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Italexit. Una prospettiva che si può subire o sovvertire

La Piattaforma Sociale Eurostop convoca a Napoli, il 21 maggio, un’assemblea nazionale intorno all’idea “Italexit. Una via per rompere la gabbi dell’Unione Europea”.

Che si tratti di una gabbia, non c’è più alcun dubbio. Ma non solo o non tanto – come dicevano all’inizio i fascioleghisti – per la piccola e media impresa nazionale, quanto per i lavoratori e tutto quel che li riguarda: salario, diritti, organizzazione, welfare.

Basta qui citare una recente intervista dell’economista francese Jacques Sapir: “Il principale “scopo” dell’Euro era creare questa situazione di federazione “allentata” tra i paesi europei e, più importante, disciplinare il mercato del lavoro e distruggere i servizi e le infrastrutture sociali di molti paesi. Penso che questa idea politica dell’Euro fosse più importante di qualsiasi idea economica”.

Quella federazione appare oggi così allentata da far temere (al capitale multinazionale, innanzitutto) che possa rompersi in modo imprevisto, magari saltando sulla mina di uno dei tanti referendum popolari che sempre hanno bocciato i trattati europei disegnati nelle segrete stanze di Bruxelles o Francoforte. A giugno si vedrà se la Brexit inglese sarà realtà oppure evitata per un soffio. Ma comunque sia, la questione dei migranti ha evidenziato come una cartina al tornasole lo stato comatoso delle “regole” quando si deve uscire dal calcolo ragionieristico e affrontare lo spaesamento di interi paesi.

Non è bastata, alla sconclusionata e perennemente illusa “sinistra radicale” italiana, la sorte subita dalla Grecia, brutalizzata e sommersa nella crisi da un potere indifferente ai risultati del referendum dello scorso luglio, che bocciò sonoramente il “memorandum” della Troika. Una dimostrazione pratica dell'”irriformabilità” di certi trattati, che viene spesso usata anche come monito per tutti gli altri paesi Piigs, Italia in testa. Si può dunque serenamente dire che la prospettiva dell’uscita è ogni giorno sul tavolo: puoi essere cacciato, senza neanche avere piani di riserva, oppure prepararsi a battaglie durissime che hanno un senso solo se preparano un altro terreno, un altro modo di tenere insieme paesi diversi.

In questa Unione valgono invece solo i puri rapporti di forza, in primo luogo economici e finanziari, non i princìpi che vengono sbandierati nei discorsi ufficiali. E questi rapporti di forza dicono che non c’è modo, spazio, budget per costruire un’Unione federale e progressiva. E non perché ci siano dei paesi “cattivi” (in cima a tutti la Germania), quasi esistesse davvero una “nazione perversa”. Ancora Sapir, nella stessa intervista, fa i conti con una impossibilità economica, prima ancora che finanziaria o “culturale”:

se vuoi avere un vero federalismo, hai bisogno di avere un vero budget federale. E questo budget deve essere attorno all’8/10% del Prodotto Interno Lordo. Più importante, ci sarà bisogno di spostamenti di capitale dai paesi più ricchi a quelli più poveri. Il problema è che quando si è provato ad avere una stima di quanti soldi sarebbero stati dovuti trasferire, si è parlato di un ammontare di circa 200/300 miliardi di Euro all’anno.

da dove dovrebbero arrivare i soldi? È assolutamente ovvio che debbano provenire principalmente dalla Germania, perché è il Paese più ricco del blocco. Con alcuni colleghi abbiamo fatto una stima. La Germania dovrebbe pagare l’8/11% del PIL, ogni anno, per circa 8/10 anni. Ora, il problema vero non è che la Germania rifiuta il federalismo, loro non sarebbero in grado di sostenere un peso simile. E gli altri paesi non possono chiedere alla Germania uno sforzo simile, perché vorrebbe dire distruggere la loro economia.

Una macchina che non funziona, ma che qualcuno si illude di poter “registrare” in corsa stringendo ancor più certi vincoli mentre se ne lasciano allentati molti altri.

Disgregazione o consolidamento sono alternative che si giocano in questi anni. E da un punto di vista di classe appare evidente come entrambe le alternative, senza un protagonismo del blocco sociale che ha al centro il lavoro (occupati, precari, disoccupati, pensionati, studenti, neet, ecc) sono uno scenario da incubo.

Bisogna dunque agire, capire ed agire, per far sì che la direzione di marcia di questo convoglio scombiccherato e impazzito diventi “contendibile” (parafrasando il linguaggio caro ai cultori del turbocapitalismo) e non venga, al contrario, subita come un “destino” ineluttabile.

Ci si vede a Napoli, non per caso. Perché il Mezzogiorno di questo paese evidenzia meglio di qualsiasi analisi lo sfascio derivante dalle politiche volute dalla Troika. A Napoli, non per caso, perché in quella città il movimento di classe, nella sua dimensione metropolitana, sta sperimentando una Resistenza che esce dai soliti schemi.

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