Il Senato ha finalmente approvato l’emendamento scuola che ora passerà, senza apprensioni, anche alla Camera, visto che si userà ancora lo strumento della fiducia al governo.
Si tratta di un compromesso tra le forze di maggioranza che non fa contento veramente nessuno. Primi tra tutti gli scontenti i precari, che tali restano e che se immessi in ruolo avrebbero potuto dedicarsi da subito solo ai loro studenti quando invece dovranno pensare a un concorso durante l’inverno. Non sono contenti nemmeno gli studenti e le famiglie, né gli insegnanti di ruolo che in tale emendamento non trovano risposte chiare ai problemi che sta vivendo la scuola.
In effetti, tra decreti ministeriali ed emendamenti, pareri del Comitato Tecnico Scientifico del governo, Comitato di Esperti del Ministeri dell’Istruzione è difficile trovare certezze. Quest’ultimo comitato, peraltro, ha consegnato il suo rapporto alla ministra, senza che emergessero grandi scostamenti riguardo a quanto avevamo anticipato.
In questa grande confusione, alcune linee di tendenza e qualche idea-chiave si possono decifrare. Idee chiave che si possono riassumere in meritocrazia, valutazione, destrutturazione del lavoro dell’insegnante, decisionismo dei capi d’istituto, collaborazione con il privato.
Anzitutto, la scuola a settembre riaprirà in condizioni nuove e avrà l’esigenza di classi meno numerose e di spazi adeguati. Per raggiungere questi due obiettivi le risorse non ci sono. Su questo il Comitato Tecnico Scientifico è stato chiaro poiché nel suo documento sulla riapertura delle scuole si legge: “Ulteriore elemento di criticità risiede nell’insufficienza delle dotazioni organiche del personale della scuola nella previsione di una necessaria ridefinizione della numerosità delle classi per esigenze di distanziamento”.
Infatti non si deve dimenticare che i 32.000 precari che saranno riconfermanti non si aggiungono ai docenti attualmente in servizio, poiché già lo erano, quindi non ci sarà un vero aumento del personale docente, che comunque dovrebbe essere incrementato in modo ben più massiccio.
All’assunzione diretta dei precari si oppone il concetto meritocratico, tante volte evocato dalla senatrice Granato, fiera sostenitrice della necessità di accertare con un esame le competenze professionali di persone che nella scuola lavorano da anni. Inoltre la scuola non si regge solo sui docenti ma proprio in questo momento avrebbe bisogno di più personale ATA, vale a dire segretari e collaboratori scolastici, indispensabili per il rispetto del distanziamento, delle norme sanitarie e per l’igiene dei locali.
Eppure, dopo avere fatto una tale affermazione il comitato prosegue nel suggerire una serie di provvedimenti che sembrano non tenerne conto, riguardanti non solo il ridimensionamento delle classi ma tutti i momenti della vita scolastica, che, si sostiene, dovrà svolgersi su un orario più esteso, gestito non si sa da quale personale.
Sul versante dell’edilizia scolastica, il governo ha stanziato dei fondi, apparentemente insufficienti, che saranno gestiti dai comuni, con un passaggio di competenze che allungherà i tempi decisionali.
Singolare che nessuno sembri ricordare che sarebbe decisivo per la prevenzione nelle scuole e per l’assistenza al personale ripristinare le cosiddette sale mediche, un tempo obbligatorie in tutte le scuole di grandi dimensioni, in cui era costante la presenza di un infermiere e, in alcuni giorni, anche di un medico.
Nel momento in cui ci si rende conto che la dismissione delle strutture territoriali e di prevenzione è stato uno dei punti deboli nel fronteggiare la pandemia, la riapertura di un servizio di medicina scolastica sarebbe almeno da prendere in considerazione.
Ma veniamo al piano più propriamente pedagogico. Anzitutto la questione valutazione. Nell’emendamento scuola c’è l’elemento positivo dell’abolizione del voto numerico nella scuola primaria, ma solo dal prossimo anno (perché si devono aggiornare i registri elettronici!). Il voto sarà sostituito da un giudizio.
Sembra un passo avanti, ma potremo pronunciarci solo quando il Ministero avrà stabilito come dovrà essere tale giudizio e su quali elementi dovrà basarsi. Per il resto in tema di valutazione restano rigidità insostenibili. Se è vero che (quasi) tutti gli alunni verranno ammessi all’anno successivo, coloro che lo saranno con delle insufficienze dovranno svolgere un percorso di recupero per cui i docenti stenderanno un piano individuale, con un ennesimo aggravio del lavoro burocratico. Inoltre appare singolare la norma per la quale i genitori degli alunni disabili potranno richiedere la reiscrizione dei propri figli alla stessa classe frequentata quest’anno.
Un’implicita ammissione che la didattica a distanza, tanto esaltata dal Ministero, per questi alunni non funziona e una strana delega alle famiglie a prendere decisioni che spetterebbero anche agli insegnanti. Peraltro, del fatto che la didattica a distanza escluda molti studenti, testimonia, se ancora ce n’è bisogno, una ricerca della Cgil secondo la quale solo il 30% degli insegnanti riesce a raggiungere tutti i propri studenti per via telematica, con percentuali ancora più basse nel sud e nelle isole.
Quanto al lavoro degli insegnanti, l’allungamento dell’orario scolastico, l’ormai quasi certa riduzione dell’ora di lezione a 40-45 minuti, il conseguente e probabile aumento del numero di classi in cui prestare servizio preludono a una destrutturazione del loro lavoro, a una totale messa a disposizione rispetto alle decisioni dei Dirigenti, accompagnata da una costante presenza telematica, iniziata durante gli ultimi mesi di emergenza.
Proprio qui si apre un capitolo inquietante, cioè il tentativo di sfruttare l’epidemia per imporre surrettiziamente cambiamenti che andranno ben oltre il periodo dell’emergenza e che con essa non hanno nulla a che fare. Ne è un esempio lampante il tentativo del Ministero di istituzionalizzare la didattica a distanza, rendendola permanente quando invece è una didattica emergenziale.
In questo dibattito è entrata con decisione anche l’Associazione Nazionale Presidi con un documento pubblicato il 25 maggio che, al di là del titolo (Le proposte dell’ANP per la riapertura della scuola) sembra proporsi appunto come una proposta di riforma complessiva delle relazioni pedagogiche e sindacali nella scuola, ma anche dei rapporti con gli altri enti pubblici e con i privati.
Tale documento propone , in sostanza, di eliminare dalla scuola ogni forma di democrazia per dare il totale potere al capo d’istituto, attorniato da un middle management di docenti evoluti che avrebbero una carriera (e una retribuzione) diversa dagli altri insegnanti.
Ciò prefigura una frammentazione del corpo docente attraverso carriere diverse e separate e riorganizzate su basi gerarchiche. Evidentemente, a tale cambiamento epocale nella condizione professionale degli insegnanti, si dovrebbe accompagnare una revisione (o abolizione?) del contratto nazionale di lavoro, reso più agile e flessibile.
Inoltre, per rafforzare la decisionalità dei capi d’istituto, si propone l’abolizione degli organismi di partecipazione stabiliti dal Decreti delegati del 1974, ritenuti superati e d’ostacolo alla possibilità di prendere decisioni rapide.
Quanto alla valutazione, il documento dell’ANC introduce, quasi naturalmente, l’idea che rispetto alla valutazione delle conoscenza apprese, ci si concentri piuttosto sulla certificazione delle abilità e delle competenze. Un’impostazione che dà la priorità a ciò che serve per il lavoro e le imprese rispetto ai saperi. Fatto peraltro coerente con l’idea che la scuola debba “servire i cittadini e le imprese nel miglior modo possibile”.
La scuola deve avere “una funzione generativa all’interno del welfare generale, “facendo rete” con tutti i soggetti portatori d’ interesse”. Questa concezione del welfare, cioè il partenariato tra pubblico e privato, è esattamente ciò che è stato fatto nella sanità, segnatamente in Lombardia, e che ha portato ai disastri che tutti noi constatiamo. Purtroppo nelle “riforme” istituzionali nel nostro paese scuola e sanità sono quasi sempre appaiate.
Concludiamo con qualche nota sui prossimi esami di maturità. Sempre nel suo delirio meritocratico e valutativo, il Ministero non ha preso in considerazione alcuna possibilità di formalizzare tale esame che, anche se ridotto a un solo orale, si terrà in presenza. Le linee guida sono tuttavia piuttosto vaghe. Si parla di accurata pulizia quotidiana di tutti i locali, cosa che dovrebbe essere effettuata comunque anche in periodi normali, di mascherine e di distanze.
Sul fatto che esistano forti dubbi sulla sicurezza di un esame così condotto, testimonia la richiesta dei dirigenti scolastici di depenalizzare gli infortuni sul lavoro. Ammalarsi di Covid-19 è considerato infortunio sul lavoro, quindi in caso un insegnante s’ammalasse, potrebbe chiamare in causa il dirigente. Inoltre agli insegnanti verrà richiesta un’autocertificazione sul non avere avuto contatti con persone contagiose, che non ha evidentemente alcun senso perché non si può esserne certi e appare quindi come un tentativo di scaricare sui singoli le responsabilità del governo e delle amministrazioni.
Infine, purtroppo, anche sulla questione scuola, il governo non vuole considerare che la situazione di rischio è assai diversificata sul territorio nazionale, dove ci sono regioni come la Lombardia che ha ancora oggi centinaia di contagi quotidiani e altre dove la situazione è migliore.
Si continua con la politica adottata a marzo quando il governo, su pressioni degli industriali e degli amministratori regionali del nord, non volle adottare il criterio di stabilire alcune zone rosse e altre di minor pericolosità, trasformando tutta l’Italia in una zona “arancione”. Una scelta che è costata cara e che dovrebbe essere riconsiderata anche per la riapertura delle scuole, dove i provvedimenti e le precauzioni sanitarie potrebbero essere graduati in base al rischio effettivo in ogni territorio.
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