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Leila Khaled, simbolo di resistenza, respinta dall’Italia

É un’equazione: dove c’è occupazione, c’è resistenza. Non può essere diversamente, quando sei oppresso resisti”. Queste le parole pronunciate in una recente intervista da parte della militante, resistente e prima guerrigliera donna della storia palestinese: la compagna Leila Khaled.

Da circa un mese l’UDAP (Unione Democratica Arabo-Palestinese) stava organizzando una serie di incontri in Italia (Cagliari, Roma e Napoli) per le celebrazioni del 50o  anniversario della nascita del Fronte Popolare Liberazione della Palestina (FPLP).

Il Fronte è, attualmente, ancora l’unico partito della sinistra radicale palestinese ad avere un forte seguito nei Territori Occupati (Cisgiordania, Gaza), nei campi profughi palestinesi (Giordania, Siria e soprattutto Libano) e ad essere regolarmente riconosciuto come forza politica sia del Consiglio Nazionale Palestinese, ma sopratutto, dell’OLP (Organizzazione Liberazione Palestina).

Sbarcata all’aeroporto di Fiumicino, invece, le autorità italiane non le hanno riconosciuto il visto di ingresso nel nostro stato o, come meglio precisato dalle autorità di polizia, “dell’area Shengen”. Una banale scusa, facilmente confutabile, visto che nei mesi scorsi Leila Khaled aveva partecipato ad altre manifestazioni simili in Spagna ed in Belgio: a Bruxelles aveva  fatto un intervento al Parlamento Europeo.

Molto probabilmente le autorità italiane, come si temeva dall’inizio, si sono sottomesse ai diktat ed alle pressioni israeliane per boicottare l’ingresso della militante ed icona di tutta l’area anti-sionista e antimperialista internazionale. Pressioni che sono arrivate con numerose interrogazioni e interpellanze di esponenti politici in maniera trasversale, da Forza Italia al Partito Democratico, o con una campagna mediatica della stampa mainstream (Corriere, La Stampa, La Repubblica, Il Mattino) denigratoria e ignorante nei confronti della Khaled.

Secondo la quasi totalità dei numerosi editorialisti interpellati, Leila Khaled è considerata ancora oggi, dopo 40 anni, una “terrorista”. Un termine purtroppo attualmente inflazionato a causa dei numerosi attentati che insanguinano l’Europa come i paesi musulmani e sono frutto del terrorismo di matrice jihadista. La guerrigliera Khaled, al contrario, viene considerata da gran parte dei movimenti  antagonisti come un’appartenente alla Resistenza Palestinese contro l’occupazione israeliana.

Gli episodi incriminati sono i due dirottamenti ai quale la Khaled partecipò. Il FPLP aveva avviato una serie di dirottamenti con l’obiettivo di far conoscere al mondo la frustrazione,gli omicidi, l’umiliazione e la feroce  condizione di occupazione portata avanti dal Tel Aviv. Una pratica, quella dei dirottamenti, che funzionò e fu poi anche utilizzata da altre formazioni palestinesi, anche se i dirottamenti dovevano essere prevalentemente dei “catalizzatori mediatici” e non dovevano “mai in nessun caso provocare vittime innocenti” secondo le parole della stessa Khaled. “Sarebbe un controsenso per la stessa ideologia del nostro partito”- affermò l’allora segretario del FPLP George Habbash – “combattere per gli oppressi (i palestinesi,ndr) e uccidere degli innocenti”.

Il primo dirottamento (volo TWA Los Angeles – Tel Aviv) fu fatto nel 1969. La Khaled con un altro militante del Fronte salì a Roma (ironia della sorte) ed il volo fu fatto atterrare a Damasco: tutti i passeggeri sbarcarono incolumi e l’aereo fu fatto esplodere. Il secondo dirottamento fu quello del 1970 (volo El Al  Amsterdam –  New York) nel quale un agente di sicurezza israeliano riuscì a sventare il tentativo di dirottamento ed uccise il compagno della Khaled, Patrick Arguello, americano di origine nicaraguense. “Avevo con me due bombe a mano”- dichiarò la Khaled  nel suo libro autobiografico “Il mio popolo vivrà” – “ma ovviamente non le utilizzai per uccidere degli innocenti”. L’aereo fu fatto atterrare a Londra, dove la militante del Fronte venne incarcerata per essere poi liberata dopo uno scambio di prigionieri.

Leila Khaled è, per tutta una generazione, una guerrigliera ed una partigiana perché da sempre ha giustificato le proprie azioni – di fatto non uccise mai nessuno – come gesti di lotta per liberare una terra ingiustamente occupata, per combattere contro l’assassinio di migliaia di palestinesi (pratica tuttora utilizzata dal governo di Tel Aviv), per resistere ad una continua violazione dei diritti di un popolo che da oltre 70 anni vive oppresso e recluso o esiliato.

Combattere per la libertà di un popolo, per la restituzione di una terra e contro un’occupazione si può, quindi, considerare, come per i nostri partigiani,  terrorismo o resistenza?

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1 Commento


  • alex1

    Strano che gli analoghi terroristi della banda “Stern” vengono o sono stati considerati degli statisti. Un metro di misura ben diverso.

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