Nel parco industriale di Hawassa, nell’Etiopia meridionale, lavorano più di 20mila persone. Il governo di Addis Abeba ha investito 250 milioni di dollari per edificare la struttura. Le tasse per le industrie straniere che vogliono aprire qui una fabbrica sono inoltre particolarmente basse. E gli affitti sono stati fissati a 25 dollari al metro quadrato. Obiettivo: fare della nazione africana il nuovo eldorado delle multinazionali del tessile.
Eppure, qualcosa non sta andando secondo i piani dell’esecutivo africano. Per comprendere cosa stia accadendo negli immensi hangar di Hawassa, occorre fare un passo indietro di qualche anno. Da quando, cioè, l’Asia non è più il (solo) centro nevralgico dell’industria tessile mondiale. Benché molte multinazionali del settore siano ancora presenti in nazioni come Bangladesh, Pakistan, Vietnam e Cina, una serie di ragioni le hanno spinte infatti a cambiare orizzonti.
La scelta, come sempre, è di natura finanziaria: ormai, produrre in estremo Oriente non è più così vantaggioso. I lavoratori cinesi, ad esempio, hanno visto i loro salari medi crescere in modo continuativo negli ultimi anni. Nel 2014, per avere un termine di paragone, per un lavoratore di Addis Abeba bastavano poche decine di euro al mese. Meno ancora di quanto necessario in Bangladesh. Così, secondo il Wall Street Journal, già cinque anni fa produrre un abito in Etiopia costava la metà rispetto alla Cina.
Un rapporto del Centro Stern per i Diritti dell’uomo dell’università di New York spiega che nelle fabbriche etiopi gli operai possono essere pagati anche soltanto 23 dollari al mese. Contro i 309 minimi della Tailandia, i 182 della Cambogia, i 95 del Myanmar, i 280 dell’Indonesia
«Qui costiamo anche sette volte meno rispetto agli altri Paesi», gongolava il governo della nazione africana, sognando di diventare la nuova meta di riferimento dell’industria. Grazie ad una nazione giovane, estremamente povera, assetata di opportunità e ricca di capitale umano. I calcoli li hanno fatti anche non pochi board di grandi marchi. Dalla britannica Tesco alla svedese H&M, che hanno aperto fabbriche nella nazione africana.
Così come la cinese Huajian, fornitrice di nomi ultra-noti come Guess e Tommy Hilfiger. E ancora Decathlon, Levi’s, Calvin Klein. Così, l’Etiopia è diventata la nuova frontiera delle storture della globalizzazione. A tutto vantaggio del capitalismo prêt-à-porter, ancora capace di commercializzare t-shirt a 5 euro e jeans a 19.
Qualcosa potrebbe però interferire (almeno in parte) con i piani delle grandi corporations. A pochi anni dall’apertura delle prime fabbriche in Etiopia, i rendimenti non sembrano decollare. E numerosi operai non esitano a lasciare i loro posti, di fronte a paghe da fame (le più basse del mercato). Che coprono a malapena le spese sostenute per mangiare, affittare un alloggio e recarsi al lavoro.
Così, il turnover è arrivato a toccare il 100%. Alcune multinazionali hanno dovuto perciò rimpiazzare l’intero effettivo nel giro di un solo anno. E fronteggiare perciò costi non previsti per la formazione del personale. «In questo modo, produrre una t-shirt a Hawassa comincia a costare più caro rispetto al Bangladesh», afferma un esperto citato nel rapporto. «Il potenziale è enorme, ma i problemi lo sono altrettanto», aggiunge un manager etiope del gruppo Decathlon.
Di fronte a condizioni di lavoro inaccettabili, gli operai moltiplicano infatti le assenze, i ritardi. Bloccano le macchine da cucire per chiacchierare con i colleghi. E non esitano a dar vita a scioperi a ripetizione. Tanto la peggior cosa che può capitare è di essere licenziati (per chi non si è ancora dimesso).
«In alcune fabbriche asiatiche – osservano gli autori del rapporto – i manager gridano contro gli operai. In Etiopia, ciò è inaccettabile. Il principale errore del governo è stato di far credere ai fornitori asiatici e agli acquirenti occidentali che i lavoratori africani avrebbero accettato salari bassissimi senza lamentarsi».
«Per cambiare le cose, occorre trasformare il modello economico di produzione del settore – ha commentato Nayla Ajaltouni, dirigente dell’associazione francese Éthique sur l’Étiquette, al quotidiano Novethic -. Esso resta basato infatti sulla minimizzazione dei costi, che distrugge il Pianeta e sfrutta gli esseri umani. Occorre un trattato internazionale vincolante. L’approccio “soft” non funziona».
A partire dall’Etiopia: se le grandi aziende vorranno restare, dovranno cambiare. Per la pacchia delle produzioni low cost sulle spalle del lavoratori e dei guadagni stratosferici potrebbe essere l’inizio della fine.
*da https://valori.it/stipendi-da-fame-letiopia-del-tessile-si-ribella-ai-padroni-del-pret-a-porter/
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Sergio
Ottimo e doloroso articolo, ma perché “quasi”? Li chiamano operai ma sono i moderni schiavi del lavoro salariato, legati alla catena di montaggio e del lavoro seriale, hanno un salario che gli consente a malapena di vivere e riprodursi. Questo succede anche nei paesi più ricchi dove il divario con il padrone che li sfrutta è ancora più umiliante.
Solidarietà con gli operai etiopi!!!
Un ex operaio della Breda fucine