Il pensiero della cosiddetta “sinistra” italiana si mostra colonizzato dai luoghi comuni del potere su molte questioni, tanto da non sapersi più nemmeno definire unitariamente. Molti dei temi sono in fondo quasi secondari. Per esempio, tutta la retorica sui “diritti civili”, da decenni patrimonio comune nell’area, continua ad essere rimestata come acqua in un paiolo per quasi assoluta mancanza di idee efficaci su argomenti un po’ più interessanti “agli occhi delle masse”. Se guardiamo alle recente campagna elettorale, peraltro, si vede facilmente che temi “nostri” come l’abolizione della riforma Fornero e del Jobs Act sono stati disinvoltamente cavalcati da forze che non si fanno problemi ad agitare quel che l’analisi dei sondaggi pone loro davanti in primo piano.
Anche Potere al Popolo, nonostante l’indubbia differenza qualitativa nella spinta creativa alla formazione della lista (non è un “intergruppi”), ha fatto fatica a farsi riconoscere come soggetto portatore di una visione generale efficace. Ossia ad accompagnare l’esposizione del programma (una “lista della spesa” più o meno condivisa) con l’indicazione del nemico contro cui ci si batte e il modo in cui si pensa di realizzarlo una volta che – augurabilmente – si dovesse arrivare “al governo del paese”.
Può far sorridere la preoccupazione di darsi una visione strategica con questo obiettivo quando si è a poco più dell’1%. Ma un qualsiasi movimento politico che si presenta alle elezioni (o in qualsiasi altro modo si proponga di cambiare l’esistente) o viene percepito come soggetto in grado di realizzare ciò che promette oppure si rassegna al voto (o ruolo) “identitario”. Che in Italia è ormai ridotto ai minimi termini, come dimostra il risultato di chi ancora prova a sopravvivere sfruttando il “tesoretto” di consensi (non più) garantito dalla simbologia comunista.
Il problema lo abbiamo posto in modo semplice già all’inizio di questa avventura:
Mettiamo che si riesca a fare una lista “vera”, con punti così semplici che ogni lavoratore o abitante delle periferie li riconosca al volo come propri. E mettiamo che, alla faccia dei pronostici, questa lista prenda il 51% e quindi possa formare un governo popolare “monocolore”, che ovviamente metterebbe subito all’ordine del giorno la realizzazione di quei punti, scrivendo e approvando le leggi relative.
Cosa pensiamo che accadrà in quei giorni? Chi è che proverà ad impedircelo?
In logica è un “ragionamento per assurdo”, utile però a sgombrare il campo da una serie di condizioni che ostacolano la visione della struttura del campo di gioco.
Quel qualcuno che “proverà ad impedircelo” ha nella realtà empirica un nome e un cognome. Sul piano istituzionale è l’Unione Europea, su quello finanziario sono “i mercati” e la moneta comune, su quello militare è la Nato. Un sistema di vincoli che – viene detto esplicitamente dai boss – non ammette “riforma” diversa da quelle che loro stessi propongono per gestirlo.
Sappiamo benissimo che molta compagneria, arrivata a questo punto, preferisce scuotere la testa, bofonchiando formule esorcistiche prese di peso dagli editoriali di Repubblica e del Corsera, oppure derubricando questo livello di discussione come “ideologico”.
“I padroni” sono un po’ più accorti, anche perché hanno migliori informazioni. E dunque non si fanno problemi “ideologici” se c’è da riconoscere una questione concreta. Basterebbe forse guardare l’incertezza con cui i due vincitori delle elezioni – M5S e Lega – stanno approssimandosi alla formazione di un governo. Entrambe le formazioni sono infatti perfettamente consapevoli che quanto hanno promesso in campagna elettorale (compresi interi pezzi presenti anche nel “nostro programma”, come le pensioni o il reddito) è impossibile da realizzare dentro gli attuali vincoli europei. E dunque sanno che l’agognato ingresso nella “stanza dei bottoni” potrebbe coincidere con l’inizio della propria fine nel “gradimento” della popolazione “rancorosa”.
Basterebbe anche guardare agli “avvertimenti” che quotidianamente arrivano da Bruxelles, di certo ben poco interpretabili come questioni “ideologiche”.
Va ringraziato comunque Sergio Fabbrini*, che in un editoriale per IlSole24Ore, organo di Confindustria, ricorda a tutti la struttura dei vincoli, le scelte possibili entro quei margini, i problemi strutturali che minano la costruzione dell’Unione Europea, compresa la continua tensione tra interessi nazionali e politiche comunitarie. Ovviamente senza ideologia…
Neanche Fabbrini rinuncia a bollare come “sovranista” ogni opzione politica si ponga – anche soltanto a fini elettorali, come per M5S, Lega e FdI – l’obiettivo di recuperare in tutto o in parte la possibilità di decidere autonomamente le politiche economiche, fiscali, la stessa gestione dei flussi migratori.
E’ comprensibile, perché Confindustria conta ancora sulla possibilità di mantenere un alto livello di “apertura dei mercati internazionali” – nonostante Trump o per recuperare altrove gli stessi sbocchi commerciali – e dunque di poter proseguire sul modello neo-mercantilista (bassi salari, bassa domanda interna e crescita trainata dalle esportazioni). Un modello che presuppone il mantenimento di vincoli rigidissimi su politiche salariali, dell’occupazione, del debito pubblico. Quindi la conservazione della forza dominante dei vincoli europei.
Meno chiaro è perché tanta “compagneria” usi lo stesso modo di parlare, e di valutare il mondo, pur avendo interessi del tutto opposti a quelli delle imprese. In fondo, vocabolario alla mano, sovrano è quel soggetto “che non ha altro potere o autorità da cui dipenda nell’ordinamento politico-giuridico di cui fa parte“. Il soggetto che decide, insomma; e che la Costituzione identifica nel popolo, non nei “mercati”.
A Fabbrini non sfugge che la “retorica europeista” fa a cazzotti con le pratiche effettive della Ue. E gli è chiarissimo che il “metodo intergovernativo” adottato da sempre ha favorito un consolidamento di rapporti di forza squilibrati a favore delle economie più solide (Germania, in primis), tale da accentuare tutti gli squilibri anziché ridurli.
Squilibri che hanno avuto conseguenze politiche, alla lunga, producendo sentimenti e culture “euroscettiche” di dimensioni sociali direttamente proporzionali al grado di benessere delle rispettive popolazioni. Dunque (quasi) limitate in Germania e fortissime in Italia o altrove. Fabbrini evita di nominare – non per caso – la Francia, dove il panorama politico recente ha proposto un euroscetticismo di destra (il Front Nationale di Marine Le Pen, oggi in crisi dopo il 21% alle presidenziali) e un euroscetticismo popolare e di sinistra (France Insoumise, guidata da Jean-Luc Mélenchon, in forte ascesa dopo il 19,6% del 2017), che si propone un radicale cambiamento della struttura dei trattati (il cosiddetto Plan A) o, ove questo fosse impossibile (e lo è, stante la logica di quei trattati) l’uscita unilaterale della Francia e di altri paesi con interessi simili (il Plan B).
Detto altrimenti, un movimento che persegue la costruzione di una diversa comunità di Stati che abbia per obiettivo il benessere sociale delle popolazioni e non l’appropriazione privata di una quantità di ricchezza sempre maggiore. Una visione che non è affatto “l’altra Europa” malamente buttata lì per legarsi mani e piedi alla fallimentare esperienza di Tsipras, ma delinea la prospettiva di un’area euromediterranea capace di tenere insieme paesi europei e del Nordafrica.
“E’ il momento delle scelte strategiche”, titola giustamente l’editoriale di Sergio Fabbrini.
Vale anche per Potere al Popolo, che ha tutto il tempo e il modo di impostare finalmente una discussione seria, concreta, programmatica, su come si vuol trasformare il malessere palese della maggioranza della popolazione in autentico progetto di cambiamento sociale.
Non c’è fretta, ma c’è una scadenza certa. Il prossimo anno ci sono le elezioni per il Parlamento europeo. Sarebbe singolare arrivarci senza esserci chiariti le idee – almeno quelle – su come si lotta dentro questa gabbia e come si prova a romperla.
Senza nazionalismi e senza ideologia. Ma davvero.
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Italia e Ue, il momento delle scelte strategiche
Come spiegare il fatto che, domenica scorsa, più della metà dell’elettorato italiano, abbia dato il voto a due partiti (5 Stelle e Lega) che avevano un programma (dichiaratamente) sovranista? Quelle elezioni, forse per la prima volta, ci hanno consegnato un’Italia politicamente unificata intorno a uno stato d’animo sovranista, rappresentato al nord dal centro-destra a guida leghista e al sud dai 5 Stelle.
Naturalmente, il voto ai due partiti è dovuto anche ad altre micro-ragioni, tuttavia esso esprime un comportamento elettorale diffusamente omogeneo. Si tratta di un voto che esprime la richiesta (da parte di elettorati diversi) di recuperare il controllo su cruciali politiche nazionali, come quella di bilancio e quella migratoria. Per magnitudine e diffusione, quel voto è stato un vero e proprio terremoto politico.
Eppure, l’interpretazione predominante di ciò che è avvenuto continua a essere sconsolatamente idiosincratica. Al fondo, per la nostra cultura pubblica, ciò che spiega tutto è la variabile personale della leadership. I seggi erano appena chiusi che si è subito aperta la discussione su chi fa il governo con chi, su chi prende il posto di chi, su chi può allearsi con chi. Ma non è il caso, invece, di capire (prima) cosa è avvenuto per individuare (poi) una possibile via di uscita (se ce n’è)?
Il 4 marzo ha portato alla superficie politica una diffusa insicurezza economica (negli elettori del sud) e una altrettanto diffusa insicurezza territoriale (negli elettori del nord). Il sud ha pagato più di altre aree la crisi economica e si è sentito escluso dalla ripresa successiva. Il nord ha subìto più di altre aree l’immigrazione e l’ha percepita come una minaccia identitaria alla propria coesione sociale. Il fatto è che entrambe le insicurezze sono state generate da politiche (quella economica e quella migratoria) su cui l’Italia ha competenze e risorse limitate. Si tratta di politiche che vengono decise nel sistema europeo dell’interdipendenza (l’Eurozona nel primo caso, l’Unione europea o Ue nel secondo caso) e non nel sistema nazionale dell’indipendenza.
Infatti, a partire dal Trattato di Maastricht del 1992, la decisione su queste (e altre cruciali) politiche è stata trasferita a Bruxelles. Non poteva essere diversamente, visto che gli stati nazionali non avrebbero potuto affrontare da soli sfide superiori alle loro capacità di governo.
Tuttavia, quel trasferimento ha rafforzato l’Europa intergovernativa, non già quella sovranazionale. A partire da quel Trattato, gli stati nazionali (come singoli) hanno rinunciato volontariamente al controllo di quelle politiche, ma hanno poi cercato di recuperarne il controllo (come collegialità) attraverso la governance intergovernativa.
Tuttavia, il sistema intergovernativo creato per gestire collegialmente quelle politiche ha finito per generare effetti non previsti (dai governi che l’avevano negoziato).
Nelle condizioni di crisi con caratteri redistributivi (come quella finanziaria o migratoria), il sistema intergovernativo ha finito per creare gerarchie di potere tra i governi nazionali oppure per generare stalli decisionali. Così, nella politica finanziaria, le decisioni prese (stabilità invece che crescita) sono risultate congruenti con gli interessi dei Paesi predominanti oppure, nella politica migratoria, le decisioni che non sono state prese (controllo sovranazionale delle frontiere e dei flussi) hanno favorito i Paesi meno esposti ai processi migratori.
In tutti i Paesi europei c’è stata una reazione sovranista per gli effetti della crisi finanziaria e dell’immigrazione. Tuttavia, quella reazione sovranista ha avuto dimensioni sostanzialmente diverse tra di essi. Ad esempio, le forze sovraniste hanno conquistato il 13% degli elettori in Germania (nelle elezioni del 24 settembre scorso), mentre hanno ottenuto più del 50% in Italia (nelle elezioni del 4 marzo scorso).
Perché? Secondo qualcuno ciò è dovuto al fatto che gli italiani sono diventati più “anti-europeisti” dei tedeschi. Non è così. Secondo un recente policy brief di Eupinions, ben il 66% degli italiani continua a essere favorevole a una maggiore integrazione economica e politica. Ciò che occorre spiegare è perché quel 66% era superiore di ben 10 punti solamente due anni fa (collocandosi allo stesso livello della Germania di oggi, nella quale i favorevoli a una maggiore integrazione sono il 75%).
Per spiegare queste variazioni e cambiamenti occorre capire la logica di funzionamento della governance intergovernativa. La gestione intergovernativa della politica economica consente ai Paesi forti (come la Germania) di esportare le proprie esigenze interne, mentre avviene il contrario per i Paesi deboli (come l’Italia). Oppure, nella politica migratoria, consente ai Paesi anti-solidaristici (come l’Ungheria) di bloccare politiche di solidarietà verso Paesi che ne hanno bisogno (come l’Italia).
Contrariamente a ciò che è stato sostenuto da diversi politici europei oltre che da studiosi autorevoli (come, il pur ottimo, Dani Rodrik), l’interdipendenza europea (nelle politiche fiscali o migratorie) non ha portato a un ridimensionamento uniforme delle sovranità nazionali. Infatti, alcuni stati membri (come la Germania) hanno potuto combinare il sostegno alla sovranità europea con la preservazione della propria sovranità nazionale, mentre altri stati membri (come l’Italia) hanno dovuto rinunciare alla seconda per poter fare parte della prima.
Se così è, allora non ci si può stupire che i cittadini italiani si sentano più insicuri dei cittadini tedeschi rispetto alla loro capacità di condizionare politiche cruciali per la loro sicurezza (economica o territoriale). Qui vanno ritrovate le basi strutturali del voto del 4 marzo, non già nell’idiosincrasia verso l’uno o l’altro leader.
C’è una cosa che all’Italia non manca: una chattering class che cresce esponenzialmente dopo ogni elezione. Se invece di chiacchierare cercassimo di capire, allora dovremmo prendere atto che il nostro malessere è il risultato dell’intreccio tra ritardi italiani e asimmetrie europee. Invece di pensare a come posizionarsi nel nuovo scenario post-elettorale, la classe dirigente di un grande Paese dovrebbe piuttosto individuare le domande strategiche a cui i leader politici (in ascesa o in discesa) sono tenuti a rispondere. È possibile (e come) sostenere l’integrazione europea senza svuotare il controllo nazionale di cruciali politiche pubbliche?
Insomma, invece di dividersi su chi governerà, o su chi si alleerà con chi, non sarebbe meglio discutere (e quindi dividersi) sugli obiettivi strategici (in Europa e in Italia) che il nuovo governo dovrebbe perseguire? Se l’Europa è problema e soluzione insieme, non sarebbe il caso di distinguere tra chi vede solo il problema e chi invece pensa anche alla soluzione?
* Sergio Fabbrini è direttore della Luiss School of Government e professore di Scienze politiche e relazioni internazionali presso la LUISS Guido Carli, dove ha una cattedra Jean Monnet in Istituzioni e politica europea. Dal 1996 è professore ordinario di politica comparata presso il Dipartimento di Scienze politiche e l’Istituto di studi governativi dell’Università della California a Berkeley.
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sfruc
Ciò che sfugge a tanti compagni provenienti dall’area della c.d. sinistra radicale – di quella liberal non parlo per carità di patria – è che la teoria e la prassi del “vincolo esterno” rende impossibile qualsiasi autentica politica economica, industriale e di bilancio, nonché qualsiasi operazione redistributiva a compenso delle crescenti disuguaglianze.
Se non ci si domanda PERCHE’ la torta è piccola, si fanno solo battaglie di retroguardia. Resta solo la fuffa e la baruffa su come spartirsi le misere briciole di quella torta – tra disoccupati e pensionati, tra nuovi poveri autoctoni e poveri d’importazione, tra poco anche tra maschi e femmine o tra gay ed etero – senza mai domandarsi perché la torta è piccola né, tanto meno, proporre qualcosa di EFFETTIVO E PRATICABILE per renderla grande.
Fuori della discussione seria sul vincolo esterno – strumento principe ma non unico del nostro asservimento neoliberista alla grande finanza – c’è solo fuffa benintenzionata. Di cui è lastricato l’inferno