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Giovanbattista, Carmine, l’indignazione piccolo-borghese

Com’è noto, alcuni giorni fa Napoli è stata scenario di un nuovo, tragico episodio di spietata violenza metropolitana.

Un ragazzo di sedici anni ha estratto la pistola e ha sparato alle spalle un giovane di ventiquattro anni: Giovanbattista Cutolo. Per futili motivi legati al parcheggio di uno scooter.

Chi ha perso la vita era un musicista. Un cornista della Young Orchestra Scarlatti. Una delle istituzioni culturali più prestigiose della città. Un giovane brillante e talentuoso.

Dall’altra parte, un “adolescente difficile” cresciuto e tenuto ai margini di quello che si ritiene con presunzione il ‘consesso civile’. Uno di quei figli dei quartieri popolari, collocati alla periferia della produzione e dell’esistenza umana.

In carico presso i servizi sociali del Comune di Napoli, il ragazzo, con precedenti per tentato omicidio e truffa, era seguito dagli assistenti sociali della II Municipalità, che si occupano dei giovani dei Quartieri Spagnoli. Insomma una storia di ordinario degrado sociale.

Il fatto, per la sua crudele insensatezza, ha chiaramente avuto enorme risonanza in città, turbando le coscienze di gran parte dei cittadini napoletani.

Naturalmente, tanti sono stati i commenti che si sono susseguiti su Facebook. Da quelli più razionali e analitici a quelli più viscerali e forcaioli.

Commenti che però hanno suscitato in chi scrive, a prescindere dal tono che li ha contraddistinti, una reazione a dir poco avversa e intollerante.

Perché francamente l’indignazione social – così piccolo-borghese, totalmente individualistica, così virtuale e tanto poco reale e veritiera – per quest’ennesima tragedia cittadina, la trovo alquanto disturbante.

Si rincorrono, senza alcuna possibilità di ascolto emotivo, retorica a mani basse e ipocrisia ‘buonista’.

Invettive giustizialiste e istigazione alla vendetta. Inviti a gettar via la chiave e invocazioni allo stato di polizia.

Imprecazioni stupide e autocastranti contro la Napoli ‘brutta, sporca e cattiva’ e sollecitazioni a lasciare la città al più presto, soprattutto se si è giovani e dotati di talento. Con tanto di sottinteso classista.

Quella Napoli che però, secondo le statistiche, non figura neanche tra le città europee più pericolose.

E ancora. Caramellosità sentimentali e inni impostori o macchiettistici alla ‘bellezza’. Considerando poi che spesso quegli artisti che innalzano quegli inni sono poi costretti a lavorare per l’orrore mercantile pur di apparire e guadagnarsi la vita.

Ma torniamo all’indignazione social.

Arroganza intellettuale. Sociologismi inutili e superficiali. Riduzionismi grotteschi. Appelli alla “mobilitazione generale” che, quand’anche vengano recepiti, si schiantano contro un muro di stanca ritualità. Per esserci, insomma, e non per cambiare.

Perché o ci si mobilita contro un sistema complessivo che uccide Giovanbattista come ammazza cinque operai su un binario di notte o stupra una donna tramite sette ragazzi fuori di testa; oppure il presidio testimoniale, a massacro compiuto, è più ridicolo che altro.

Accuse ai modelli culturali che condivido solo in parte. Rabbia per una società fondata sul denaro e l’egoismo giusta, ma assolutamente inerziale.

Troppo facile, infatti, sistemarsi con uno smartphone in mano o davanti ad un Pc e digitare qualche lettera (e vale anche per il sottoscritto, naturalmente).

Soprattutto se i protagonisti di questi tragici episodi sono figli delle periferie, dei quartieri più difficili e poveri.

Allora s’ invocano più polizia e più carcere. Si chiede il lutto cittadino. La cerimonia. Si organizza un presidio a Piazza Bellini. E ci si mette l’anima in pace… Fino al prossimo omicidio. Fino alla prossima perdita dell’innocenza.

E il giorno dopo si ritorna a farsi i cazzi propri. A non fare nulla. Ad urlare per il prossimo goal di Osimhen. Anche giustamente, perché la vita continua.

Ma la domanda da porsi, come ho letto su una bacheca, non è perché è stato ucciso Giovanbattista. Una domanda alla quale non c’è risposta, se non l’insensatezza.

Ma perché il sedicenne ha ucciso.

È lì che bisogna lavorare. Non per migliorare ma per sovvertire, letteralmente, un sistema malato di individualismo, egoismo, potere, arroganza, merce, denaro, consumo, comodità e tartuferia borghese.

Le lacrime, le lagne sulla bontà e la bellezza, la retorica perbenista e sinistrese e anche i presidi di civiltà, stanno a zero.

Allora, a questo punto, permettetemi di raccontarvi una storia. Una storia personale. Che vede protagonisti due ragazzi di diversa provenienza sociale, ma molto più simili di quanto il ceto d’origine possa suggerire.

Perché è la vita spesso ad avvicinare. Sono le difficoltà, la sofferenza e gli insulti subiti.

A prescindere dalle famiglie, dagli studi e dalla originaria appartenenza di classe.

Carmine

Carmine era amico mio. Carmine era ‘o guaglione do’ salumiere ca purtava ‘e spese.

Era mio coetaneo, Carmine. Quando ci siamo conosciuti avevamo entrambi undici anni.

Benché mingherlino sembrava però più grande di me di almeno due anni, Carmine. Era come se l’infanzia non l’avesse conosciuta.

A me Carmine stava simpatico, mi piaceva. Aveva paura del mio pastore tedesco e allora quando veniva a consegnare io scendevo in giardino e mantenevo York per farlo passare.

Poi si fermava a giocare per qualche minuto a pallone con me, fuori al terrazzo.

Eravamo fortunati. Vivevamo in una bellissima casa dark con giardino e terrazzo ma di affitto pagavamo pochissimo.

Un palazzo del seicento a Via Settembrini, vicino la Piazzetta omonima e a pochi metri da Porta San Gennaro. Di fronte alla Sanità. Insomma, un quartiere popolare.

Era incazzato, Carmine. Era inquieto, Carmine. E quell’inquietudine rabbiosa se la portava impressa nel volto. Gli accendeva gli occhi verdi e tristi, ma furibondi.

Era violento, Carmine, e la sua violenza la sfogava in ogni calcio che tirava al pallone.

Era orfano e mio padre e mia madre lo portavano con noi la domenica, al bosco o ai Camaldoli a giocare.

La sua era la violenza della vita. La violenza delle ingiurie subite e senza colpa. In questo mi assomigliava.

Certo, io ero il figlio della media borghesia e lui veniva dagli istituti e dalla periferia dell’essere. Ma nonostante fossimo tanto piccoli, la nostra breve esistenza ci aveva segnati.

Se a lui l’infanzia e l’adolescenza gliel’avevano sottratte la povertà e la morte, a me i sogni li avevano spenti sei anni di molestie subite. Ma soprattutto la cultura borghese di una famiglia che preferiva nascondere la cosa e dare a me la colpa.

Io l’irrequietezza di Carmine, la sua virulenta tristezza, la sua impaurita violenza, le sentivo mie. Istintivamente. Mi ci sono voluti decenni per capire.

Fummo amici per due anni circa. Poi lui, intorno ai tredici/quattordici anni cambiò lavoro. Non ne seppi più nulla.

Io continuai la scuola con non sempre brillanti risultati. Ma soprattutto divenni nazista. Cominciando ad attraversare un’adolescenza complicata.

La coscienza di classe e la cultura marxista le avrei maturate con il sopraggiungere della maggiore età.

A sedici anni presi in mano la mia prima arma da fuoco. A diciassette anni giravo regolarmente armato di pistola o di coltello. Non mancavano le collateralità con persone del sistema.

Ho più volte minacciato qualcuno. Per motivi politici anche, ma a dire il vero innanzitutto per futili ragioni.

Mi sentivo invulnerabile con la pistola e la molletta addosso. E sicuramente avrei potuto provocare qualche tragedia.

La cultura era apparentemente quella del dominio. In realtà era solo terrore. Il mio.

Qualche anno dopo, un giorno, incontrai Carmine fuori al vicolo di casa. Era vestito con un giubbotto di pelle marrone molto costoso e girava su una moto di quelle potenti.

Aveva occhiali da sole Ray-Ban dietro cui nascondere gli occhi iniettati di eroina. Mi avvicinai per salutarlo, ma mi freddò: «Veciè nun me saluta’ cchiù. ‘O ddico pe’ te».

Non capii. Io mi sentivo come lui. Ancorché nato in una famiglia “perbene” – insopportabile stimmate sociale – sentivo l’appartenenza ad un quartiere difficile dove se non sapevi usare le mani finivi spesso per essere sopraffatto.

Non esisteva ancora la più asettica ‘bullizzazione’. Te vatteveno e basta. E quelle mazzate facevano male. Al corpo e alla dignità maschile. E sì, il machismo era parte dell’insegnamento della strada.

Io, dunque, non la vedevo proprio la differenza con Carmine. Anzi, non la accettavo.

‘A vita ‘e miezo ‘a via e i suoi codici mi attiravano e li sentivo miei. Certo molto più dei codici di una famiglia che, per quanto corretta, non aveva saputo tutelarmi. Distruggendo così per sempre – direi fortunatamente – il mio rapporto con la simbologia della legge.

Carmine però voleva proteggere il suo vecchio compagno di giochi. Oramai lui non era più Carmine. Era diventato ‘O Nano. O anche Carminone.

Una volta all’ospedale Incurabili, mentre ero ricoverato per una frattura al piede, sentii dire da uno degli affiliati del quartiere: «Comme Maradona tocca ‘o pallone accussì ‘o nano sapeva ausa’ ‘a pistola».

Era diventato il killer numero 1 di Peppe Misso, Carmine. Il boss nero implicato nella strage del rapido 904. Anche Carmine fu coinvolto nell’orribile strage di Natale. Si diceva che avesse messo lui la bomba.

Quattro anni prima, dopo aver lasciato il lavoro di garzone di salumeria, Carmine era andato a lavorare nel negozio di scarpe di proprietà del boss,“Uomo” a Via Duomo, e da lì aveva scalato la gerarchia criminale. Perciò non lo avevo più incontrato.

Gli spararono una sera sotto Porta San Gennaro, mentre era nella sala da biliardo Unil. Io mi stavo fumando una canna con un amico. Sentimmo gli spari.

Aveva 17 anni Carmine.

Io di lì a poco avrei cominciato a bucarmi. E la pistola l’avrei utilizzata qualche altra volta. Rubare era parte di quella vita.

Carmine era stato un mio fratello. Non l’ho mai dimenticato. Forse addirittura un modello di ispirazione, in una giovinezza difficile dove il dolore, la rabbia e la violenza spesso insensata hanno avuto il sopravvento.

Certo io sono qui e sono vivo. A raccontare. E soprattutto sono un uomo diverso. Testimonianza del fatto che gli orizzonti possono anche mutare durante la navigazione. E anche le acque.

Ma quel male di vivere c’è. È là. C’è la sua tempesta e me la porto dentro.

Soprattutto mi porto dentro la memoria di quello che è stato. Senza rimorsi o inganni gesuitici. Perché quello che sono oggi, giusto o sbagliato che sia, è il percorso di una storia.

E nulla mi farà mai giudicare con gli occhiali deformanti della morale vicende che sono il risultato di una realtà malata.

Una realtà fondata su quella cultura borghese, liberale e mercantile che tutto rende merce e tutto usa a scopo di profitto.

Ma dove il bene e il male, con un’ipocrisia degna dei peggiori chierici, vengono contrapposti in modo manicheo.

Una realtà che si regge sullo stupro delle menti, delle coscienze e dei corpi. E sul silenzio complice. Come quello dolorosamente incomprensibile della mia famiglia.

Carmine per la società borghese era una malapianta. Che ha meritato la fine che ha fatto. E se fosse vissuto quella società lo avrebbe voluto chiudere al 41 bis.

Per me invece era un fratello. Soprattutto per la disperazione che covava intimamente e che alimentava la sua ferocia.

Una ferocia che non gli aveva impedito però di proteggere il suo vecchio amico.

E allora?“, direte voi. “Che cosa ci vuoi dire?” Allora è semplice.

Giovanbattista era la parte sana e bella di questa società. Ma un mondo di sola bellezza e rettitudine sarebbe un mondo mostruoso, esso sì. Un mondo nel quale non vorrei mai vivere.

Accanto a Giovanbattista c’è Carmine. Con la sua solitudine e violenza. Con la sua innocente e atroce colpevolezza.

È anche lui “figlio di questo mondo”, come direbbe De André. Pensateci.

Dismettete per un momento la toga da giudice supremo. E i cenci luridi insozzati dall’ipocrisia!

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2 Commenti


  • Alessandro Di Meo

    Non mi convince per niente la fine del racconto. Un mondo di “sola bellezza e rettitudine” non sarebbe MAI un mondo mostruoso perché anche i potenziali Carmine avrebbero la loro funzione, il loro ruolo, la loro necessità di esistere per qualcun altro. Si continua a sbagliare nel mitizzare le vite violente e senza speranza (cosa che, ad esempio, fa il cinema, purtroppo molto spesso, evidentemente per problemi di cassetta!) mentre ne andrebbe semplicemente evitata la ragione d’essere (non certo col 41 bis o con pene di morte o ergastoli). Però, bisogna fare molta attenzione perchè la scorciatoia per una vita da “Dandy” sono sempre parecchi che vorrebbero prenderla, senza starci a pensare troppo su. “Un mondo di sola bellezza e rettitudine” dovrebbe avere anche il compito di vigilare su questo. Comunque, mi rendo conto, non sii può esaurire un argomento del genere con quattro righe. Grazie del contributo, che serve ad accendere le menti. Alessandro


  • Alessandra Borgia

    come sempre, sono assolutamente in sintonia con il tuo pensiero caro Vincenzo, anche sull’ ipocrita e orrenda visione di un mondo fatto solo di bellezza . non potremmo nemmeno più chiamarla così nn avendo il contraltare del male insito in tutti noi che abbiamo solo avuto la fortuna di accedere a noi stessi, farci domande, indirizzare la rabbia, il senso di ingiustizia e la mancanza di senso che spesso attanaglia i momenti di crescita…lo trovo uno scritto bellissimo.

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