molti crimini come Graziani o Borghese, e l’ondata di amnistie del dopoguerra, di sicuro Mussolini avrebbe avuto salva la vita. E magari, come disse Sandro Pertini nella già citata sua intervista all’Avanti del 1965, avrebbe avuto nell’Italia del dopoguerra un ruolo politico: sarebbe stato eletto in Parlamento con il Movimento Sociale, sedendo grazie all’immunità parlamentare sugli stessi banchi di Pertini, Parri, Longo. E di Giacomo Matteotti.

Giustizia – invece – fu fatta.

Ma chi, alla fine, fece giustizia, davanti a quel cancello (Figura 6)?

Figura 6. Giulino di Mezzegra (CO) – Cancello di Villa Belmonte, oggi. Visibile la croce in legno “BENITO MUSSOLINI 28 APRILE 1945”. Sulla destra, ultima recente aggiunta, un tabernacolo con foto dei due.

Abbiamo già ribadito che non è un particolare importante. Sappiamo tuttavia che fu il mitra francese MAS38 di Michele Moretti, quello che fece giustizia. Ma azionato da chi? Il mitra francese MAS38 di Michele Moretti prima di approdare al suo attuale Museo a Tirana, è anche passato per il Museo militare di Mosca (figura 7).

Figura 7. Anche in questo articolo, il mitra francese MAS38 di Michele Moretti viene presentato come “l’arma di Valerio”, che era invece un mitra Thompson calibro 45 ACP, che risultò non aver sparato un colpo e che venne restituito subito dopo la missione da Valerio al suo proprietario.

La lettera di trasmissione che qui riportiamo come Figura 8 è estremamente interessante. Data al 15.5.1945, nemmeno tre settimane dall’esecuzione. Il Comandante “Riccardo” (Gementi Oreste) di Como asserisce senza mezzi termini che “il partigiano “PIETRO” (Michele Moretti) ha giustiziato Mussolini”.

Si noti che il resoconto sull’esecuzione di Mussolini uscì su l’Unità del 1° maggio 1945, ma in forma anonima. Fu soltanto a partire dal marzo 1947 che Audisio si fece avanti per assumersi l’onere di essere “il partigiano che giustiziò Mussolini”.

Chi scrive, come tutti coloro che leggono, quel 28 aprile, non c’era. Ma utilizzando il sempre comodo rasoio di Occam: Audisio pronunciò la sentenza, Moretti la eseguì con il suo mitra, Lampredi sparò il colpo di grazia al cuore di Mussolini.

La sacra trimurti della vera resistenza, quella che fece, ripetiamo ancora, giustizia. A loro tre, a Michele Moretti (figure 9 e 10), Aldo Lampredi, Walter Audisio, riconoscenza e rispetto.

Figura 9. Michele Moretti (“Pietro Gatti”), commissario politico della 52ª Brigata Garibaldi
Figura 10. Ingiallita dal tempo, questa fotografia ritrae alcuni dei partigiani della 52a Brigata Garibaldi. In particolare, in primo piano, si riconosce al centro, con la giacca bianca, i baffi ed un mitra in mano, il Commissario Politico Michele Moretti (Pietro Gatti): quel mitra potrebbe quindi essere quello che ha giustiziato Mussolini. Grazie, compagni
Figura 8. Il mitra francese MAS38 di Michele Moretti fu quello che sparò a Mussolini, e prima di approdare al suo attuale Museo a Tirana, è anche passato per il Museo militare di Mosca. La lettera di trasmissione data al 15.5.1945, nemmeno tre settimane dall’esecuzione. Il Comandante “Riccardo” (Gementi Oreste) di Como asserisce senza mezzi termini che “il partigiano “PIETRO” (Michele Moretti) ha giustiziato Mussolini”.

 

1 La frase, abbreviata, darà poi il titolo al libro di memorie di Walter Audisio, “In nome del popolo italiano”.

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3 Commenti


  • Oigroig

    Sta di fatto che la liceità del tirannicidio è affermata persino dai padri della Chiesa, Agostino, Tommaso, ecc. Nell’Orlando furioso il tiranno Marganorre è torturato e ucciso perché ucciderlo subito sarebbe troppo poco rispetto ai suoi delitti. In Fuenteovejuna di Lope de Vega il tiranno viene linciato dalla folla che ne fa a pezzi il corpo. Non è che Agostino, Tommaso d’Aquino, Ariosto o Lopez de Vega fossero uomini sanguinari o brutali. Avevano una consapevolezza dei fenomeni distruttivi del potere e su come possono essere tenuti a freno dalla collettività.


  • antonio d.

    Un solo commento: di fermarono purtroppo per non emulare il processo fi Norimberga. He avrebbe fatto “piazza pulita “ di tale infamia fascista. Un solo episodio “illuminò” quel periodo: Stresa! Fatevene una ragione! Salut


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